Il Copia-lettere di Giovanni Adamoli

di Federico Adamoli (*)

Tra le attività economiche presenti nel quartiere della Cona di Teramo dopo la seconda metà dell’800 è da annoverare quella che vede coinvolti nell’artigianato del rame alcuni componenti della famiglia Adamoli. La presenza di questa famiglia di origine lombarda in una zona che in quei tempi costituiva una parte del “contado” teramano, rappresenta l’ultima di una serie di “tappe di avvicinamento” che era iniziata per Giuseppe Maria Adamoli, nato il 16 ottobre 1810 a Narro (frazione del comune di Casargo, oggi in provincia di Lecco, ma in quei tempi provincia di Como), sin da ragazzo, quando era stato condotto dal padre Carlo a lavorare a Bologna presso la rameria del Conte Rossi, dove rimase per circa venti anni, e trasferendosi nel giugno del 1842 a L'Aquila (in base al Passaporto rilasciatogli dal Governo Pontificio è proveniente direttamente da Pontecchio). Queste prime informazioni emergono da un interrogatorio di polizia al quale fu sottoposto Giuseppe nel 1857, attinente ad un arresto nel quale egli incorse per essere stato trovato sfornito di documenti d'identificazione nel corso di una perquisizione eseguita dalla Polizia Borbonica nella taverna di Patrizio Spinozzi, situata nei pressi di Villa Tordinia, perquisizione finalizzata alla ricerca di "armi od oggetti criminali che ivi si volevano ricettati" (1). Queste notizie provenienti dall'Archivio di Stato di Teramo si contrappongono alla descrizione che il nipote Umberto fornisce nelle memorie familiari, nelle quali egli riferisce, in una visione romanzesca, l'avventurosa fuga del nonno 33enne in compagnia del fratello maggiore (che si ferma in Toscana), abbandonando in pieno clima risorgimentale la natia Narro quale cospiratore e perseguitato politico, per sfuggire all'arresto da parte della polizia austriaca, e lasciando per sempre la famiglia d’origine (2).

Giunto nell'aquilano Giuseppe Maria entra ben presto in contatto con gli ambienti cospiratori, legandosi alle famiglie Vicentini e Strina, che vantavano fervidi patrioti; Ascanio Vicentini, Isidoro Strina (
3) e Giuseppe Adamoli comporranno la triade dei cognati componente il Comitato insurrezionale di Paganica, il "Comitato per la morte" costituitosi "per distruggere", come si leggeva in un rapporto della polizia, "il governo, il Re, l'ordine" (4). Nel villaggio di Tempera Giuseppe entra a far parte, in qualità di socio, dell'industria degli Strina, che possedevano una fonderia di rame, e della cui famiglia sposa Doralice, nel dicembre del 1844.

Sempre per quanto riferito da Giuseppe Adamoli nell'interrogatorio subito nel 1857, egli nel 1846 si trasferisce con la famiglia presso la ramiera dei Marconi situata in Villa Chiarino di Tossicia, dove rimane a lavorare per circa dieci anni (nelle memorie familiari il nipote Umberto lo descrive invece in fuga da Tempera nella primavera del 1850 - dopo l'arresto del cognato Isidoro Strina da parte della polizia borbonica - e rifugiato con tutta la famiglia nelle montagne del teramano, precisamente a Tossicia, aprendo sul vicino fiume Mavone, con gli operai profughi anch'essi da Tempera, un’altra fonderia di rame. In realtà il terzo figlio di Giuseppe, di nome Giovanni, risulta nato proprio a Tossicia il 28 ottobre 1849).

