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Conversazione tenuta da Umberto Adamoli a Teramo il 5 giugno 1937


Nell'iniziare questa mia conversazione avverto che essa, a differenza delle altre conversazioni, non discende dalla dottrina che forma, completa, illumina la mente e le sue facoltà; ma come valori morali e spirituali di primissimo ordine, discende dai ricordi, dai racconti di atti e fatti, che nella loro bellezza e nella loro santità, non possono non scuotere, non commuovere, non infiammare la mente ed il cuore. Parlo, da soldato e da combattente, genuinamente, nella pura verità, di gesta guerriere e di valore.
Rammento di avere già trattato un tale argomento, qui a Teramo, se non erro, tre anni or sono. Ma limitai allora la gloriosa rievocazione al solo primo anno di guerra ed alla sola zona del Trentino. Quel primo anno di guerra, che rivive in noi vecchi combattenti in tutta la magica epica bellezza delle prime prove, dei primi esperimenti, delle prime lotte e con il disagio, e con il pericolo, e con la beffarda deità della morte. Quel primo anno, e questo è bene ricordarlo, nel quale si doveva provvedere a colmare i gravi difetti, o meglio le gravi colpe di deboli governi con i nostri petti, con il nostro entusiastico slancio, con la forza di una eroica volontà, ed anche con la serena mistica rassegnazione al più duro dei sacrifici. Quel primo epico anno, in cui si riteneva, si credeva, ed anche da parte di nostri valorosi comandanti, come fosse sufficiente il tradizionale valore, il tradizionale slancio latino e garibaldino per vincere ogni resistenza, per superare reticolati e trincee, per espugnare, per conquistare campi trincerati. Quei campi trincerati che si ergevano minacciosi, formidabili dinanzi a noi, e contro i quali spesso si infrangevano, in un fiume di sangue ed in una luce di gloria, i nostri primi generosi tentativi di passaggio e di conquista, i nostri forti assalti. Sacrificio larghissimo di sangue e della migliore nostra giovinezza, in quel primo tempo, ma sacrificio non inutile, poiché serviva bene a scuotere i deboli, i pavidi, i dubbiosi, che mai mancano nella vita; a modificare molte errate credenze e molti errati sistemi; ad aprire, a segnare, ad illuminare quella via sulla quale dovevano poi passare, nelle alterne ed aspre vicende della lunghissima lotta, le armate vittoriose.
Di tale periodo allora parlai. Sono lieto oggi di poter rivivere, specialmente con i giovani, che sono in spirituale eroica formazione per le lotte future, in altre rievocazioni, in altri episodi della nostra grande, magnifica epopea nazionale. Sono lieto anche per il fatto che la rievocazione avvenga in questo mese, luminoso, sacro davvero agli eventi, ai destini della nuova grande Italia, ed avvenga quando io torno, con animo profondamente, religiosamente commosso, da un pellegrinaggio di devozione e d'amore nel santuario azzurro dei prodi di nostra terra. Di quei prodi combattenti di questa nostra forte provincia, che ebbero sempre ad assolvere i loro doveri di guerra senza titubanza, senza lamenti, senza stanchezza, non solo, ma che figuravano sempre tra i primi nell'assalto, nel pericolo, nella lotta, i primi sempre nel rischio, nella morte, come luminosamente si desume dalle motivazioni, che formano appunto gli epici canti, che io ho devotamente raccolti in questo albo di verità, di sangue, di luce, di gloria.
E leggo, per una migliore comprensione, qualcuna di queste motivazioni; qualcuna soltanto delle centinaia che formano l'albo stesso, poiché se differiscono nei fatti, sono tutte identiche nello spirito, nella bellezza epica, nella bellezza eroica.
E di queste motivazioni leggo preferibilmente quelle che si riferiscono a semplici soldati o graduati, poiché essi meglio rappresentano, nella semplicità e nella spontaneità dei loro atti, lo spirito, il carattere del nostro popolo buono, laborioso, generoso ed eroico. Gli ufficiali, come i fratelli Barba vostri concittadini, ai quali rivolgiamo in questo momento affettuosamente reverente e pieno di ammirazione, il nostro pensiero, furono degni di questi soldati.

