Umberto Adamoli

Nel romanzo della vita
(Memorie)

A mia madre
Donna Carolina Marotta
dei duchi di Castelnuovo
nell'affetto
che vince lo spazio - supera il tempo




Indice

Prefazione
Nel crepuscolo della vita
Sulle rive del Vera
Ritorno a Rocciano
Adolescenza inquieta
Ritorno a Giffoni Vallepiana
In cammino
Il bimbo di Oria
Smarrimento
Il fondo toccato
Luci nella tempesta
Nelle ansie della patria
Nelle luci della vita
Oltre la meta
Pellegrinaggio mistico
Vita spezzata




Prefazione


Madre, queste memorie, scritte nel primo centenario dell'arrivo degli Adamoli nella terra degli Abruzzi, sono dedicate a te, al tuo dolce nome, al tuo luminoso ricordo; a te, che sei stata la più buona delle donne, la più affettuosa delle mogli, la più santa delle madri.
Non so se nel mondo, in una divina volontà, sia tutto preordinato, o se le umane vicende siano regolate da un cieco destino. So, per quanto mi riguarda, che io nascevo da nobili genitori, e nascevo dove non erano nati gli altri fratelli. So che a me era imposto un nome, storico e armonioso, scelto da quei coloni delle vicine terre, che visitavano, con affettuosa religiosità, la mia culla colorata di celeste, nella campagna di Frondarola, nella casa solitaria, avvolta dai profumi dei fiori, allietata dal canto della primavera. Questo io so, o madre. So anche, allorché l'animo s'apriva attonito alle luci, nell'aurora della vita, che caro mi era e dolce sedere a te vicino; seguire ovunque, ansioso, i tuoi passi; carezzare, felice, il tuo capo dai meravigliosi neri capelli; udire, commosso, la tua meravigliosa voce, nel tuo bel canto; baciare, affettuosamente, il tuo rosso viso.
Questo so, o madre, e ricordo le veglie nella casa di Rocciano, giù nel basso, su la strada bianca, quando, nel silenzio della notte, al ticchettare dei ferri del tuo lavoro, s'aggiungeva la voce che saliva, quasi solenne, dalle acque del Tordino, che, nella valle nera, correvano, in perenne corsa, verso il mare. Quelle notti di veglie, in cui, accanto al focolare, mentre fuori infuriava la bufera, tu mi raccontavi, con vive colorite immagini, le favole udite laggiù, nel paese degli aranci, nella casa baronale e ducale dei Marotta, nella tua fanciullezza. Quelle favole di streghe e d'orchi, di malefici spiriti e di burloni fantasmi, che mi facevano guardare, intimorito, nelle ombre delle vicine stanze, verso la porta e le finestre, contro le quali batteva spesso violento il vento. Ma favole anche di prodi re e di amabili regine, di fate gentili e di romantiche bionde castellane, di generosi cavalieri, scudo dei deboli, e di miti trovatori, mesti cantori d'amore. Favole che elevavano anche, nel racconto delle gesta prodigiose degli eroici paladini, a generosi, forti proponimenti.
I ricordi crescono, col crescere degli anni. Crescono in quell'odissea, che costituiva il poema di luci e d'ombre, di riso e di pianto, della nostra famiglia.
Luci come quelle che splendevano sulla nostra casa, nel territorio dei Sabini, a Vitoia, vicino a quel piccolo lago, popolato di anitre e di cigni, che pareva fatto per i sogni; che splendevano a Tempera, sulle rive verdi del limpido Vera, culla quasi del ramo abruzzese degli Adamoli; che splendevano a Teramo, lassù, verso la montagna, nella solitaria ombrosa vallata del Tordino.
Sono tornato, o madre, con commosso animo, in quella vallata, ove vivesti, con il tuo prestigio, con il fascino della tua non comune persona.
Vi sono tornato ed ho rivisto, in un risveglio di dolci sentimenti, la casa ove io nacqui, i campi, i poggi, i piccoli boschi, la fontana, che gorgogliava sotto l'arcata del ponte, le strade delle nostre passeggiate. E vi ho riudito, nell'infiorata primavera, nella siepe di biancospino, l'usignuolo, che, con i suoi gorgheggi, perle saltellanti su lastre di cristallo, pareva volesse, come allora, raccontare la sua storia, le pene del suo amore, le vicende della sua randagia vita.
Ed ho riudito, tra le querce, entro le quali svolazzavano le piche inquiete, il fruscio del vento; giù nella valle lo scroscio delle acque; nell'officina solitaria il rumore dei magli. Tutto come allora. Ed ho rivisto, ho parlato con quelle persone che con te avevano parlato, che ti ricordavano, con commossa affettuosa devozione, nella tua bellezza, nella tua signorile bontà, nelle tue virtù.
Ma alle luci seguivano le ombre, fredde ombre, nelle quali maggiormente grandeggiavano la forza delle tua religione, la fermezza del tuo animo, la santità della tua rassegnazione.
Dopo le molte dolorose vicende, giovane ancora negli anni, già madre di undici figli, cadevi per il troppo amor materno, recisa con quel fiore, che era carne della tua carne. Tu santamente cadevi, ma dalla tua tomba, come era stato da te vaticinato, si sprigionava quella luce, che doveva illuminare la via della riscossa.
Nello scrivere queste memorie ho rivissuto oggi, o madre, passo passo, nella tua vita. Ho gioito nella tua gioia, ho pianto nel tuo pianto, e mi sono inginocchiato, con lo spirito, presso la tomba, nella vallata lontana di silenzio, ricca d'ulivi, ove tu dormi il sonno eterno dei giusti.
Ma il destino oggi è piegato. Ed andremo oltre, o mamma, pur tra la malizia, la perfidia degli uomini, per la conquista, in tuo onore, di più chiaro nome, per il raggiungimento di più alte mete.
Teramo, autunno del 1946


Umberto Adamoli



Nel crepuscolo della vita


Molto si discute sul destino che, come è comune credenza, regola a suo piacimento le terrene cose; come molto si parla, con altra concezione, sul libero arbitrio, che lascerebbe, invece, gli uomini padroni di sé, nelle loro azioni.
Io non so a quale delle due scuole appartenga. Posso, però, dire di essere andato, senza dottrinarie preoccupazioni, per mio conto, per le vie del mondo. Se quel che è chiamato anche fato mi sospingeva verso il basso, ad esempio, io alzavo fieramente la testa, raccoglievo le forze e andavo verso l'alto. Se nel cammino faticoso, quale è sempre la salita, mi spingeva fuori strada, io tornavo, vittoriosamente, sulla strada maestra, da me prescelta. Se in un momento di tentennamento mi cacciava nel buio, mi riportavo, con nuova forza, sulla via della luce.
Non nascevo io, ad ogni modo, e su ciò i creatori di fole potrebbero ragionevolmente fantasticare, dove nascevano gli altri miei fratelli. Nascevo, nel dolce maggio, in una casa solitaria, avvolta di fiori, nei pressi di Frondarola. Essendo stato chiamato dalle popolane che mi visitavano, per la mia floridezza, re, con l'espressione "è nato il re", mi si dava, appunto, il nome di Umberto, nome del re che allora regnava. Caso contrario sarei stato chiamato Donato.
Il fatto offriva alla fantasia d'infiorare l'avvenire di lieti propositi.
Dopo qualche giorno della nascita ero condotto, naturalmente, nella casa comune, allietata già da altri quattro fratellini.