Nei lunghi anni della permanenza a Tossicia matura in Giuseppe il desiderio dell’avvicinamento a Teramo, con lo scopo di uscire dall’isolamento della montagna e per garantire un avvenire migliore ai numerosi figli. Per il perseguimento di questo scopo prende contatto con Giandomenico Spinozzi, stabilendo di comune accordo la progettazione di una fonderia su un terreno dello stesso Spinozzi, nel territorio di Rocciano, sul fiume Tordino, dove già esisteva un mulino (
5). La costruzione fu completata nel 1856 e nella primavera del 1857 (6), dopo che gli Adamoli abbandonarono Tossicia, iniziava l'attività della Ramiera di Villa Tordinia. Ad un anno dall'inizio di questa attività si compie la tappa che porta finalmente gli Adamoli nella contrada della Cona, poiché si apriva, per agevolare i clienti, un deposito di quei prodotti che uscivano dalla fonderia. Alla Cona s'istituiva pure un laboratorio per l'ulteriore lavorazione del rame, venduto direttamente al pubblico di Teramo. In seguito alla prematura morte di Giuseppe Maria, avvenuta nel 1859, la moglie Doralice Strina, dopo aver ceduto agli Spinozzi la ramiera di Villa Tordinia conserva per sé il deposito ed il laboratorio aperto presso la Cona, dove, coadiuvata dai figli, si trasferisce definitivamente.

Dopo le vicende dei difficili anni seguiti alla morte di Giuseppe, saranno i figli Gelasio e Giovanni a riprendere l’attività intrapresa dal loro genitore. Con il rientro a Teramo nel 1872 del maggiore dei figli Gelasio da Giffoni Valle Piana (Salerno) insieme alla famiglia da poco costituita, questi riprende in proprio la conduzione della fonderia di Villa Tordinia, avvalendosi delle condizioni che furono poste dalla madre Doralice agli Spinozzi al momento della cessione della ramiera (
7). E' presumibile ritenere che la gestione della fonderia si protrasse per circa un decennio, fino al 1883, quando Gelasio con la moglie Carolina Marotta e gli otto figli si trasferirono a L'Aquila, quindi poco tempo dopo a Tempera, esplicando l'attività lavorativa nella fonderia di rame della famiglia Strina, della quale egli diviene socio. Con il definitivo rientro a Teramo di Gelasio questi costituisce una società insieme al fratello: Gelasio si stabilisce a Rocciano presso la fonderia, mentre Giovanni dal quartiere della Cona cura gli aspetti commerciali della società, intrattenendo i rapporti con i clienti e i fornitori.

A testimonianza dell’attività industriale esercitata dai fratelli Adamoli resta un curioso registro di circa 500 pagine che contiene la copia integrale della corrispondenza aziendale e che copre il periodo che va dall’aprile 1890 al febbraio 1892. Occorre osservare che la società tra i fratelli Gelasio e Giovanni si avvia nel 1888, alla morte della madre Doralice, ma è destinata a concludersi proprio tra il 1892 e il 1893, a causa di gravi vicissitudini familiari, con la malattia di Gelasio e la prematura morte di Giovanni nel 1893, all’età di 43 anni.

  

3 pagine del copia-lettere di Giovanni Adamoli


A prima vista questo registro - che contiene oltre 1000 lettere e che traccia la vita aziendale quasi “in tempo reale” - sembra il prodotto della meticolosità di Giovanni, ma in realtà una vidimazione presente sull’ultima pagina (eseguita dalla Pretura di Teramo), rivela che il curioso volume è in realtà un vero e proprio documento contabile, denominato “copialettere” (8). La vidimazione recita così: “Il presente copia-lettere si compone di fogli cinquecento ed è stato dal sottoscritto datato e vidimato, ed appartiene a Giovanni Adamoli negoziante di rame a Teramo” (9).

I copia-lettere, documenti redatti dalle aziende nell’ottocento e caduti in disuso intorno agli anni cinquanta del novecento, quando tale sistema di archiviazione della corrispondenza venne abbandonato, rappresentano una importante fonte nella storia industriale, poiché insieme ai libri sociali costituiscono un grande brogliaccio attraverso cui leggere la vita dell’azienda, da utilizzare come punto di riferimento nella ricostruzione storica (
10).