AMADIO Bernardino, da Fano Adriano, soldato 36. Reggimento fanteria - In una azione di guerra, particolarmente importante e difficile, dava tutta l'opera propria con ardimento eccezionale. Mirabile esempio di valore, primo fra tutti piombava sulle linee nemiche. Colpito a morte, non aveva un lamento per sé ma parole di incoraggiamento e di incitamento per i compagni che l'attorniavano. Tierno (Val Lagarina), 3 novembre 1918.
Mirabile esempio di valore, questo soldato dell'ultimo bando, che con eccezionale ardimento, come dice la motivazione, piombava primo sul nemico. Colpito a morte, non si rammaricava, non pensava a sé, alla vita che gli mancava, ma con la visione viva della patria nell'anima, pensava ad incoraggiare, ad incitare i compagni alla lotta, al combattimento. Non può non commuovere il caso di questo prode soldato dell'ultimo bando, che cade eroicamente combattendo alla vigilia del grande trionfo, poco prima dell'ultimo colpo di cannone.

AMBROSI Emidio, da Teramo, sergente maggiore del 1. granatieri - Benché ferito non desisteva da fiera lotta corpo a corpo. Ferito di nuovo mortalmente cadeva gridando: "AVANTI GRANATIERI! RICORDATEVI DI ESSERE GRANATIERI!" - Monfalcone, 10 agosto 1915.
Io ritengo che non vi possa essere espressione più viva, più bella di attaccamento, di amore alla propria divisa, di spirito di corpo, di amor di patria. Ricordatevi di essere granatieri! Come dire ricordatevi che voi rappresentate qui in guerra una secolare eroica tradizione; che voi rappresentate qui in guerra, e nel fisico e nello spirito, il fiore dell'italica giovinezza. Quindi dovete combattere, dovete morire, ma non piegare, non retrocedere. Questo voleva dire, nel morire, e come solenne consegna ai granatieri, il nostro bravo Ambrosi. E tutti sanno quale pagina di splendido valore i granatieri di Sardegna, i granatieri d'Italia, abbiano scritto nella storia della grande guerra.

CASTIGLIONI Campitello, da Cermignano, soldato 11. Battaglione bersaglieri ciclisti - Sempre primo ad affrontare il nemico con fiero sprezzo del pericolo, durante un assalto, di balzo si spingeva innanzi ai compagni. Circondato da un forte nucleo avversario, alle intimazioni di resa rispondeva raddoppiando l'accanimento a difendersi, finché sopraffatto e mortalmente ferito, lasciò gloriosamente la vita sul campo. - Scolo Palumbo (Piave), 22 giugno 1918.
Si deve ritenere già bravo il soldato che in combattimento, innanzi alla morte, resta al suo posto senza impallidire, senza tentennare. Ma il nostro Castiglioni Campitello, già decorato al valore nella guerra libica, non si accontentava della comune bravura. Come aveva sempre fatto, nell'ultimo assalto si slanciava primo oltre la propria linea, oltre l'ardimento, sul nemico. Quantunque solo, poiché i compagni non lo seguono, non lo possono seguire nella temeraria impresa, non si sgomentava, non tentennava, non si arrendeva alla forza del numero, ai numerosissimi nemici che lo avvolgevano, lo stringevano con le armi da ogni parte. Non tentennava, non si arrendeva il prode, ma combatteva con tutte le sue forze, da leone, e moriva, come doveva morire, di morte gloriosa.

DE LUCA Davide, da Atri, sergente 36. squadriglia aviatori - Pilota esperto ed ardito, impegnava combattimento con due velivoli nemici, che tentavano compiere un'incursione sul nostro territorio, obbligandoli alla fuga. - 25 agosto 1916 - In servizio di crociera, si spingeva volontariamente sulle linee avversarie e, benché l'apparecchio fosse rimasto colpito, continuava il volo a bassa quota, costringendo tre pallon frenati ad atterrare. - 10 ottobre 1916 - Durante un aspro combattimento incontrava gloriosa morte. - Cielo Carso, 13 aprile 1917.
Affidarsi al capriccio, alla volubilità, alla instabilità delle ali metalliche, in quel primo periodo della grande guerra, significava già possedere cuore ben saldo, animo ben temprato. Ma il nostro bravo De Luca non soltanto non si turbava del pericolo di quelle ali, ma su di esse, in nobile gara con i migliori volatori, affrontava e superava pericoli ben maggiori. Ma anche quelle ali, come quelle della leggenda, non potevano non essere colpite dal duro fato, per aver troppo osato oltre la terra, nello spazio immenso ed azzurro del cielo.