Per quanto oggi mi sforzi non riesco a precisare quando, nel crescere, la mia intelligenza incominciasse a percepire le cose del mondo.
Anch'io, senza dubbio, sarò stato avvolto in bianche fasce, sarò stato cullato, con la ninna nanna, nella culla drappeggiata d'azzurro, e avrò schiuso ai vezzeggiamenti le piccole labbra al primo sorriso, e balbettato, per la prima volta, il dolce nome di mamma.
Vicende comuni a tutti i nati.
Mi ricorrono alla memoria, nel crescere in quella prima età, barlumi di luce di crepuscolo, avvolta di nebbia. Mi riveggo, in quella luce, affaccendato in cento inutili faccende. Non ho mai dimenticato un tuffo nell'acqua, una caduta da una botola, l'arrivo da Salerno del fratello della mamma, del quale dovevo portare il nome.
Non rammento cosa pensassi allora dei monti, che s'elevavano al cielo; del fiume che correva, con tenue mormorio, quando non era in tumulto per piena, verso il mare; della gente che passava, affaticata, su la strada polverosa. Mi colpivano le corriere a quattro cavalli, cariche di persone, che andavano verso la città, o ne tornavano. Consideravo l'auriga, che sedeva a cassetta, con molte briglie ed una lunga frusta, che spavaldamente chioccava, un non comune personaggio.
Non vi era nessun uomo, come lui, che avesse tanto valore nella mia fantasia. Primo mio sogno: divenire conduttor di cavalli.
Tra quel viavai, rammento un uomo sulla cinquantina, un po' curvo, forse dal lavoro, che, nel suo cammino, tirava un carretto, carico di merci.
Partiva da Montorio tutte le mattine, qualunque il tempo, per recarsi a disbrigare affari a Teramo, per conto di altri. Aveva commissioni anche da mia madre. Ripassava dinanzi a casa nostra, alle ore tre, tanto che noi lo chiamavamo "Il Tre".
Uomini antichi che, per guadagnarsi onestamente il vivere, si sottoponevano a qualunque fatica.
Rammento pure un cenciaiuolo e venditore ambulante di piccoli oggetti, Marcello, che passava di tanto in tanto con la sua cassetta a tracolla e con il suo sacco per i cenci.
Aveva aspetto, nella sua maturità, piuttosto burbero, con il viso un po' avvinazzato. Voleva essere, con il suo sacco, il suo cipiglio, i suoi strani sermoni, pure lo spauracchio dei bambini, ma non era che un burlone che cercava di guadagnare allegramente la vita.
Per un po' di tempo, in quel periodo, vidi ancora passare, in sulla sera, un uomo, dall'aspetto civile. Egli, nel suo andare, riprendendo, da una scorciatoia, la strada nazionale, si dirigeva verso Teramo.
Uomo strano che non doveva essere più in possesso delle sue facoltà mentali. Si fermava di tratto in tratto, gesticolava, parlava ora a voce alta, ora a voce bassa, come se attorno a sé vi fosse gente in ascolto. Pareva che talvolta, per la poca urbanità degli ascoltatori, s'inquietasse, s'irritasse.
Sul ponte che attraversava il Tordino, sostava a metà, e da uno dei parapetti, come in un arringo, favellava alle acque, che correvano sotto, verso il mare.
Infelice, ma non tanto, se la mancanza di senno, inalzandolo in un mondo fittizio, poteva in lui sopire le pene che sempre accompagnano la povera vita.
Dopo, riprendendo il cammino, scompariva, nelle ombre della sera, melanconicamente, sulla strada bianca, verso Teramo.
Nelle serene notti d'estate mi fermavo a rimirare, estatico, il cielo stellato, che io consideravo come una immensa volta, di una stanza gigantesca, cosparsa d'innumerevoli lumi accesi: stanza circolare, che posava, con le fondamenta, di là dai monti, dove per me tutto finiva.
Il sorgere della luna, dietro i colli avvolti d'ombre, mentre qua e là ululavano i cani e gridava l'allocco, me metteva in festa. La salutavo, e con me gli altri bambini, con canti, battendo le mani, come a persona, in cammino, per nostro conforto, lungo la volta celeste. Quando non appariva, in conseguenza delle sue fasi, pensavo che stesse a riposare, in una qualche vallata, dietro i monti.
Anche del sole, che qualche volta avevo visto uscire dal mare, le idee non erano molto diverse. Anche lui doveva riposare, durante la notte, dalle giornaliere fatiche. Usciva dalle acque, dopo il bagno, per la sua diuturna missione.
Felice santa ignoranza! Ma giova proprio all'uomo affaticarsi, tormentarsi tanto per svelare i segreti, di cui la natura è tanto gelosa? A che pro? Gli uomini della caverna, senza la nostra ansia, senza i nostri tormenti intellettuali e spirituali, dovevano essere di noi meno infelici.
Ma sino a qual punto le occulte universali forze saranno disposte a sopportare la prepotente umana sfida?
In Babilonia si confusero le lingue quando l'uomo, con la sua torre, voleva spingere troppo in alto la sua curiosità. Icaro cadde sfracellandosi, in mare, nell'avvicinarsi troppo al cielo.
I nostri antenati, se risorgessero, rimarrebbero sbalorditi dinanzi alle prodigiose scoperte del nostro secolo, è vero, ma rimpiangerebbero pure la pace dell'idilliaca loro vita.
Ma andiamo avanti, nel racconto.
Lo zio Donato, che aveva riempita di festa la casa, nell'autunno tornava a Salerno, per trasferirsi in America. Sorte allora comune, nella patria senza vita, ai perseguitati dalla fortuna.
Delle famiglie, che abitavano nelle nostre vicinanze, riveggo chiara quella del Broccolini, con i figli del quale, bambini anch'essi, spesso m'intrattenevo. Si correva, in giuochi, per l'aia; si rincorrevano, in tempo di spighe, lungo le siepi, le irrequiete lucciole; s'andava, furtivamente, nella vicina campagna, a mangiare frutta, anche se non matura. Serravamo d'attorno il Broccolini padre, quando smelava. Non temevamo le punture delle agitate api, pur d'avere un qualche favo, da cui succhiare, nella bambinesca ghiottoneria, il dolce prodotto.
Rammento anche un operaio lombardo, molto alto, di nome Giovanni, non più atto, per l'età, ai pesanti lavori della fonderia. Non aveva famiglia. I genitori, anziché metterlo alla porta, come s'usava di fare allora, con spirito lodevolmente umanitario, lo destinavano ai leggeri servizi domestici. Tutto il suo compito era di fare un po' di guardia su i nostri interessi, e a condurre noi a spasso.
Moriva, circondato da larga assistenza, in casa nostra. Mi è rimasta bene impressa la sua pallida figura, illuminata da quattro ceri, nella piccola camera, ed i funerali, con cui si conduceva alla tomba.
Era il primo morto che vedevo. Ne rimasi molto impressionato. Per qualche tempo, dopo il tramonto, mi pareva vederne l'ombra, sentirne lo spirito. Di notte passavo di corsa ed impaurito dinanzi alla stanza, dalla quale era uscito.
Altro personaggio importante, nella ricordanza, il nostro cane da guardia, Leone, con l quale giuocavamo. Aveva belle forme ed era di svegliata intelligenza. Tutto capiva, indovinava i nostri pensieri, e tutto da noi sopportava, carezze e maltrattamenti, con santa rassegnazione.
Di notte, nella sua vigilanza, nessuno poteva metter piede in quel nostro piccolo mondo. Ma non era sempre giusto. Di giorni i signori, riconoscibili dagli abiti, vi potevano circolare liberamente; i poveri, vestiti con stracci, no. Erano azzannati, se vi capitavano, e condotti, a viva forza, dinanzi al tribunale del padrone.
Anche a Leone la povertà appariva pericolosa!