Il primo esame del copia-lettere di Giovanni Adamoli (che copre il periodo che va dal 16 aprile 1890 al 28 febbraio 1892), in discreto stato di conservazione, ma di difficile leggibilità a causa della scrittura spesso fitta e minuta, dei fogli leggerissimi e della copia spesso sbiadita, fornisce un discreto numero di informazioni sugli aspetti aziendali della lavorazione e del commercio di prodotti di rame: listini prezzi, tipologia dei prodotti, prezzi applicati ai diversi clienti, estratti conto, aspetti riguardanti la modalità di lavorazione dei prodotti, zone di influenza e la quasi totalità dei nominativi dei fornitori e dei clienti. Completano le informazioni anche numerose e colorite esternazioni di Giovanni, a volte condite da termini dialettali e sgrammaticati, che rivelano anche gli aspetti squisitamente umani della vita di un commerciante, attraversata da tensioni e aspettative.

Così si rivolge Giovanni a Luigi Frondaroli di Atri, un cliente che non ha ancora ritirato la merce preparatagli: “Io non so come vada che non ritirate la caldaia che mi dicesti (...) al prezzo che voi mi dicesti. Sarà forse la mia disgrazia che ho con voi. Io fece di tutto per farvi contento. Non so se vi farà male qualche riconoscenza che vi uso. Basta metterò giudizio dopo la morte. Che mi volevi rimandare subito la stoia e il tovaglio che vi preparai, ma dove si vede. Sii un po’ più di parola Luigi che buono di parola gode la stima. E se questa volta non adempite ai vostri obblighi? Penserò diversamente” (
11). A Emilio Angelini, un cliente di Ascoli Piceno che cerca di spuntare un “prezzo ristrettissimo”, cioè il miglior prezzo, scrive: “Vi fo conoscere che se lunedì piace a Dio principieranno i caldai da voi ordinatomi, però non vorrei che mi pigliassi cavilli per farvi altro ribasso al vile prezzo che vi ho ceduti. (...) Pertanto non devi pigliare nessun attacco. Io farò al miglior modo per servirvi bene” (12). A Nazzario Paolantonio di Vasto invece così scrive: “Quel tuo casellante che si trova alla stazione di Castellaldo Canzano mi promise che il 1° di maggio mi avrebbe dato £ 5: atteso che voleva dare un po per volta ma il fatto sta che nulla si è visto” (13). Anche con Luigi Mazzitti di Giulianova i rapporti risultano alquanto tesi: “Rispondo subito al vos. alderato cartolino e vi dirò che mi dispiace nel modo che voi mi parlate, sono dispiaciuto che mi chiedete il conto, (...) da voi che mi conoscete a fondo non aspettavo questa parola, in primo, io debbo servire tutti, poi da che mi avete ordinato voi, non ho servito nessuno, meno quelli che mi erano ordinati prima di voi. Dunque ora voi siete sempre il primo, mandami il rame che avete che subito farò andare avanti il vos lavoro. Ho messo altro sotto maestro alla Ramiera, così andrà più alla svelta” (14).

I problemi non giungono solamente dai clienti che non vogliono pagare, ma Giovanni deve scontrarsi anche con i fornitori che alzano i prezzi. Giovanni scrive ai fratelli Gravina di Napoli, fornitori abituali, sfogandosi: “...mi dispiace dell’aumento fattomi volontariamente, mentre gli altri mi segnano il ribasso, e voi per non servirmi, mi rialzate il prezzo. E vero che mi spedite la merce a fiducia ed a conto corrente, però oggi non hai più timore di restare con qualche dubii, atteso che son un vecchio cliente vos. e non sono capacio di fare aldro, di quando sono solito di fare. (...) Perciò mi dispiace che mi fai torto” (
15). Ad un altro fornitore abituale di Ancona, Giacomo di S. Trevi, preannuncia invece la visita di un cliente: “...mi promise che in breve si recherà in Ancona e veniva a trovarvi personalmente. Questo tale vuole pagare troppo poco, però spende in contanti. Accoglietelo gentilmente e offritegli roba senza denaro che è un benestante e di buona morale” (16).