FATEBENE Giovanni, da Civitella del Tronto, sergente 139. reggimento fanteria. - Questo bravo soldato, pure dell'ultimo bando, promosso sergente per merito di guerra, guadagnava sul campo di battaglia, oltre a numerosi encomi, due medaglie d'argento al valore, e ciò in brevissimo tempo. 1. medaglia: Comandante di un plotone, alla testa dei suoi uomini, con mirabile ardimento e sprezzo del pericolo, per ben cinque volte si slanciava con impeto travolgente al contrattacco. Giunto sulla posizione contrastava, con lotta corpo a corpo, ne cacciava il nemico fortemente trincerato e faceva numerosi prigionieri. - Monte Asolone, 15 giugno 1918. 2. medaglia: Incurante del fuoco della difesa si slanciava all'assalto con irresistibile impeto, sorpassando ben munite posizioni nemiche ed affrontando più volte impari ma vittoriose lotte con numerosi avversari. Nell'audace avanzata, trovatosi solo e circondato da forze preponderanti, con insuperabile coraggio si difendeva a colpi di pugnale, finché, sopraffatto dal numero, cadde colpito a morte. - Monte Asolone, 24 ottobre 1918.
Non dovrei aggiungere altro dopo tale lettura su questo valoroso, che come il Castiglioni Campitello, nelle sue gesta straordinarie, non contava, dei nemici, il numero, né misurava il pericolo. Anche lui trovatosi solo, non piegava, non si arrendeva, ma sapeva ben dimostrare, con il suo pugnale, ai numerosissimi nemici che lo assalivano da ogni parte, come gli italiani sapessero combattere anche da soli, e come sapessero morire. Giungeva tardi al fronte, questo soldato dell'ultimo bando, ma giungeva ancora in tempo per compiere simili gesta leggendarie e per coprirsi di gloria. Ed io lo ricordo tanto più volentieri ed affettuosamente in quanto nessuna persona di famiglia, nessuna persona cara o amata ne può oggi ravvivare, benedire la santa eroica memoria. Non ebbe a lasciare, nel morire, eredità di affetti; ma noi renderemo lieta, luminosa la sua urna, la sua tomba con il nostro ricordo, con il nostro affetto.

MAZZOCCHETTI Sabatino, da Atri, soldato 11. reggimento bersaglieri (reggimento del Duce) - Dopo aver combattuto, per circa trenta ore, sull'estremo limite della posizione conquistata, rimasto senza cartucce, lanciava, a guisa di giavellotto, il proprio fucile contro un avversario che lo prendeva di mira, e lo trafiggeva, ma rimanendo contemporaneamente colpito a morte egli stesso dall'avversario. - Vrsic, 12 settembre 1918.
Anche il nostro Mazzocchetti combatteva da solo per oltre trenta ore sull'estremo limite di una posizione conquistata; combatteva senza titubanza e senza stanchezza sino all'ultima cartuccia e quando non aveva più cartucce anziché ritirarsi combatteva ancora: lanciava al nemico che lo assaliva, a guisa di giavellotto il fucile divenuto ormai inutile per lui ed uccideva ancora. Ma nel compiere l'ultimo eroico atto restava lui stesso colpito a morte. Moriva il prode, ma nel morire si cingeva della più luminosa aureola di gloria.