Potevo avere cinque anni quando la famiglia si trasferiva all'Aquila.
Rammento i soliti amici che ci salutavano alla partenza. Nel passare a notte dalla città, in carrozza, dalla parte esterna, diretti alla stazione, mi s'offriva alla vista un altro quadretto della burlesca vita. Dal vano del pian terreno d'una casupola, debolmente illuminato, usciva di corsa, coprendosi la testa con le braccia, un uomo in camicia, inseguito, con un grosso bastone agitato in aria, da una furia infernale, in sembianza di donna.
A Giulianova prendemmo il treno, che ci doveva condurre verso la nuova nostra residenza.


Anche a Vitoio, come a Rocciano, non si vedevano, sparse per le campagne, che case di contadini.
Su un poggio, non molto lontano, primeggiava, come un nobile tra i popolani, la villa del barone Cappa.
La molta acqua, che zampillava un po' da per tutto, dava alla contrada, ricca di prati di pioppi e di salici, un senso largo di pace e di freschezza.
Vi si vedevano ruderi di antiche costruzioni, tra cui, su altro poggio, una torre, forse militare. La fantasia popolare, sempre fervida, faceva correre su di essa le più strane leggende. Nel suo seno si raccoglieva il solito tesoro, che nessuno ancora, per mancanza di coraggio, era riuscito a portar via. Una notte, come pure si raccontava, alcuni animosi, scavando stavano per toccarlo, quando per una parola, che non dovevano pronunciare, intesero scuotere fortemente la terra, ed essi furono lanciati a grandi distanze.
Nelle pareti di calcestruzzo vi si vedevano, ad ogni modo, impronte di monete, che vi erano state tolte.
Molti vi avevano inteso di notte rumore di catene, e vi avevano visto in movimento strane ombre. Si credeva che gli spiriti infernali vi si dessero spesso convegno.
Pochi, dopo l'Avemaria, s'avvicinavano al mistero di quella torre.


Compiuto i sei anni anch'io andavo a scuola, nella contrada di S. Antonio, nelle vicinanze dell'Aquila. Dovevo percorrere, per giungervi, tre chilometri. Non costituiva nessuna fatica, data la mia buona volontà d'apprendere. Vi giungevo, anzi, che sapevo già leggere.
Mi era stato maestro, oltre la mamma, uno dei capi operai della fonderia, Sperandio Arrigoni, molto caratteristico, con la sua barbetta a punta, con gli occhi sporgenti sempre umidi, con un sorriso ironicamente mefistofelico. Ma era buono. Aveva letto molti romanzi, e raccontava ai compagni di lavoro, nelle ore di riposo, molte novelle e i fatti del giorno, letti nei giornali.
Insegnava a S. Antonio una simpatica giovane maestra dell'Aquila. Avevo per compagni quasi tutti contadinelli, tra i quali vivevo in condizioni di privilegio. Ma io non vi facevo caso, se la maestra usava a me modi diversi da quelli che usava ali altri.
Generalmente non amavo i giuochi; amavo, invece, muovermi, camminare, correre, sempre correre, e arrampicarmi per le erte, su gli alberi.
D'estate passavo molto tempo sulle rive del fiume Aterno, o di un vicino piccolo lago, cinto di alghe e di salici. M'attraeva molto l'acqua.
Assai mi dilettava rincorrere le libellule, le farfalle, vedere guizzare i pesci ed il movimento silenzioso degli innumerevoli insetti.
Andavo quasi sempre solo; qualche volta m'accompagnava altro ragazzo, figlio d'un operaio della fonderia, molto vivace. Cercava questi spesso d'infilzare con una canna i gamberi, che si muovevano in fondo ad un canale d'acqua. Una volta, per essersi spinto troppo avanti, vi cadeva dentro. Alle mie grida accorreva, dalla vicina campagna, un contadino, e lo traeva in salvo.
Erano gli eventi più notevoli, che si svolgevano nella vita di quel piccolo mondo.


I genitori spesso si recavano a visitare i molti parenti, della famiglia Strina e della famiglia Vicentini, che avevamo all'Aquila. La buona mamma, per la bella presenza e per i tratti aristocratici, trovava, presso di essi, festosa accoglienza.
Dei fratelli della nonna Doralice Strina, l'ingegnere Isidoro, che nel 1852 era stato relegato ad Ischia per ragioni politiche, aveva sei figli. I tre maschi, ingegneri anch'essi, erano saliti in fama nella costruzione della ferrovia Sulmona-Roma, specialmente per la galleria scavata, con grandi difficoltà, nel massiccio monte Bove. Il religioso, nell'ordine dei francescani, era padre provinciale ad Ascoli Piceno.
La sorella Febronia, vedova di Ascanio Vicentini, altro ardente patriota, dalle pronte risoluzioni, viveva in una corona di ben nove figli, tutti studiosi ed aristocraticamente belli.
Ma più spesso i genitori ci conducevano a visitare le vicine storiche contrade. Ci conducevano a Coppito, a San Sisto, su i ruderi dell'antico teatro di Amiternum, patria di Sallustio, capitale di quel grande popolo sabino, che tanta gloriosa parte aveva avuto nella formazione dell'impero di Roma.
Andavamo pure al convento di San Giuliano, per ammirarvi il bel bosco, il magnifico paesaggio, i cimeli e le opere che il convento conservava.
Dopo qualche tempo, per altre necessità, la famiglia tutta, partiva per Tempera.