Dalla corrispondenza contenuta nel copialettere emergono diversi aspetti tecnici circa la lavorazione del rame, poiché si discute con i clienti sulla modalità di preparazione dei prodotti della Ramiera, e con i fornitori sulle caratteristiche dei materiali richiesti. Al già citato Emilio Angelini di Ascoli Piceno così scrive Giovanni: “Vi dico che i caldai chiestomi ve li cedo al prezzo di £ 2.75 il Kg porto in codesta stazzione. Però non ci troviamo d’accordo sulla qualità che voi mi dite, della altezza dei caldai senza le fasce. Voi mi chiedete n. 3 caldai di etto 4-5-7 poi dei caldai senza le fasce, mi dite di cent. 80-65-60, dunque vi fo capire che di questa altezza i caldai di quella capacità non esiste a nessuna fabrica, perciò devi sapere che i caldai da mosto si devono alzare con le fasce, in quando ai vasi sono sempre come il solito, da cm. 35-36 dal filo alla cima. Ne ho due già pronti da 4 a 5 etti circa, di peso di kg 26-500 e 27= il garbo e bello e bene chiodati e con fondi larghi [parola illegibile] il più grande, che lo faremo subito, ma questo viene con due fasce per farlo arrivare alla capacità di etto 7 - 7 ½. Se poi non lo vuoi con due fasce allora piglieremo un fondo più largo e lo faremo con una sola fascia. Tengo presente un magnifico caldaio della larghezza di bocca un metro e cent. 15 peso kg 43 dunque a questo mettendoci una fascia non tanto alta verrebbe un bel caldaio di peso però vi verrebbe sui chili 65= circa e forse di più” (
17). Ai fratelli Gravina di Napoli, ai quali ha richiesto del materiali per la lavorazione di caldaie Giovanni precisa che occorre “aggiungere altre lastre di rame come sotto vi segno: un solo foglio da kg 22 e non più pesante perché ho il compagno, poi altri fogli da kg 11 a 18 ma però vi sia raccomandato di mandarmeli a parigliata cioè due da kg 11 due da kg 12 due da kg 13 e così via discorrendo. Le desidero così perché servono per fare di caldaie da mosto assunto che ogni caldaia ci vuole due fogli e perciò devono essere compagni. Mi raccomando sempre servirvi come vi dico non al contrario” (18). A Nazzario Paolantonio di Vasto invece scrive: “Io accetto queste lastre vecchie che voi mi dite purché non ce roba stagnata, e che non sii pezzi con la saldatura d’ottone che potrebbe recarmi danno sulla colata” (19).

Il personale della Ramiera non è composto solo da lavoranti del teramano, perché la ricerca di uomini specializzati nel lavoro della fonderia avviene anche al di fuori della regione. Uno di questi è Giovanni Ghizzoni di Giffoni Vallepiana, il paese del salernitano al quale è legata una buona parte della storia della famiglia Adamoli. Con il Ghizzoni si svolgono delle trattative epistolari per raggiungere un accordo: “...accetto quando voi mi dite per £ 75 al mese. Senza pensare ad altro. Se poi vi contentate mangiare tutte le domeniche a casa mia cioè il solo pranzo. Come volevo dare a vos. cognato Sperandio. A vostra scelda allora vi darò £ 70 al mese. Questa piccola differenza bensi la puoi regolare anche quando sei qui che con me non ci sarà che dire vos. cognato Giovanni mi conosce abastanza comè il mio modo d’agire. Non altro mi resta a dire solo che per la disdetta del nostro contratto, tanto se voi non volete stare più con me e tanto se io non vi potesse tenere ce da darsi sempre un meso di tempo l’uno con l’altro. Dietro una vos. affermativa mi dirai se vi debbo mandare il vaglia di quando mi cercate: e dirmi a chi lo debbo intestare, a voi ho a Giovanni Arrigoni ho al nostro parente Ciriaco Marotta. Questo me lo farete sapere voi stesso” (
20). Ancora con il Ghizzoni ci sono ulteriori precisazioni sugli accordi: “In quando al detto pranzo io non posso di passarlo e ne anche la camera perché ho tutto occupato. Ieri (mi recai) appositamente laggiù alla fabrica dove potei regolare nella taverna di Guerriero che ce una camera con letto e vuole £ 10 al mese. Dunque a questa spesa ci dovete stare voi, perciò vi ho condentato alla mesata che voi mi avete chiesto” (21).

