Umberto Adamoli
I BANDITI DEL MARTESE
(Romanzo storico)


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     Dopo queste dichiarazioni in comune, ognuno si raccolse con la propria famiglia, per mitigare, nella carezza della speranza, l'intimo affanno.
     Rivolsero finalmente al buon padre Fulgenzio affettuose parole d'ammirazione e di gratitudine per la sua opera e per il suo religioso patriottico spirito. Gli ricordarono che se il tentativo di costituire la repubblica aprutina, simile a quella di Senarica, era fallito, ciò non doveva far disperare per l'avvenire. Il tentativo, in un tempo più favorevole, poteva essere ripetuto con concetto più largo, da non escludere la possibilità dell'unità nazionale. Essi intanto, lasciando le native montagne, andavano a portare in altre contrade il loro contributo per questa più grande costruzione.
     Mentre cadeva la sera Giulio, Santuccio e Titta ripresero la via di Valle Castellana, per completare i preparativi della partenza.

     Il giorno dopo, di buon'ora, le loro famiglie, anch'esse sotto il dolore della separazione, lasciarono Montorio, per tornare ognuna alla casa paterna.
     Padre Fulgenzio, ritenuta ormai finita la sua missione fra i banditi, pure lui rientrò in convento per invocare con maggior fervore la protezione del cielo sugli amici, destinati ad altre più ardue imprese.
     In tal modo si poteva ritenere chiuso il primo ciclo del banditismo politico abruzzese, durato, con le sue varie vicende, oltre un secolo.



     E' vero che in esso erano apparse figure notevoli come quelle di Marco Sciarra, del barone Giulio Bosales, di Giuseppe Colranieri che avevano compiuto atti generosi; ma era anche vero che non tutti avevano avuto un vero e proprio carattere. Oggi potevano essere con gli uni, domani con gli altri. Oggi amici benigni, domani nemici pericolosi. Oggi potevano accorrere a rintuzzare una qualche violenza, domani divenire essi stessi attori di violenza. Ne facevano eccezione, per l'educazione e lo spirito dei loro capi, le tre bande che stavano per partire per Venezia.


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Umberto