Sulle rive del Vera


Il babbo tornava, quindi, a Tempera, dove era nato, da dove era partito con i suoi, fuggitivi per ragioni politiche, bambino.
Vi tornava dopo molti anni, nella patria già redenta, con una propria famiglia, con otto floridi figli.
Quanti eventi in tutti quegli anni, e nella sua casa e nella sua vita! E proprio in quel tempo l'Italia, dopo di essersi con le armi rivendicata la libertà, secondo il sogno degli avi, con ardito volo, si era andata a posare sulle sponde dell'infuocata Massaua, per proseguire, successivamente, verso il misterioso interno continente nero. Volo ardito, ma necessario al suo prestigio ed alla sua esistenza, sollecitato dalla sua missione civilizzatrice.
Non aveva trovato, nel tornare a Tempera, nessun progresso. Le stesse case, le stesse strade, la stessa chiesa, nella parte alta. Tutto come allora, e il forno sulla strada rivierasca, e il caffè a "Piedi la terra", un tempo ritrovo di congiurati.
Un qualche mutamento trovava negli abitanti, ché i bambini erano divenuti adulti, i giovani vecchi, i vecchi sostituiti, nel corso inesorabile del tempo, da altri bambini.
Uguale il paesaggio, con i suoi colli alberati, con i valloncelli coperti di ginestre; uguale il fiume, con le sue alghe, i suoi salici, il suo mormorio ed il suo corso tranquillo verso il mare.
Noi, che nulla di tutto ciò potevamo sapere, correvamo, festosi, tra la curiosità dei coetanei, a renderci conto del villaggio di nuova dimora, percorrendolo in ogni senso, sostando sulle rive del Vera che lambiva quasi le case. Passando dinanzi alle abitazioni ci si offrivano, con modi cortesi, noci, mandorle, mele.
I genitori, sistemati in quella stessa casa, abitata già dalla nonna Doralice Strina, ricevevano le visite delle famiglie già amiche degli avi, quali erano quelle dei Morelli, dei Bonanni, dei Vicentini e di tante altre.
Gli anziani ne ricordavano, con affettuosa ammirazione, la rettitudine, la gentilezza, il vivo spirito di umanità, la devozione profonda e per la religione e per la patria.


La vita, ripreso il suo corso, si svolgeva senza preoccupazioni. Si cercava di capire e di seguire gli usi della gente, tra cui si viveva. Gente mite, frugale, laboriosa. D'estate s'allietava, con canti in coro, nei sani fecondi lavori dei campi; d'inverno si raccoglieva, per il disbrigo di altre domestiche faccende, specialmente di sera, nel caldo delle stalle, raccontando le favole della tradizione.
Gente molto religiosa. Andava, tra l'altro, ogni anno, in pellegrinaggio alle acque di San Franco, rese miracolose dalla leggenda.
San Franco, nativo, come si raccontava, del non lontano villaggio di Roio, si aggirava, verso il 1200, tra i monti aquilani, per mettere a favore della sofferente umanità, i poteri della sua santità. Era quasi sempre presente ove vi fosse da lenire un dolore, da scongiurare un pericolo. Affrontava i lupi che, in quel tempo, infestavano la contrada, strappando, dalle loro fauci, dopo averli ammansiti, prede umane.
Nei santuari era raffigurato, appunto, vestito di nero, seguito da un lupo, con un bambino tra i denti.
Potere di suggestione, senza dubbio. Un giorno, però, come si raccontava, con un colpo di bastone faceva scaturire da un sasso acqua fresca ed abbondante, per dissetare una moltitudine di gitanti, tormentati, nell'alta montagna, dalla sete.
Si gridava al miracolo, e mentre in quella solitudine solenne il sole confortava con la sua luminosità le valli, i boschi e quanto vi viveva, santo era proclamato l'uomo, santo il monte con la sua acqua.
Una volta vi andammo pure noi. Partimmo da Tempera in una fresca alba del mese di agosto. La strada, ardita e tortuosa, attraversava, nel suo primo tratto, una galleria, scavata nella roccia. Più avanti, dopo l'arido e l'orrido, s'apriva, quasi d'improvviso, un magnifico paesaggio. Nel basso si spiegavano prati, ricchi di erbe di acque, sgorganti da fresche polle, e salici senza numero, e pioppi, e fiori. Nell'alto, su i poggi, doviziosi di vigneti, si schieravano i bruni paeselli, dietro i quali, lontano, apparivano le montagne, tra le quali quella di San Franco, meta della gita.
Arrivammo all'acqua miracolosa quando, sull'incomparabile scenario, sfolgorava il sole, con la sua estiva magnificenza. Facevano corona alla località, con largo raggio, quei monti, prima intravisti, sopra i quali si elevava e dominava il Gran Sasso.
Monti rocciosi in alto, quasi inaccessibili; erbosi in fondo; folti di boschi nel mezzo. Lungo le pendici, ai margini dei boschi, pascolavano le pecore, tornate, per la durata della favorevole stagione, dai pascoli invernali delle Puglie e dell'Agro romano.
Ma la nostra attenzione era attirata dall'acqua, che scaturiva davvero da un sasso, attorno al quale erano raccolti, come attorno ad un'ara sacra, pellegrini giunti nella notte, da altre contrade.
Usavano di quell'acqua nel modo più largo, nella ferma fiducia di guarire o di prevenire malattie.
La mia anima di fanciullo ne rimaneva fortemente colpita.
Tra le feste religiose che si organizzavano a Tempera notevole quella in onore di San Biagio, patrono del villaggio. Caratteristica la gara che si accendeva tra i giovani, vestiti con i migliori abiti, per portare a spalla, nella processione, il Santo.
Seguivano le funzioni di maggio, nella chiesa infiorata, ove, tutte le sere, accompagnavo la mamma.
Seguiva la processione del Corpus Domini, che, nella campagna, saliva, con gli stendardi multicolori, con le statue, con il Santissimo, su le strade cosparse di fiori, ornate di festoni. Saliva su i colli, gialli di ginestre, rossi di papaveri, per benedire dall'alto la terra in vista, nella santa fecondità.
Nell'estate giungevano a mettere a rumore Tempera i parenti dell'Aquila, che vi avevano la proprietà, tra cui il giovane avvocato Vittorio Vicentini, figlio di Ascanio e di Febronia, alla nostra famiglia assai affezionato.
Vivevamo, quindi, bene anche in questa nuova residenza.
Veniva a migliorare, inoltre, le nostre condizioni economiche una donazione in terreni e casa, da parte di una parente.
Quei terreni costituivano una piacevole attività. Per renderli maggiormente produttivi si lavoravano quelli sino allora lasciati incolti; si estendeva la coltivazione dello zafferano; si piantavano nuovi vigneti, nuovi frutteti.
Erano quei terreni, inoltre, la nostra gioia. Vi andavamo, nella bella stagione, per assistere ai lavori, per attingervi, nell'aria libera, nuova salute, nuove energie. Vi andavamo quando i mandorli, i peschi, i meli, i ciliegi, con la policrome fioritura, davano un nuovo vago aspetto alla contrada, nuovi sentimenti all'animo commosso. Vi andavamo più spesso quando tutti quei fiori s'erano trasformati in succosa frutta, ed i vigneti facevano pompa di dorati grappoli.
Un eremita, o tale si voleva far credere, Filippo, dai capelli lunghi e dalla fluente bianca barba, dava ad una di quelle terre, Pallone, un non so che di antico. Abitava, con mistica tradizione, in una grotta, che egli stesso s'era scavata, ai fianchi della collina pietrosa, che sorgeva nel mezzo. Vi passava in penitenza ed in preghiera una parte dell'anno, dormendo su un rustico letto.
Un risorto anacoreta, dal religioso fanatismo del medioevo!
Noi, che ne avevamo molto rispetto, quando vi andavamo, lo visitavamo anche per udirne i sermoni, le sentenze, l'aspra critica contro i pavidi, i falsificatori, i rinnegatori delle divine leggi.
Vi andavamo per udirne pure fiabe e racconti bizzarri di spiriti vaganti, di streghe in agitata tresca, di strani giganteschi esseri, talvolta luminosi, che egli stesso vedeva nel cuore della notte, aggirarsi minacciosi, nella contrada.
Quei racconti ci divertivano, si, ma ci inducevano a lasciare il posto prima del tramonto. Se le ombre della sera ci coglievano lungo il cammino, mentre le campane del villaggio suonavano l'Avemaria, guardandoci intorno con un certo sgomento, allungavamo il passo.
Come tutti i ragazzi anche noi talvolta eravamo bizzarri. Tornando a notte da quei nostri terreni ci introducevamo qualche volta, vincendo la paura, nel cimitero, che s'incontrava lungo la strada. Indossando qualche cosa di bianco, ci volevamo far credere, ai passanti, fantasmi usciti dalle tombe. Una sera, però, molto umida, restammo noi stessi gabbati. Nel mentre ci apparecchiavamo, da una tomba di fondo vedemmo d'improvviso elevarsi una fiammella, muoversi, venire verso di noi. Ci sentimmo gelare il sangue nelle vene, poiché quella fiammelle rappresentava per noi davvero lo spirito di un qualche defunto. Nella confusione e nella paura non ritrovavamo la via d'uscita. Una volta fuori, senza più volgerci indietro, ci lanciammo, a gambe levate, verso il villaggio, ove giungemmo trafelati, con i brividi della febbre addosso.
Doveva trattarsi d'un fuoco fatuo, di cui non avevamo ancora cognizione. Ad ogni modo quel cimitero, da quella volta, non ci vide più di notte, in veste di fantasmi.
Qualche monelleria la facevo pure da solo, come quella che mi teneva lontano, per l'avvenire, da un vizio molto comune.
Rinvenivo un giorno su un tavolo della casa un mozzicone di quei sigari toscani, che usava fumare il babbo. Lo prendevo, lo rimiravo, lo portavo alla bocca, lo accendevo con molto sussiego. Andavo poi dinanzi allo specchio per riguardarmi, mentre fumavo, nelle mosse e nelle smorfie. Non smettevo, nonostante il disgusto, se non quando lo stomaco, delicatissimo, non ne era sconvolto, ed i mobili, la stanza ed ogni cosa in vista, non iniziassero un movimento rotatorio molto fastidioso.
La mamma, giunta nella stanza, mi trovava in condizioni pietose. Lo stomaco, intanto, bene irritato, tra le mie sofferenze, restituiva quanto era in sua custodia.
Le molestie di quell'esperimento mi restavano così vivamente impresse da farmi considerare il fumo, in seguito, con la più forte ripugnanza.