La ricerca del personale non si limita agli operai, perché in una delle ultime lettere contenute nel registro, e scritta nel febbraio 1892, quando la Ramiera si trova ormai in una situazione di emergenza a causa della malattia di Gelasio - che di fatto determina la sospensione dei lavori - Giovanni è costretto a rivolgersi a Fortunato Adamoli, un cugino lombardo di Narro, affinché gli trovi un maestro fonditore. Questo momento rappresenta l’inizio della fine della Ramiera gestita dagli Adamoli, perché Gelasio non potrà più riprendere il lavoro. Così si legge in questa decisiva lettera: “Vi fo sapere che Gelasio sta un po male senza poter sapere ancora che sia la sua malattia. Solo sappiamo che non puole (?) di lavorare che il medico ce lo ha proibito per lungo tembo. Ora per causa di questa maledetta sfortuna che si e compinata ci troviamo sfornito di un maestro in questa fonderia, e così mi raccomando a voi volermi procurare un buon maestro che si bravo lavorare all’uso delle nostre parta, (...) cercate voi di aiutarmi in questa circostanza perche ho la fabrica chiusa e pago £ 125 mensile e poi vado a perdere la clientela” (
22). Giovanni, diventato padre da pochi mesi, muore l’anno successivo, quando l’attività esercitata insieme al fratello Gelasio è ormai cessata (23). Quest’ultimo, dopo i gravi problemi di salute e dopo una infelice esperienza nel commercio all’ingrosso della frutta abbandona Teramo con la numerosa famiglia per trasferirsi a Giffoni Vallepiana (Salerno). Muore a Teramo nel 1899.


TESTI DI RIFERIMENTO PER LE INFORMAZIONI SULLA FAMIGLIA ADAMOLI

Dattiloscritto di Umberto Adamoli: "Famiglie Strina-Adamoli. Da Como ad Aquila” (pubblicato all’indirizzo Internet: www.adamoli.org/umberto/approdo.html)

Dattiloscritto di Umberto Adamoli: "Nel romanzo della vita. Memorie" (pubblicato all’indirizzo Internet: www.adamoli.org/umberto/romanzo.html)


N O T E

(*) Federico Adamoli è nato nel 1963 e vive a Teramo. Cura un sito di famiglia (www.adamoli.org) e un portale abruzzese di mostre online (www.abruzzoinmostra.it) ß

(1) Processo verbale redatto presso la Gendarmeria Reale del Circondario di Teramo in data 27 giugno1857 (Archivio di Stato di Teramo, Fondo Polizia Borbonica, Busta 64 Fascicolo 6). ß

