Umberto Adamoli
I BANDITI DEL MARTESE
(Romanzo storico)


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     Che ne dici tu, Giulio?"
     "A me sembra, Santuccio, di non essere più banditi. Il buon seme, gettato a Teramo nei nostri animi, germoglia, come in un'acqua di maggio, al soffio del benefico amore. La tua generosità di oggi è ancora una prova.
     E' ormai giorno. Andiamo a portare alle nostre prigioniere, col saluto, la nostra buona parola."



     "Ci lascerete libere davvero?" disse Barbara a Santuccio, rimasti soli nella conversazione.
     "I banditi del Martese, per la vita e per la morte, non promettono invano. Tornerete alle vostre case, qualunque sia la risposta dei vostri governanti. Se si rendesse necessario, terremo con noi i giovani, condotti qui con voi. Non vogliamo far piangere occhi così belli."
     "Chi vi ha detto che ho pianto? Le lagrime non hanno arrossato i miei occhi."

     "Me ne rallegro. Ditemi allora: quale ricordo serberete, quali racconti farete sul nostro conto alle vostre case, alle vostre amiche? Molte cose, sulla vostra avventura, vorranno sapere."
     "Cosa dobbiamo rispondere, se siete stati con noi tanto educati?"
     "Che siamo banditi, per un ideale, non predoni, che viviamo, nel nostro piccolo mondo, con nostre leggi, che siamo nemici di coloro che conculcano la nostra patria. Per il resto siamo come tutti gli altri, con l'odio e l'amore. E io amo. Ma i banditi spaventano. Non importa, ché l'amore, il più bizzarro dei sentimenti conforta a sperare, come apprendiamo dalle tante novelle, che piacevolmente si raccontano, nelle sere d'inverno, vicino al focolare.
     Castellane che ascoltano, nella notte, il canto dell'errante trovatore; nobili dame che porgono l'orecchio alle voci che salgono ad esse dall'oscurità della strada; principesse, e non poche, sfolgoranti di giovinezza, che si lasciano involare dal romantico amatore. Hanno torto? Per i pregiudizi del mondo, sì; per i diritti del cuore, no.


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Umberto