Parlando di me, aggiungo che a Tempera avevo scelto i piccoli amici tra i ragazzi migliori. Mi piaceva, anche in quell'età, in tutto, una certa compostezza. La sera, anche se costava un qualche capitombolo, spesso partecipavo alla cavalcata degli asini, condotti all'abbeverata sul fiume.
Ero per natura d'indole buona. Avevo molto rispetto per le donne, per i vecchi, per i poveri. Mi ritenevo ben fortunato quando potevo rendere loro un servizio. In istrada salutavo tutti, come superiori.
Per spontaneo cavalleresco impulso, accorrevo, come antico cavaliere, dove c'era da sostenere un debole, da eliminare un sopruso, da rintuzzare una violenza. Ero buono, ma non sopportavo prepotenze. Avvalendomi della forza, superiore alla mia età, e del coraggio che non mi mancava, reagivo, in ogni occasione, energicamente.
Un giorno, ad esempio, tornando da uno dei nostri terreni, dall'alto di una collina, da piccoli pastori, che pascolavano le pecore, mi si lanciavano sassi.
Li raggiunsi. Erano in tre e più grande di me. Mi lanciai decisamente su di loro, e li tempestai, senza che avessero la possibilità di reagire, di pugni e di calci.
Avevamo un terreno, il più lontano, con molti mandorli. D'estate spesso vi andavo, e penetravo da solo in un vicino bosco.
Godevo di quella solitudine, di quel silenzio, rotto, di tanto in tanto, dal canto del cuculo che mi giungeva come gradita voce amica.
Non sorgeva a distrarmi il pensiero delle deità silvane, non essendo allora a me nota la fantasiosa allegra mitologia degli antichi. Tutto, nulla meno, pareva che là dentro possedesse vita, avesse dolce poetica voce: le erbe, i fiori, gli alberi. S'avvertiva che un mondo di piccoli esseri, dai volatili ai rettili, vi viveva in continua laboriosità, forse con le stesse nostre passioni, con gli stessi nostri affanni; forse anche, come le formiche e le api, in ordinata disciplinata associazione.
Ero ragazzo, ma nella mia sensibilità capivo quelle bellezze, e rimanevo in mesto raccoglimento dinanzi all'inno che pareva si elevasse da tutte le cose, per il loro divino creatore.
Talvolta, seduto ai margini di quel bosco, mi dilettavo a provocare un'eco che ripeteva la mia voce e le mie parole con una chiarezza che impressionava.
Altro mistero questa eco, che molto turbava il mio fanciullesco spirito.
Ma anche a Tempera passava, inesorabilmente, il tempo.
Passava il tempo, ma sempre in letizia, allora.
Tra le feste, giungeva a noi sempre cara quella del Natale. Nei giorni che la precedevano, vedevamo la mamma molto affaccendata a preparare la tradizionale pasticceria. Concorrevamo anche noi, con la speranza di avere un qualche anticipo, in quel lavoro.
Ma un'altra fatica avevamo in quei giorni, tutta nostra, quale era quella della preparazione della lettera, su carta infiorata, con l'aiuto della maestra, per gli auguri ai genitori. Lettera da mettersi, poi, di nascosto, prima di cena, tra le pieghe dei tovaglioli.
Giunta l'ora della cena, ognuno prendeva posto attorno al tavolo. Noi più piccoli, autori delle lettere, sorvegliavamo, con curiosità, le mosse dei genitori. Si sedevano anche loro, finalmente; si recitava la breve preghiera; prendevano, quindi, e spiegavano il tovagliolo; cadevano i messaggi augurali.
Li aspettavano? Forse si. Ma per non deluderci, fingevano sorpresa, e ci premiavano.
Cari dolci tempi!