SCOLARI Andrea, da Isola del Gran Sasso, soldato 95. bombardieri - Servente di una bombarda, violentemente controbattuta dall'avversario, diede prova di calma e coraggio senza pari. Estratto ancora vivo da un cumulo di rovine, con gli abiti in fiamme e le membra fumiganti, singolare esempio di stoica fermezza, non ebbe un lamento né un grido, consacrando l'ultimo pensiero ai compagni rimasti con lui fra le macerie dell'incendio. - Vertoiba, 18-19 agosto 1917.
Io ritengo che pochi martiri, pochi eroi si siano elevati a tanta altezza nella poesia, nei santi sentimenti umani come questo prode artigliere. Non un grido, non un lamento nelle atroci sofferenze che egli soffriva, che egli sapeva di soffrire per la patria. Non un grido, non un lamento nelle fiamme che bruciavano, che tormentavano, che consumavano le sue carni, ma pietà per i compagni, che come lui erano rimasti nelle fiamme, nell'incendio, nelle macerie della morte.
Soldati meravigliosi, e potrei continuare sino a domani nell'ordine dei gloriosi Caduti. Ma non sono meno belle, non sono di minor valore le gesta compiute dai superstiti, dai sopravvissuti del destino e della morte.
Ma anche molti di questi superstiti, in conseguenza delle sofferenze, dei patimenti senza nome, delle gravi ferite, delle mutilazioni, non più oggi rispondono ai nostri affettuosi, fraterni appelli, né si riscaldano più alla luce, ai caldi raggi del bel sole d'Italia.
Leggo anche per essi qualche motivazione.
DI BATTISTA Giovanni, da Corvara, caporale reggimento alpini - Anche questo bravo alpino, promosso caporale per merito di guerra, guadagnava anche lui sul campo di battaglia, oltre a molti encomi, due medaglie d'argento al valore militare. 1. medaglia: Incaricato di ardite osservazioni sul nemico, da solo e in pieno giorno si recava per meglio assolvere il suo compito, in terreno battuto ed a breve distanza dalle trincee nemiche. Non abbandonava il suo posto, benché gravemente ferito, se non ad osservazione terminata. Già distintosi in numerose circostanze per fermezza e coraggio. - Costabella, 17 settembre 1916. 2. medaglia: Portavasi per primo in località e passaggi assai pericolosi e fortemente battuti dal fuoco nemico, trascinando con l'esempio i compagni. Fatto segno direttamente dalla fucileria nemica, non curante del pericolo, balzava per primo, nella trincea nemica attaccata, contro una mitragliatrice che faceva fuoco, e messi da solo fuori combattimento tutti i serventi, si impadroniva dell'arma. - Passo dei Segni (Tonale), 13 agosto 1918.
Anche questo bravo alpino, quantunque ferito gravemente, conduceva a termine, in condizioni difficilissime, la sua missione. Ricoverato all'ospedale e guarito tornava a riprendere in linea il suo posto di combattimento. In un assalto, sotto violento fuoco, si slanciava per primo sulla trincea nemica, su una mitragliatrice in azione. In una viva lotta corpo a corpo, messi da solo fuori combattimento tutti i serventi si impadroniva dell'arma. Ed impadronirsi di una mitragliatrice, in azione nella propria postazione, come ben sanno i combattenti, non è davvero cosa facile. E' come prendere una fortezza. Ma i nostri bravi alpini, come ben sa l'on. Forti, essendo egli stesso un prode alpino, decorato di quattro medaglie, non temevano le rocche; non temevano le fortezze.

DI SEBASTIANO Andrea, da Montorio al Vomano, zappatore reggimento fanteria. - Distintosi per slancio e coraggio, in due giorni di combattimento, nell'azione eseguita per il terzo giorno fu il primo a scattare per l'assalto, e sotto il fuoco nemico di mitragliatrici, raggiunse la trincea avversaria. Ferito gravemente, con fermezza ed ardimento mirabili, si spinse ancora fino alla seconda linea nemica, penetrandovi e mantenendovisi sino al sopraggiungere dei compagni. - Castagnevizza, 19-21 agosto 1917.
Anche il nostro bravo Di Sebastiano, oltrepassava, nelle sue gesta, i limiti dell'ardimento, delle possibilità umane. Dopo tre giorni di continui, aspri, sanguinosi, sfibranti combattimenti, quasi stanco dell'indugio, sotto violento fuoco di mitragliatrici, si slanciava primo, solo sulla trincea nemica. Ferito gravemente, non si arrestava, quasi esaltandosi nel suo stesso valore, si slanciava irresistibilmente, bagnando del suo sangue la via, sulla seconda linea, sulla seconda trincea, e la raggiungeva, e vi penetrava, e la conquistava, e la manteneva, la difendeva eroicamente sino all'arrivo dei compagni; quei compagni che avevano seguito attoniti, quasi smarriti tanto prodigioso, miracoloso ardimento.

D'altra parte si deve ritenere doveroso di ricordare di tanto in tanto, specialmente nel nuovo clima fascista ed imperiale, i nostri martiri, questi oscuri eroi, che sono poi gli eroi purissimi, i santi della patria. Soldati meravigliosi, che voi o giovani dovete imitare, degni dell'eternità. E leggo, per non abusare delle vostra cortesia e benevolenza, un'altra sola motivazione.