(2) Umberto Adamoli, “Famiglie Strina-Adamoli. Da Como ad Aquila”, pagina 67. ß

(3) Isidoro Strina viene ricordato tra i patrioti aquilani ne “La provincia dell’Aquila nel Risorgimento Nazionale” (Quaderni risorgimentali abruzzesi) di Giuseppe Buccella - Edizioni “Attraverso l’Abruzzo”, 1961 - pagina 20.
Nelle memorie familiari Umberto Adamoli sottolinea pure le vicende politiche per le quali l'ingegnere Isidoro Strina subisce la repressione borbonica: "Il 20 dicembre del 1849, la polizia borbonica, irrompeva, con la sua violenza, a Tempera. Molti, avvertiti in tempo, tra questi il Vicentini e l'Adamoli, riuscivano a sottrarsi all'arresto con la fuga verso la montagna; non riusciva, invece, lo Strina a sottrarsi alla cattura. Dalla istruttoria, che si iniziava subito contro di loro, risultava: 1. che i cospiratori erano stati spesso visti riunirsi anche nel caffè di Giacinto Pietrangeli, nel forno di Camillo Visca, nella farmacia di Giandomenico Tascione, nella casa di D. Andrea Rossi e nel Giudicato regio; 2. che scopo di tali riunioni era di tenere accesa, quali appartenenti al Comitato segreto della morte, di cui era capo il Vicentini, l'agitazione, tendente ad atterrire i realisti, a distruggere la sacra persona del Re e della reale famiglia, di rovesciare il governo e di stabilire la repubblica; 3. che in periodi diversi dagli stessi agitatori erano stati commessi atti di violenza, anche contro la Gendarmeria reale, assalendo la loro caserma e portando via le loro armi. Vi erano, inoltre, le accuse secondarie che i realisti, per odio di parte, presentavano numerose. Tutto ciò, quantunque fosse nelle previsioni, pur non mancava di gettare un certo turbamento nelle tre famiglie, le quali, per sottrarsi ad altre violenze, pure da parte della soldatesca borbonica, che aveva occupato militarmente Tempera, si ritiravano ad Aquila. Anzi, una compagnia di quella soldataglia si collocava nella casa degli Strina, saccheggiandovi quanto vi si trovava. Gli stabilimenti, per l'allontanamento dei dirigenti e di molti operai, anch'essi compromessi, dovevano sospendere ogni attività. Ma quella bufera, presentatasi così fosca, non toccava, non deprimeva gli animi forti dei generosi colpiti. Non emettevano un lamento quando lo speciale tribunale condannava l'ingegnere Isidoro Strina, già padre di cinque figli, a sette anni di relegazione, da espiarsi nell'isola di Ponza, ove era subito trasferito." - Umberto Adamoli, “Famiglie Strina-Adamoli. Da Como ad Aquila”, pagine 52-56.
ß

(4) Umberto Adamoli, “Famiglie Strina-Adamoli. Da Como ad Aquila”, pagina 38. Nelle indagini condotte dalla Polizia Borbonica di Teramo in seguito all'arresto del 1857, l'Intendenza di Aquila riferisce in data 15 agosto 1857 che Giuseppe non risulta tuttavia coinvolto in vicende politiche nel periodo della permanenza a Tempera, mentre è "censurabile nel lato della religione e della morale, non adempiendo ai doveri della prima, e frequentando le donne di cattivo costume" (Archivio di Stato di Teramo, Fondo Polizia Borbonica, Busta 64 Fascicolo 6). ß

(5) Umberto Adamoli, “Famiglie Strina-Adamoli. Da Como ad Aquila”, pagina 67. ß

(6) Alla Ramiera di Villa Tordinia, oggi in stato di abbandono, esiste tuttora l’iscrizione ‘CDS 1857’ soprastante l’ingresso. ß

(7) Umberto Adamoli, “Famiglie Strina-Adamoli. Da Como ad Aquila”, pagina 99. ß

(8) Questi registri venivano compilati attraverso l’uso della carta carbone che, posta tra il foglio originale e il foglio del registro, determinava la copia della lettera. Ma, prima che la carta carbone fosse inventata, esisteva il metodo del torchio: “Il metodo consisteva in una vaschetta di lamiera, entro la quale si inumidivano con acqua, delle pezzuole di tessuto spugnoso del formato carta da lettere. I testi da riprodurre, dovevano essere scritti con inchiostro copiativo, a macchina o a mano. La copia si otteneva su un apposito registro, chiamato ‘copialettere’, consistente in un libro di fogli di carta velina. L’originale, si inseriva nel libro, si ricopriva con una delle pagine di carta velina e, al di sopra di questa, si sistemava una delle pezze umide. Era possibile continuare, inserendo altro originale, altra velina e altra pezza, sino all’esaurimento degli originali. Chiuso il copialettere, lo si pressava sotto un torchietto, girandone il manubrio. L’umidità delle pezze, attraversava i fogli di velina. e raggiungeva la scritta copiativa del sottostante originale, la quale, sciogliendosi parzialmente, lasciava traccia sulla velina medesima. Dopo qualche minuto, si ritirava dal torchio il registro, sui cui fogli rimanevano riprodotte le copie degli originali” (da: "Memorie di un ottuagenario", all’indirizzo Internet www.poesia-creativa.it/vecchiogiorgior6.htm - Giorgio Vecchio, milanese, ha pubblicato insieme a poesie e filastrocche per bambini, le esperienze personali che ripercorrono il periodo della sua esistenza fino al 1945). ß