Avevo ormai nove anni, età che, avvolta tuttavia d'innocenza, corre tra l'infanzia e l'adolescenza.
Nella scuola mista di Tempera, ove pure insegnava una giovane maestra dell'Aquila, ero il primo della classe. Facevo onore alla maestra, quando il Direttore didattico o l'Ispettore, nelle loro visite, m'interrogavano. Possedevo buona memoria, forse anche intelligenza, certo molto amor proprio.
Fra gli alunni prediligevo due fratelli gemelli, perfettamente uguali nella somiglianza, figli del capo della cartiera, di proprietà degli Strina.
Tra le molte bambine vi erano le sorelle Vicentini, molto graziose; ma il mio piccolo cuore aveva turbamenti per la nipotina del parroco, Candida Morelli, disinvolta e simpatica. Desideravo, nel mio segreto, che fosse sempre presente a scuola; quando mancava ne ero afflitto. Essa, nell'infantile ingenuità, pareva che ricambiasse i miei sentimenti.
Durante le vacanze m'aggiravo, per poterla vedere, attorno alla sua casa, e frequentavo con maggiore assiduità la chiesa, cercando di mettermi in vista, nelle vicinanze dell'altare. La piccola Candida, dai capelli bruni e dal viso di rosa, mi guardava con dolci occhi.
Un giorno di settembre me ne andavo lungo il fiume, solo e raccolto nei miei piccoli pensieri, quando scorgevo, seduta sotto un albero, la bella coetanea. Giungevo a lei, che mi guardava e mi sorrideva, e ci parlammo.
Ci parlammo, nel vago smarrimento, in una poesia, che noi, forse, non intendevamo. Ci parlammo, mentre l'acqua, nella sua chiarezza, mormorava dolcemente, ed in alto, sul salice, dopo gli amori estivi, flebile cantava la capinera.
Amore? Le piccole vibrazioni del cuore lo potevano far credere. Quelle vibrazioni che ci inducevano a star vicino a scuola, a ricercarci fuori, a rendere festoso l'incontro, felice la sosta, melanconico il distacco.
Potevano considerarsi quei sentimenti, nella vaghezza dell'infanzia, come i primi trilli degli uccellini, avvolti di verde, nella siepe in fiore; come i primi profumi, quasi inavvertiti, della violetta, che sboccia ai primi tiepidi raggi di aprile; come i vaghi colori dell'alba, che precede, nel risveglio, il grande astro, donatore di luce e di calore.
Fiori senza insidia, luci senza ombre, pensieri senza malizia.
Varia, quindi, e piacevole si svolgeva la vita a Tempera, quando, in quella stessa casa, dove era nato il babbo, in tempo di vendemmia, nasceva Federico, il nono dei fratelli.


Nella primavera del prossimo anno il babbo doveva accorrere a Teramo, al capezzale della madre morente.
Scompariva, in tal modo, in età non ancora avanzata, donna Doralice Strina, la compagna cara a colui che aveva dato inizio negli Abruzzi, ad un altro ramo degli Adamoli, distaccato da quello di Lombardia.
Tolta, nel fiore degli anni, dagli agi d'una vita civile, aveva seguito il marito nelle peripezie politiche, su per le montagne coperte di neve, senza una protesta, senza un lamento. Né insofferenza aveva mostrato, negli anni di solitudine, sulle rive del Mavone, nei pressi di Tossicia. Rimasta vedova, nella contrada di Rocciano, disdegnava di tornare all'Aquila, presso i fratelli. Aveva preferito il disagio, pur di conservare, per sé e per i figli, una decorosa indipendenza.
In quella occasione il babbo e lo zio Giovanni parlavano di una società, da costituirsi a loro nome, riprendendo l'esercizio della fonderia di Rocciano, che era in crisi.
Pel momento non riteneva il babbo di aderirvi, trovandosi bene a Tempera, anche per la proprietà che vi possedeva. Ma proprio in quel tempo, come una fatalità, in quei soci, nei quali era stato sempre il più perfetto accordo, sorgeva una grave quistione. L'uno addossava all'altro la responsabilità dell'acquisto d'una grossa partita di rame, giunta dall'America, non atto, per la qualità, alla lavorazione della fonderia. Notevole la perdita. Non riuscendo, i soci, in via bonaria, a raggiungere un accordo, provocavano l'intervento dell'autorità giudiziaria, e la società si scioglieva.
Essendo, quindi, il babbo libero, riprendeva con Teramo le trattative, che concludeva, in breve tempo, favorevolmente.



Ritorno a Rocciano


La mamma non era troppo entusiasta della nuova partenza. A Tempera viveva bene, anche per la vicinanza della chiesa, ove poteva compiere, agevolmente, essa religiosa, i doveri della religione. Ma il problema, in quel momento, non poteva essere risolto in altro modo. Non era sufficiente la rendita della campagna, per tutti i bisogni, presenti e futuri, della numerosa famiglia; né, in quel piccolo centro, vi era possibilità d'altra rimunerativa occupazione.
Era necessario, di conseguenza, rimettersi in viaggio.
Il distacco da Tempera, ad ogni modo, dove si lasciavano interessi e tante buone amicizie, non poteva non addolorare. Noi, ragazzi, avidi di novità, non vi facevamo molto caso. Anzi tenevamo con i piccoli amici, che restavano, una certa aria di superiorità.
Quantunque la partenza avvenisse di buon'ora, pure una folla di gente era attorno alla carrozza, che doveva condurci, per il treno, alla stazione di Paganica.
Vi era anche, con la madre, la piccola Candida, confusa e turbata.
Auguri, promesse di visite, strette di mano, abbracci, tra lagrime, e "addio, addio", mentre la carrozza si muoveva. Si passava sul ponticello, dove udimmo ancora il mormorio lento del Vera, che pareva anche lui alzasse i suoi lamenti, per la nostra partenza.
Ad oriente apparivano i primi chiarori dell'alba.


S'arrivava a Rocciano, accolti festosamente dai vecchi amici, quando l'autunno aveva già diffuso, nella spoglia campagna, la sua malinconia. L'attività vi era ripresa alla stesso punto, in cui era stata lasciata cinque anni prima.
Tutto, quindi, procedeva bene, e si continuava a vivere in lieta agiatezza. La casa, dalle molte persone, era colma di beni e di benedizioni. Esisteva, si, una società, tra i fratelli, ma soltanto di carattere formale; in realtà i socie si consideravano come appartenenti ad una stessa famiglia, con una precisa missione: riconquistare, nello stato sociale, il posto perduto.
Lo zio Aldobrando, senza farne parte, esercitava, per conto dell'azienda, una specie di commercio ambulante, per la campagna e sulla montagna. Non aveva moglie, né intendeva ammogliarsi. Giovanni, molto avveduto ed aristocratico, che aveva per compagna Annunziata De Marco, dall'alto sentire e dal cuore d'oro, non aveva figli. Non potevano sorgere tra le due famiglie quistioni d'interessi. Le due cognate, dotate delle stesse virtù, s'amavano come sorelle.
Né il problema economico, rispetto ai lavoratori, era trascurato. Non vi era in quel tempo, a loro favore, nessuna precisa disposizione di legge, né vi erano sindacati. Ma gli Adamoli, con umanitario spirito, precorrendo i tempi, facevano ai propri salariati le migliori condizioni: davano agli stessi casa gratuita e fuoco, premi in danaro, pacchi alimentari nelle feste solenni. In caso di malattie continuavano a corrispondere il salario, per intero. I vecchi, senza famiglia, erano persino trattenuti nell'azienda, come pensionati.
Ma lo spirito di umana solidarietà si esercitava anche in altro ordine.
Erano anni quelli, in cui allora si viveva, molto tristi, per una grave carestia. Per le scale di casa nostra era un viavai, senza sosta, di povera gente, che chiedeva pane. E pane aveva. Nessuno ridiscendeva le scale, che penosamente erano state salite, senza portare con sé qualche cosa, senza rivolgere a quella casa la sua benedizione.
La buona mamma, dall'alto sentire e dal cuore d'oro, era la dea personificata della carità, la dea consolatrice dei sofferenti, la luce degli sventurati.