DI BATTISTA Valentino, da Teramo, caporale 4. reparto assalto - Di propria iniziativa, solo con una pistola mitragliatrice, portatosi all'imbocco di una caverna, riusciva a catturare tre ufficiali ed una sessantina di soldati. Fu per tutta l'azione di esempio fulgido a tutti e di coraggio grandissimo. - Monte Valbella, 29 gennaio 1918.
Pensate per un momento a questo meraviglioso soldato volontario perché minorenne, che, come gli eroi della leggenda, senza però averne le armi fatate e senza l'aiuto degli Dei, penetra da solo nel campo nemico, da solo assaliva, da solo catturava e trascinava nel proprio campo, come un branco di pecore, con ufficiali, graduati e soldati, ben una compagnia di nemici armati. Questo meraviglioso soldato che torna, ma va ancora a combattere volontario nella guerra combattuta per la conquista dell'impero. Torna e va ancora a combattere volontario nella guerra che si combatte ancora in Spagna in difesa della civiltà europea.
Alla motivazione di questo straordinario fante della bella fanteria d'Italia, fiore sommo ed intero della razza, come ebbe ad affermare il poeta dell'Italia nuova, segue la motivazione di un altro prode artigliere. Consentitemi che io la legga, anche in omaggio, in onore della bella artiglieria nostra di cui faceva parte il vostro eroe, che ha la volontà, l'anima d'acciaio come l'acciaio delle sue armi, dei suoi cannoni. Ed anche questo non è retorica, poiché i nostri prodi artiglieri lo hanno confermato in cento battaglie, in cento vittorie, - Sempre ed Ovunque - come è consacrato nel loro superbo motto.

DI DOMIZIO Stefano, da Cortino, caporale maggiore 1. reggimento artiglieria da montagna - Capo pezzo, benché gravemente ferito, non abbandonava il suo posto e sostituiva il puntatore morto. Continuava a far fuoco destando l'ammirazione generale. Non si allontanava dal suo pezzo se non quando le forze, per il sangue perduto, lo avevano abbandonato. - Cima Casaiole, 13 giugno 1918.
Non si sgomentava il prode della morte, né delle sue ferite profonde. Adagiava fraternamente, su l'erba, in un lato il compagno che aveva reclinato il capo per sempre sul suo pezzo, sul cannone arroventato, insanguinato. Adagiava in un lato il compagno morto, e ne prendeva il posto. E sparava, sparava senza tregua, sparava sino alle ultime sue forze, sino a quando, per il sangue perduto, non si accasciava su se stesso, non cadeva a terra, dissanguato, svenuto.

