Umberto Adamoli
NEL TURBINIO D'UNA TEMPESTA
(DALLE PAGINE DEL MIO DIARIO. 1943/1944)


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     Nulla arrestava i demolitori improvvisati, quando avrebbero dovuto pur considerare che quel partito, sorto e sostenuto per oltre 20 anni da molti applausi e dall'autorità del Re, al quale aveva pure giurato fedeltà ed aveva donato un impero, più che per le sue ideologie, cadeva per i vizi, per il mal costume degli uomini, che ne dirigevano la fortuna. Cadeva per quelle catene che essi uomini, perdendo il bene delle umane facoltà, intendevano di stringere sempre più attorno al più sacro patrimonio, che è quello della libertà. Cadeva per una smodata avidità di conquista e per una errata valutazione delle proprie possibilità, in rapporto agli eventi in svolgimento, al valore delle alleanze internazionali.
     Non capivano neppure che, in una composta ferma dignità, si poteva non nascondere di essere stati fascisti, quando per gli onesti, per quelli di buona fede, fascismo poteva significare, entro la legalità delle leggi, marcia verso l'elevazione intellettuale, morale e materiale del popolo lavoratore; verso la perfezione delle libere istituzioni; verso le maggiori fortune della nazione, entro la forza della quale il proletariato, in una più alta giustizia sociale, doveva vedere il trionfo delle sue legittime aspirazioni.

     Il tralignamento doveva essere imputato, non all'idea, ma a quegli stessi uomini, che con i loro inganni, la loro avidità di godimento e di ricchezza ne avevano minate le fondamenta, determinata la caduta, senza speranza di risorgimento. Essi soltanto dovevano temere, se mai, la giusta reazione, la giusta ira dei propri camerati e del popolo tradito.


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Umberto