Avevo io rivisto i piccoli amici, anch'essi cresciuti di cinque anni, con festa.
Una corsa, per riconoscere l'orto, i campi, i valloncelli, la fontana, il fiume e quanto, del passato, m'era rimasto alla memoria.
Tutto andava bene. Era risorto, però, per me, il problema della scuola, alla quale non intendevo rinunciare. Non si sapeva proprio come provvedervi, non potendo per quell'anno andare in città. La fortuna venne da sé in aiuto.
Una sera mi trovava a Rocciano alto, vicino al fuoco, nella casa patriarcale degli Spinozzi. Vi era nella veglia, come consuetudine, per commentare i fatti del giorno e per altri racconti, il parroco don Antonio Martegiani. La conversazione, ad un certo momento, cadeva su me. Rispondevo alle molte domande, che mi si rivolgevano, anche su argomento scolastico, con prontezza e con simpatico accento aquilano.
Da quella conversazione nasceva l'idea, messa poi in atto, di continuare nello studio a Rocciano, sotto la guida di quel buon sacerdote.
La fatica della malagevole strada da percorrere tutti i giorni, con qualunque tempo, per l'ansia che mi sospingeva, non mi riusciva gravosa. Anzi, specialmente nella bella stagione, mi tornava piacevole, anche per gli svaghi che vi incontrano.
Negli ulivi, di cui era ricca la costa, vi gorgheggiavano, nella primavera, come a gara, il merlo e l'usignuolo; vi frinivano, d'estate, dopo la mietitura, le oziose cicale. Più giù, appena fuori degli alberi, fioriva la poetica ginestra. Più giù ancora, in fondo al valloncello, mormorava, lieve, tra le erbe, un ruscelletto, e, in un pantano, gracidavano le timide rane.
Tutt'intorno si muoveva, inoltre, una miriade di piccoli esseri viventi: grilli cantarini, farfalle dalle morbide tinte, che passavano, come le api, di fiore in fiore, per succhiarne il tenue profumo; libellule, in agitazione d'amore.
Io, ragazzo, tutto, di quel piccolo poetico mondo, osservavo, ma anche tutto molestavo.
Talvolta vedevo d'improvviso strisciare, in tanta pace, il muto serpe, fedele immagine dell'inganno in agguato.
Vi era spesso in vista, nei fecondi campi, oltre il bifolco, con i pii buoi, la pastorella, placida come le pecore che pascolava.
Quadretti deliziosi che nessun pittore avrebbe mai potuto riprodurre nella sua naturale poesia.
Nel pomeriggio, d'estate, spesso a Rocciano andavo a tenere compagnia ad un calzolaio, che lavorava all'aperto, all'ombra d'un albero; lavorava in quell'aia, da cui si vedeva giù, sulla strada bianca, la casa della mamma, e vi si ammirava un magnifico panorama.
Lavorava, quel maestro della lesina, senza le tante elucubrazioni, che fiaccano il fisico e turbano lo spirito delle menti dotte. Non aveva altra preoccupazione che quella d'accontentare la sua clientela. Al tramonto, sospesa ogni attività, rimaneva, in tranquillo riposo, dinanzi alla porta di casa sua, mentre i bambini giuocavano d'intorno, ed il fumo della pipa si disperdeva, a spira, nelle ombre della sera. Al suono dell'Avemaria si toglieva, devotamente, il cappello e si segnava. Alla domenica, in una fede mai scossa, andava a messa. Faceva, nei giorni di festa, una partita a boccia ed era felice.
Quante volte, nella vita randagia e senza pace, ho ripensato, con invidia, a quel calzolaio, nella sua uguale serena vita.
Troppo costa la salita che conduce alle luminose altezze!


A casa, dopo cena, d'inverno, quando tutti dormivano, la mamma restava ancora a lavorare, con le sue mani d'oro: a lavorare d'ago, d'uncinetto, di ferri. In quella laboriosa veglia, quando sulla strada e nei campi era alto il silenzio io solo rimanevo in sua compagnia. Mentre lavorava mi raccontava, la buona mamma, le fiabe, che essa, a sua volta, aveva inteso dalla mamma, dai nonni, dalle zie, nelle veglie, nell'antica casa dei Marotta, laggiù, nel paese degli aranci, nel salernitano senza neve.
A conclusione della giornata, come allora s'usava nelle famiglie sane, si elevava, al Signore, l'inno della riconoscenza.
Quanto era buona, anche nei doveri religiosi, la santa mamma! Pregava per sé, ma pregava anche per gli altri. Pregava per i vicini e per i lontani, per i buoni e per i cattivi, per gli amici e per gli eventuali nemici. Pregava, con particolare fervore, per i suoi figliuoli, che essa desiderava di vedere crescere sani e virtuosi.
Care ore! Non comprendo, ripensando alla dolcezza di quelle preghiere, come oggi ci si deve tanto affannare per uccidere l'anima, per imbestialire l'umano genere.
Quando anch'io andavo a letto udivo ancora la mamma aggirarsi per le stanze, per assicurarsi che nulla ai figli mancasse, che fossero, nel freddo dell'inverno, ben coperti.