Ecco in pochi tratti, in sintesi, lo spirito, il carattere, la tempra dei nostri soldati combattenti nelle loro generosità, nei loro forti sentimenti di umanità e di patria, nei loro eroismi insuperabili. Ecco i canti epici contenuti in questo albo, che quanto prima si spera di poter fare pubblicare, non soltanto in onore degli eroi, ma anche in onore del popolo, dal quale questi eroi uscivano, ma anche in onore di questa nostra silenziosa, sana, patriottica provincia.
E nel compilare questo albo di sangue e di gloria, che dovrebbe figurare in ogni biblioteca, che dovrebbe essere posseduto, come scrittura sacra, da ogni ente, da ogni istituto, da ogni scuola, da ogni famiglia per essere letto e meditato, mi è stato dato rivivere non soltanto nelle gesta dei migliori reparti del nostro esercito da essi costituiti. Mi è stato dato rivivere in modo particolare sul Carso, sull'Isonzo, sul Piave, sugli Altipiani, con quelle gloriose brigate, costituite quasi nella totalità da soldati abruzzesi: Acqui e Pinerolo. E specialmente con la Pinerolo, che è oggi risorta, nella nostra ferrea divisione Gran Sasso che raccoglie appunto quei reggimenti, 13. e 14., che si gloriano delle più alte insegne del valore e delle più belle strofe del canto guerriero.
Ed apparteneva a questi reggimenti, al 13., quel modesto soldato Zanon Giulio, primo decorato della grande guerra di medaglia d'oro. Quel modesto soldato, che con nobile abnegazione, sotto micidiale fuoco nemico, con grave suo pericolo, riusciva a trarre in salvo un compagno gravemente ferito. Che in un attacco alla baionetta, in una lotta corpo a corpo, liberava altro compagno caduto prigioniero, uccidendo un avversario e ponendo in fuga gli altri; che visto in pericolo il proprio ufficiale, generosamente si slanciava avanti, e gli faceva scudo del proprio petto, cadendo sul campo di battaglia con il petto crivellato di proiettili, crivellato di ferite.
Ed appartenevano a questi reggimenti quegli altri soldati abruzzesi, che in nobile gara con i pugliesi ed i marcheggiani, si coprivano di gloria nelle battaglie combattute per la conquista delle alture Selz, di monte Sei Busi e di altre simili gloriose località. Ed appartenevano al 13., al nostro reggimento per eccellenza, quegli altri soldati abruzzesi che sull'insanguinato Pecinka, nei giorni 15 e 16 agosto 1916, scrivevano con il loro sangue, una delle più belle pagine di valore e di sacrificio. Era stato determinato da parte del nostro comando un'azione offensiva. La nostra artiglieria, nell'ora convenuta, dall'Altipiano di Doberdò, iniziava il tiro di distruzione. Silenzio, calma nel campo nemico, calma sospetta. Ed in vero quando sul mezzogiorno la nostra artiglieria allungava il tiro per facilitare l'avanzata della fanteria, allora una pioggia, una tempesta di granate di ogni calibro si rovesciava improvvisa, spaventosa sulle nostre linee. E da quel momento, e per tutta la giornata, la lotta ebbe a continuare aspra, sanguinosa, incerta. Ma in sul tramonto, tramonto rosso di fuoco e di sangue, il bombardamento nemico, che si era per un po' attenuato, riprendeva con la più grande violenza. Il terreno, battuto in ogni parte, appariva come sconvolto, devastato dal più tremendo terremoto. I fanti, sepolti o lanciati in aria dalla violenza degli scoppi, scomparivano, come frantumati, con le stesse trincee. Il momento era particolarmente grave, angoscioso, pericoloso. Ad un tratto, invece, apparivano su quella rovina compatti, ed avanzavano con baldanzosa sicurezza, terribilmente minacciosi, i battaglioni nemici. Pareva che non vi dovesse essere forza per arrestare quella infernale valanga distruttrice... Ma al grido di "VIVA L'ITALIA - VIVA IL 13. FANTERIA!... FIGLI D'ABRUZZO AVANTI!..." lanciato dal prode colonnello Persi, nei superstiti figli d'Abruzzo rifiammeggiava in tutta la forza, in tutta la potenza il tradizionale valore, il tradizionale eroico slancio. Gli Austriaci furono risolutamente affrontati, battuti, ricacciati, con i pugnali e le mitragliatrici, nei loro rifugi. Veramente pochi dei soldati di quei battaglioni, lanciati all'invasione, poterono rientrare nelle loro linee. La distruzione, la carneficina, era stata quasi totale. Ed in quella sera stessa la gloria ribaciava, sulle riconquistate, insanguinate posizioni del Pecinka i prodi figli d'Abruzzo del 13. Fanteria.
Apparteneva a quel reggimento ed era presente in quell'azione, nella quale ebbe parte importantissima ed eroica il prode tenente colonnello, più volte decorato, Di Furia Vincenzo. Apparteneva pure a quel reggimento ed era presente a quell'azione, dove fu gravemente ferito, il valoroso capitano medaglia d'argento Sabbatini Ezio.
