Umberto Adamoli
I BANDITI DEL MARTESE
(Romanzo storico)


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     Prima che il sonno scendesse sul loro campo, prostrati a terra e rivolti verso la Mecca, secondo il proprio rito, elevarono ad Allah la preghiera, che si diffuse come un lamento nella notte.
     Stavano, nell'esaltazione mistica del loro fanatismo, profondamente assorti, quando d'improvviso si rovesciò su di essi una nuova tempesta di proiettili, entrando subito dopo in funzione e unghie e lame di pugnali ben affilate.
     La fuga verso il basso salvò i superstiti.
     Dei giorni che seguirono gli aprutini, dopo di aver respinto un terzo violento attacco, resero onore e sepoltura ai caduti.
     I comandanti si raccolsero per le loro considerazioni.
     "I nostri pugnali e le nostre unghie", disse Santuccio a Giulio, "hanno sin qui trionfato sulla scimitarra. I figli pallidi della mezzaluna torneranno, senza dubbio, in maggior numero e con maggiore violenza, alla quarta prova. I nostri non cederanno, ne sono sicuro. Parevano non uomini, nella lotta, ma spiriti folli sorti dalle tenebre. Non deluderemo Venezia, né le care cittadine che si specchiano bianche sul mare. Non arretreremo, a ogni modo. Se noi cadremo anch'essi gli infedeli cadranno, ma i nostri corpi dovranno pur sempre costituire una barriera tra la mongolica rabbia e il latin sangue gentile.

     Ma ti veggo, Giulio, nonostante le chiare vittorie, ancora pensoso. Quali altri sentimenti ti tormentano?"
     "Non certo, Santuccio, quelli della paura. I banditi del Martese non conoscono la dea dei vili, né temono la morte. Non si può, però, in quest'ora difficile impedire alla fantasia i suoi voli, all'affetto i suoi diritti. Per la prima volta sento l'animo avvolto da fredda ombra. Torneremo alle nostre montagne?"


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Umberto