Umberto Adamoli
NEL TURBINIO D'UNA TEMPESTA
(DALLE PAGINE DEL MIO DIARIO. 1943/1944)


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     Dal treno, ove alla partenza erano stati a viva forza e confusamente cacciati, gettavano sul marciapiede della stazione d'arrivo, tra un chiasso scomposto, con i cenciosi fagotti, tutti gli altri oggetti, che non dovevano servire che a ricordare loro, con i tuguri abbandonati, il vecchio Vesuvio, il bel mare di Sorrento, tutto il luminoso cielo partenopeo. Giungevano quasi nudi, o con abiti a brandelli, sudici, con i capelli arruffati, gli occhi cisposi, le barbe incolte, pieni d'insetti, compagni fedeli della miseria.
     Ma nel lasciare la loro magica Napoli, non avevano dimenticato di portare con sč il piccolo ringhioso cane, l'apatico sornione gatto, e, tra le tante sciagure, il buon umore, la tipica chiassosa loro natura, e quel concetto, molto semplice, in essi molto radicato, della proprietą.

     Nelle scuole, dove erano provvisoriamente sistemati, con il concorso di medici, infermieri, barbieri, con la distribuzione di oggetti di biancheria e di vestiario, si sottoponevano ad una efficace opera di umana bonifica.
     Nella serata, dopo cena, nel caldo di agosto, saliva da quegli alloggiamenti e da quei naufraghi, nel patetico canto, accordato alle chitarre e ai mandolini, che avevano pure portati con sč, il melanconico spirito della loro Napoli lontana.

     Giungeva in quei giorni, pure da Napoli, e metteva subito in atto, a favore del popolo, la sua squisita bontą, il professore Raffaele Caporali, vanto della terra d'Abruzzo. Lo accompagnava la nobile coraggiosa sua Signora donna Giacinta, che, quantunque fosse essa stessa vittima della guerra, si metteva ai primi posti nel prodigare il bene a favore dei colpiti della sventura.


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Umberto