Il presente lavoro si basa per la prima parte su un fascicolo della Polizia Borbonica del 1857 conservato presso l'Archivio di Stato di Teramo (busta 64, fascicolo 6), per la seconda parte sugli atti del processo relativo ai cosiddetti "Fatti di Paganica" celebratosi nel 1851. La ricostruzione cronologica di questo processo è stata eseguita, con encomiabile sforzo, grazie alla ricerca storica curata da Fernando Rossi presso l'Archivio di Stato di L'Aquila (1848-1851 "I Fatti di Paganica" - Cronologia di un processo - La vera storia dei Carbonari del Circondario di Paganica). La documentazione integrale dell'istruttoria e del processo è pubblicata sul sito www.paganica.it, curato dallo stesso Fernando Rossi di Paganica, che ringrazio personalmente per le precisazioni e le ulteriori notizie che mi ha gentilmente segnalato.



Storia minima risorgimentale
I tre cognati Giuseppe Adamoli, Isidoro Strina e Ascanio Vicentini

di Federico Adamoli

La sera del 27 giugno 1857 una squadra di otto uomini della Gendarmeria Reale di Teramo fa irruzione nella taverna del Parroco Don Patrizio Spinozzi, posta sulla nuova strada rotabile che porta a Montorio, sul ponte Tordino, nei pressi della nuova Ramiera di Villa Tordinia, nel territorio di Rocciano, a circa quattro chilometri dalla città di Teramo.
Nella taverna si trovano il gestore Saverio Spinozzi e cinque avventori che trascorrono una serata di distensione nella frescura estiva, dopo una lunga giornata di lavoro. Il gruppo di uomini che assistono alla perentoria irruzione della Polizia Borbonica verosimilmente non rimane sorpreso più di tanto, a causa del clima generale del momento: ci troviamo infatti negli ultimi anni di vita del regime borbonico, con l'incalzare degli eventi risorgimentali, che condurranno nel 1860 alla dissoluzione del Regno delle Due Sicilie, nonostante il re Ferdinando II, con il succedersi degli eventi a lui sfavorevoli, avesse tentato di ripristinare nel mese di giugno 1860 la Costituzione, prima concessa nel 1848 e poi abrogata l'anno successivo con la restaurazione.
L'irruzione si svolge quindi in un clima di sospetto, probabilmente in seguito ad una soffiata, e dà luogo ad una minuziosa perquisizione "per rinvenirvi armi ed oggetti criminali che ivi si volevano ricettati", come si legge nel processo verbale (1) redatto dagli otto gendarmi che hanno eseguito l'operazione di polizia. La perquisizione tuttavia non dà alcun esito, ma l'attenzione dei borbonici si focalizza su due avventori ignoti che destano in essi un certo sospetto. Questi vengono invitati a qualificarsi e ad esibire i loro documenti, ma sfortunatamente ne sono sprovvisti. Sono Pietro Cantarini di Ascoli, originario dello Stato Pontificio, che lavora nella Ramiera di Villa Tordinia insieme a Giuseppe Adamoli, ramaio, e originario di Narro, Regno Lombardo Veneto. Anche un terzo avventore desta i sospetti dei gendarmi, tale Giuseppe Paradisi, originario di Fermo, Stato Pontificio, sfornito anch'egli di documenti. Per i tre sospetti si aprono le porte del carcere di Teramo, al fine di accertarne identità e reputazione.

Giuseppe Adamoli conclude la sua serata, al di là di ogni immaginazione, nella camera del custode maggiore delle prigioni centrali di Teramo, a riflettere, nella sua notte insonne, alle possibili conseguenze di quel pasticcio. La moglie Doralice Strina lo aspetta nella loro casa insieme ai cinque bambini. Qualcuno la aveva avvisata di ciò che era successo? La preoccupazione più grande di Giuseppe era proprio per la famiglia. Cosa sarebbe accaduto se la sua detenzione si fosse rivelata di lunga durata? Era giunto a Teramo solo da qualche mese, con il completamento della costruzione della Ramiera di Villa Tordinia, ed era ai più sconosciuto: inoltre il suo accento lombardo aveva forse accresciuto la diffidenza dei gendarmi, sempre all'erta nel tentativo di scovare qualche emissario politico.
Aveva qualcosa da temere Giuseppe? Negli ultimi dieci anni aveva onestamente e duramente lavorato a Chiarino di Tossicia, nella ramiera dei Marcone, dove era giunto nel 1846 con moglie e due figlioli in tenerissima età. Ma forse a renderlo inquieto era il ricordo dei quattro anni intensi e significativi da lui trascorsi a Tempera, nell'aquilano, dove era giunto nel 1842: l'incontro con la famiglia Strina, la conoscenza di Doralice, il respiro nella casa di questi aquilani dell'intenso clima risorgimentale, il matrimonio, i figli, e la bufera giudiziaria abbattutasi sui cognati. Il suo pensiero doveva essere andato anche ai lunghi anni della giovinezza trascorsa a Bologna, nella ramiera dei conti Rossi, dove aveva imparato il mestiere. Ma nella lunga notte la nostalgia doveva lasciare spazio ai timori per quel maledetto arresto e per le informazioni che avrebbero potuto giungere da L'Aquila. Come dimenticare l'ansia delle vicende giudiziarie che sei anni prima avevano colpito Isidoro Strina e Ascanio Vicentini con le loro famiglie? E quel debito di alcuni Carlini che Giuseppe aveva lasciato quando dovette abbandonare Tempera per giungere a Tossicia? Lui forse non lo sapeva, ma il Cassiere comunale aveva cercato di recuperare quel credito, però infine in una deliberazione decurionale del 1847 si stabilì di stralciarlo, poiché non era proprio possibile recuperare tale somma dato che "l'Adamoli era emigrato". Possibile che dopo tanti anni quel piccolo debito gli avrebbe potuto causare dei problemi? Con il clima che si respirava si poteva temere anche per questo, forse?