(9) Copia-lettere di Giovanni Adamoli, negoziante di rame in Teramo (16 aprile 1890 - 28 febbraio 1892) ß

(10) Giorgio Roverato: "Il problema delle fonti nella storia industriale", in: Economia e società nella storia dell'Italia contemporanea. Fonti e metodi di ricerca, a cura di Antonio Lazzarini, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura / Istituto per le Ricerche di Storia sociale e di Storia religiosa, 1983, pagine 165-183 (ora in G. Roverato. Scritti di storia economica, Padova. La Modernissima, 1995) ß

(11) Copialettere citato pagina 11 ß

(12) Copialettere citato pagina 11 ß

(13) Copialettere citato pagina 22 ß

(14) Copialettere citato pagina 23 ß

(15) Copialettere citato pagina 30 ß

(16) Copialettere citato pagina 9 ß

(17) Copialettere citato pagina 12 ß

(18) Copialettere citato pagina 8 ß

(19) Copialettere citato pagina 25 ß

(20) Copialettere citato pagina 14 ß

(21) Copialettere citato pagina 18 ß

(22) Copialettere citato pagina 489 ß

(23) Da questo momento la gestione della Ramiera di Villa Tordinia viene verosimilmente proseguita in via esclusiva dalla famiglia Spinozzi, dalla quale i fratelli Adamoli avevano ricevuto in affitto, a partire dal 1 agosto 1888, le strutture di Villa Tordinia destinate alla lavorazione del rame. Questa notizia si evince da una “scrittura addizionale” del 2 marzo 1890, che costituiva una parziale riforma degli accordi originari stipulati tra i fratelli Spinozzi (Pietro e Luigi, in nome anche degli altri fratelli) e i fratelli Adamoli (Gelasio e Giovanni). Della prima scrittura privata del 1888 - che forse chiarirebbe in maniera esauriente il preciso ruolo di ciascuna famiglia nella conduzione della ramiera - non rimane traccia. Nella scrittura integrativa del 1890, oltre a desumersi che gli Adamoli effettivamente ricevono in affitto dagli Spinozzi le strutture destinate alla ramiera, vengono specificati una serie di lavori di sistemazione che gli Spinozzi si impegnavano ad eseguire. La descrizione di tali lavori fornisce indicazioni su alcune caratteristiche della Ramiera di Villa Tordinia: gli Spinozzi “si obbligano d’accomodare il capoforma con l’adoperare dodici colonnette in legno rovere situati a due a due, e fornite di traverse con pietre per rendere un poco più resistente il capoforma dalle piene” (ma a questa sistemazione le parti rinunciano per una impossibilità di esecuzione), di “fornire di balaustra il loggiato che sta nella casa d’abitazione vicino la strada nuova rotabile”, di “fare una scala in legno per accedere alla carbonaia nel locale della ramiera”, di “fornire il fuso di due capiferri, compreso quello già esistente”, di “accomodare il terreno ora incolto che trovasi a sinistra di chi da Teramo va a Montorio nel lato opposto alla casa di abitazione, fornendo di un muretto a pietra sciolta e scassando il terreno, ciò dopo essersi ottenuto la linea dove impiantare il muro dell’Ufficio del Genio Civile Governativo”. ß

(segue...)


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