Forse da questo particolare fatto di sangue, gli austriaci composero quel loro famoso canto di guerra, in cui tra tutte le regioni d'Italia, l'Abruzzo, gli abruzzesi soltanto ebbero l'onore di figurarvi come diabolica potenza aggressiva e distruttrice.
E le gesta gloriose delle Alture di Selz, di monte Sei Busi, dell'insanguinato Pecinka, del luminoso Volkonniak, dove il 13. poneva il suo suggello d'oro alla immacolata sua fedeltà, all'indomito suo valore; quelle gesta dico furono continuate lungo tutta la luminosa via, splendida di sacrifici, di sangue, di eroismi insuperabili dal Carso, all'Isonzo al Piave; dal Piave agli Altipiani; dall'Alsa di Zenson a Cima Echar. Quella cima ove rifulse ancora una volta l'eroismo del 13., ed in modo particolare del 3. battaglione, comandato da un altro prode nostro concittadino, dal maggiore superdecorato D'Orazio Raffaele.
Non seconda alla Pinerolo era l'altra brigata, la Acqui, della quale facevano parte, tra i tanti decorati e superdecorati della nostra provincia, i quattro fratelli Amadio di Controguerra. Anche sulle glorie di questa ferrea brigata dovrei molto parlare; ma per mancanza di tempo mi limito oggi al ricordo di questi fratelli: quattro fratelli, quattro combattenti, quattro eroi. In un'azione offensiva da parte del 17. fanteria, uno di essi, Giovanni, per facilitare l'avanzata agli altri reparti, usciva per primo con le sue mitragliatrici ed i suoi uomini. Giunto nei pressi dei reticolati nemici, non si sgomentava per averli trovati intatti, né si arrestava. Dopo ripetuti tentativi, sotto violento fuoco nemico, riusciva ad aprirsi con le pinze un varco; e da quel varco si slanciava impetuosamente, sull'attonito, meravigliato nemico. Non poteva non incontrare nel folle, nel generoso tentativo gloriosa morte. Cadeva, ma non arretrava, cadeva, ma sul trionfo che egli presentiva, sentiva la sensibilità della morte, gridava ancora: "AVANTI SEMPRE... LA VITTORIA E' NOSTRA... EVVIVA L'ITALIA..." e moriva con il nome d'Italia sulle labbra.
Alla sua memoria fu assegnata sul campo la medaglia d'oro al valore. E la medaglia d'argento fu assegnata all'altro fratello, a Pietro, che cadeva mortalmente ferito in quella stessa giornata, in quel medesimo fatto d'armi, compiendo quasi le identiche gesta. Gli altri due fratelli, Luigi e Clemente, decorati entrambi sul campo, tornavano vivi alla madre, ma tornavano gravemente menomati, mutilati. Il fratello più giovane, Clemente, ragazzo di 17 anni, per poter ottenere l'arruolamento volontario, commetteva un crimine: falsificava il suo certificato di nascita.
Santo crimine, s'intende, che io consiglio ad ognun di voi, o giovani, di commettere in simili casi. Il Signor Procuratore del Re non potrebbe non proporvi ai giudici per la vostra assoluzione; né non potrebbe la patria non additarvi all'ammirazione, alla riconoscenza nazionale.
La madre, che vive ora in Ascoli Piceno, è fiera, orgogliosa di questi suoi figli e del suo sacrificio. Quella madre che potrebbe bene figurare tra le grandi madri della storia e della patria.
Ma non soltanto a queste brigate, a questi reggimenti la nostra provincia dava i suoi eroi. Quasi tutti i reggimenti ne avevano, tutte le specialità, tutti i corpi, tutte le armi, compresi i reali carabinieri, anch'essi sempre tra i primi nelle gesta gloriose, e compresa la modesta ma gloriosa regia guardia di finanza. Eroi come i numerosi superdecorati, come le sette medaglie d'oro, di cui ebbi già a parlare. Di queste medaglie d'oro una appartiene al genio, altra arma silenziosa, ma gloriosa.
Questi ed altri mille come questi sono i fatti e gli atti consacrati, con scrupolosa verità storica, in questo albo di sangue e di gloria. Sono atti e fatti che non possono non scuotere, non commuovere, non educare, non far pensare quanto vi sia ancora di bello, di generoso, di nobile, di grande, di santo nella vita. Questa vita, che nei dolori e nelle gioie, nelle lotte, nelle tregue e nei trionfi, non potrà non raggiungere le più alte luminose vette dell'ideale, se continuerà ad essere sostenuto, infiammata dal senso di giustizia, dal forte sentimento eroico, poiché soltanto con la forza del sacrificio e dell'eroismo, o giovani, come ben lo ha dimostrato il Fascismo ed il suo Duce, si potranno raggiungere le più ardite mete. Soltanto con la forza del sacrificio e dell'eroismo si scrive dai grandi popoli la grande storia e si fondano gli imperi.
E concludo. Della nostra valorosa partecipazione in tutte le guerre coloniali e nella guerra imperiale parlerò un'altra volta.



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