La mattina seguente Giuseppe fu condotto davanti al Commissario di Polizia Flavio Chiarini per l'interrogatorio, nel quale egli espose con sincerità ciò che lo riguardava personalmente, sperando in una rapida soluzione del caso. Al Commissario premeva sapere soprattutto da quanto tempo mancava dal luogo d'origine ed i motivi per i quali se ne era allontanato: espose con la massima tranquillità che quando era ragazzo il padre Carlo lo condusse a Bologna per imparare il mestiere, e qui rimase per ben venti anni. Giuseppe volle sottolineare di essere effettivamente possessore di un passaporto rilasciatogli da Bologna ai tempi della sua partenza verso L'Aquila, passaporto del quale non si era ricordato di fronte ai gendarmi nella taverna, nello smarrimento del momento: quel documento lo aveva lasciato in casa. In questo caso il passaporto, seppur scaduto, veniva in suo aiuto, perché in esso si potevano stabilire in maniera inequivocabile i suoi spostamenti, il momento del suo ingresso in Abruzzo e la sua professione di 'Fonditore'. Anche la Carta di Passaggio che gli era stata rilasciata nel 1852 dall'Intendente di Teramo per un viaggio di lavoro a Napoli chiariva in modo indiscutibile la sua occupazione.
Anche i due compagni di sventura avevano subito analogo interrogatorio: il suo collega Pietro Cantarini era stato scarcerato, mentre per Giuseppe Paradisi era stato disposto il rimpatrio oppure l'obbligo di corrispondere alla moglie un assegno per il sostentamento della famiglia. Costui infatti era da tempo attivamente ricercato per aver abbandonato nella miseria, a Porto di Fermo, la moglie e i suoi quattro piccoli figli. In particolare il Commissario disponeva per lui la garanzia di un mallevadore (
2), tale Federico Coletta, per assicurare la corresponsione della somma di 15 Carlini al mese per i figli abbandonati dal Paradisi, il quale aveva lavorato per circa tre anni a Ripattoni come "befolco" presso tale Vincenzo Di Alessandro, mentre ora si era messo a servire come garzone presso l'Appaltatore delle Opere Pubbliche Federico Coletta.

Giuseppe Adamoli dovette trascorrere la sua seconda notte nelle carceri teramane, forse più tranquillo per aver risposto sinceramente alle domande, ma sempre con l'incognita degli accertamenti sul suo conto che erano stati richiesti sia al Giudice di Tossicia sia all'Intendente di Aquila, circa la sua condotta politica, morale e religiosa. Egli sapeva benissimo che non aveva nulla da temere da Chiarino, dove gli fu riconosciuta prontamente "sempre lodevole condotta sotto tutti i rapporti"; però le recenti vicende giudiziarie che avevano coinvolto la famiglia a L'Aquila potevano rappresentare veramente una minaccia. La prima sorpresa per Giuseppe Adamoli giunse molto presto, perché nella giornata del 29 giugno, il terzo trascorso in prigione, venne disposta la sua scarcerazione, forse con una magnanimità che per l'atmosfera di tensione che si viveva in quegli anni non ci si poteva aspettare. La sua remissione in libertà avveniva tuttavia a precise condizioni e limitazioni, nell'attesa che venissero completati gli accertamenti a suo carico, che richiedevano un certo tempo. Come per il Paradisi, veniva stabilita a garanzia la malleveria di una persona ritenuta idonea; doveva trattarsi di "persona solvibile e di regolare condotta", ma veniva sottolineato al tempo stesso, che "non si tratti di un Ecclesiastico". Questo garante lo prendeva in custodia a tutti gli effetti di legge, obbligandosi a consegnarlo a qualunque richiesta della Polizia, "sotto pena di ducati cento in caso di contravvenzione".

Giuseppe Adamoli tornava alla sua famiglia e al suo lavoro, pur nel timore delle possibili notizie negative di carattere politico provenienti dall'aquilano. Le indagini dovettero rivelarsi lunghe, perché trascorsero più di 50 giorni per la cruciale risposta, che lo assolveva pienamente "per ciò che riguarda la politica". Risultava però "censurabile nel lato della religione e della morale, non adempiendo ai doveri della prima, e frequentando le donne di cattivo costume". Giuseppe forse doveva ora più di una spiegazione alla moglie Doralice, turbata ancora negli affetti dopo le vicende che avevano colpito nel 1849 il fratello Isidoro Strina e il cognato Ascanio Vicentini, nell'ambito delle vicende di carattere risorgimentale che diedero vita al processo per i cosiddetti "Fatti di Paganica".

[SECONDA PARTE]


NOTE

(1) La trascrizione integrale del fascicolo della Polizia Borbonica conservato presso l'Archivio di Stato di Teramo è pubblicata su questo sito. ß
(2) La malleveria è una promessa e obbligo di rispondere dell'inadempienza altrui. ß


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