Umberto Adamoli
I BANDITI DEL MARTESE
(Romanzo storico)


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     Non poté non fare il nobile cittadino, sul triste caso, con la mite compagna, le sue penose considerazioni. Non aveva fatto mai del male, aveva fatto sempre del bene e un vivo amor di patria ardeva nel suo cuore. Ed ora era là sotto una pioggia di volgari insulti e di minacce.
     Sorte comune agli onesti, agli apostoli della carità, dei santi umani ideali.



     CAPITOLO SETTIMO

     Il cerchio si stringeva sempre più attorno alle bande rimaste a sostenere da sole, senza molte speranze, le proprie ragioni. I signori di Spagna potevano ancora trionfare, ma soltanto in forza del numero e della potenza dei mezzi distruttivi.
     Mai nei secoli la silenziosa vallata del Vomano, che aveva pure visto le legioni di Roma e di Cartagine, era stata turbata da tanto fragore. Le palle degli obici e dei cannoni continuarono a cadere sul poggio col rumore della tempesta, con la potenza della folgore. Non rimaneva in piedi, in tanta rovina, che la piccola chiesa, dove officiava padre Fulgenzio, rimasto con i difensori.

     Nel mentre sulla montagna alcuni italiani, con serena fermezza, imponevano rispetto allo straniero, a Teramo altri italiani, se così si potevano chiamare, con vile animo ripetevano il tradimento di Giuda.
     I fedifraghi erano stati raccolti dal Preside, presso di sé, per l'elogio. Con il loro atto, diceva, avevano dimostrato di possedere molto giudizio. La Spagna, con i vasti possedimenti, si poteva ritenere l'erede legittima di Roma. Il potente suo esercito correva vittorioso da un punto all'altro della terra a difesa anche della romana Chiesa, seriamente minacciata.


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Umberto