Con l'andare a scuola dal parroco, poiché sembra che ne avessi l'inclinazione, sorgeva per me l'idea del sacerdozio. Se ne parlava al Vescovo, nella sua visita pastorale a Rocciano. L'entrata al seminario sarebbe dovuta avvenire, per le formalità da compiere, nell'ottobre del seguente anno. Apprendevo, nel frattempo, tutte quelle cognizioni necessarie al disimpegno delle funzioni religiose.
Con l'entrata al seminario sarebbe stato risolto per me, in modo definitivo, il problema della scuola.
Conquistato dall'idea, compreso, quale curato in erba, dalla dignità sacerdotale, assumevo un atteggiamento di serietà e di compostezza, degno dell'alta futura missione. Partecipavo a tutte le funzioni di chiesa e servivo la messa con molta disinvoltura.
Non riuscivo a ben ritenere la risposta allo "Orate frates". Balbettavo, nel recitarla, parole sconnesse, ed andavo avanti.
Ero capace, d'altra parte, di servire tre messe, nello stesso tempo, come quando venivano a Rocciano, per le funebri funzioni a favore dei defunti della famiglia Spinozzi, i sacerdoti, non meno di venti, delle altre parrocchie.
I tre altari della piccola chiesa funzionavano, per far presto, contemporaneamente. Io, essendo solo, dovevo correre dall'uno all'altro altare, per rispondere al sacerdote, suonare il campanello, spostare il messale, mescere, nel calice, l'acqua ed il vino. Il pubblico, che assisteva, ritenendomi fanciullo prodigio, guardava ed ammirava.
Il pranzo di molto ore, che andavo a godere, insieme ai preti, che si mostravano allegri e chiassosi, l'avevo proprio guadagnato.
Si facevano sul mio avvenire i più lieti pronostici. Anch'io sognavo, non un vescovado, ma una bella parrocchia, per svolgervi, in serenità di vita, la mia missione sacerdotale.
Spesso, andando nel pomeriggio a Teramo, incontravo, nei pressi della Madonna della Cona, disinvolti ed allegri, i convittori del Collegio nazionale, vestiti delle loro eleganti divise nere. Nel vederli mi si svegliavano, nella mente, molti pensieri. Come erano fortunati quei giovani mortali, molti dei quali dovevano appartenere a quelle famiglie, che sulla sera, si vedevano passare, in lussuosi cocchi, tirati da superbe pariglie, per le vie della città.
Fortunati essi, che non dovevano percorrere nessuna strada per andare a scuola, che la loro vita di studio, in bei saloni riscaldati d'inverno, era circondata da tante cure, confortata da tanta agiatezza, allietata da tante promesse, cullata da tante speranze.
Il confronto tra la loro e la mia vita conduceva ad amare considerazioni. Ne rimanevo mortificato. Apparivo, al loro paragone, un povero tapinello, sperduto nella comune folla.
Ma tante altre volte incontravo, invece, su quella stessa strada, usciti pure a passeggio, coloro che sarebbero dovuto essere, l'anno dopo, miei compagni di studio. E li guardavo, li osservavo nel loro muoversi, nella loro composta condotta e me ne compiacevo, e fantasticavo su quella mia futura vita.
Anche per me la fortuna avrebbe avuto i suoi sorrisi.

 

Adolescenza inquieta


Ma le cose si svolgevano in un modo ben diverso da come erano state predisposte. Quando, appunto, con il corredo già pronto, dovevo entrare in seminario, s'abbatteva sulla nostra casa la bufera, dalla quale doveva essere sconvolta e travolta.
Dopo breve malattia moriva la buona zia Annunziata, la cognata affettuosa, la moglie esemplare, la dea benefica delle due famiglie. Se ne piangeva la scomparsa, in un nero presentimento, con molte lagrime.
Nel successivo anno il fratello Giuseppe partiva per soldato. Poco dopo moriva a Giffoni la nonna, madre della mamma. Nasceva a Teramo, dopo Maria Gesù, l'undicesimo dei figli, la sorella Argira.
La scomparsa della nonna induceva al ritiro da Giffoni di Ciriaco e Maria Concetta, che essa teneva presso di sé. Anche Allegrezza, che era con la zia Annunziata, rientrava in famiglia, con dolore delle sorelle Urbani, presso le quali passava una parte del giorno.
Anche questa famiglia, da ricordarsi per la devozione agli Adamoli, era stata colpita, sulla via della bontà, dalla nera sventura. Perdeva in giovane età, intelligenti ed operosi, i tre figli maschi. Perdeva, successivamente, il padre, poi la madre. Nella casa non rimanevano, come nella favola, che tre sorelle: Maria Domenica, Argia e Giselda. Rimanevano sole, nella lotta per la vita, nelle loro speranze. Una, la seconda, insegnava nelle scuole; le altre due provvedevano ad altre domestiche faccende. Non uscivano se non insieme, la prima in mezzo, le altre ai lati, in ordine d'età. Avevano svegliata l'intelligenza, fine l'educazione, facile la parola, viva la ricordanza.
Dopo di Allegrezza, nel corso degli anni, rivolgevano le loro cure e il loro affetto ad Annunziata, figlia di Giovanni; dopo, come in un ordine ben determinato, a Dina, figlia di Annunziata; dopo ancora, dalle sorelle superstiti, essendo la prima scomparsa, a Franco, figlio di Dina.
Costituivano, queste sorelle, una pagina viva nella storia degli Adamoli. Erano care ai figli di Gelasio, poiché ne ricordavano, nella sicura testimonianza, le eccellenti doti; ricordavano, con parola viva e commossa, la bellezza e le virtù della mamma.
Rappresentavano esse un raro esempio di fedele, nobile amicizia, da non doversi dimenticare nella corsa del tempo, nelle alterne vicende umane.


Riaccompagnavano Ciriaco e Maria Concetta a Teramo il fratello Giuseppe, che noi chiamavamo Peppino. Simpaticamente disinvolto si presentava Ciriaco, nella sua loquela napoletana, molto svelto; alta, snella, circonfusa di dolcezza appariva Maria Concetta.
Bella nella freschezza dei suoi quindici anni, nelle sue forme perfette, nella ricca castana capigliatura, nei suoi grandi occhi cerulei, nel colorito d'avorio dalle tinte di rosa; bella nella voce, negli atti, modi quasi monacali.
I due, nel giungere, mettevano la casa in festa. Per la prima volta la nostra famiglia si trovava raccolta, con i genitori ancora giovani, con gli undici figli. La festa continuava sino alla partenza, per il ritorno al reggimento, di Giuseppe.
Pareva che in quel momento, in una serena gioia, fossero sospese le ansie, le preoccupazioni, le contrarietà della vita.
Belle erano, soprattutto, le ore della sera, che trascorrevamo sul terrazzo, dinanzi alla campagna coperta di ombre, illuminata fantasticamente dalle migliaia di lucciole, in fosforescente agitazione. Dinanzi a quella campagna, il silenzio della quale era rotto, con accento di poesia, dal rumore del fiume, da qualche ululato lontano di cani, dal grido del solito allocco.
Ma un'altra voce s'univa, con maggiore bellezza, all'armonia che scendeva dal cielo stellato: la voce della deliziosa sorella, che cantava, con squisito sentimento, dolci notturne romanze.
Poiché in quell'anno non s'era andati al mare, si organizzava, una domenica, una gita a Giulianova. Alla stazione, come avveniva sempre, dove si passava, nel salire in treno s'attirava l'attenzione dei passeggieri. Chi era sudato s'alzava; chi era in piedi veniva avanti, per contare i componenti di quel collegio in viaggio.
"Ancora?" Esclamavano a mano a mano che si saliva e si correva a prendere posto negli scompartimenti. Vedendo i genitori ancora giovani, quei passeggieri facevano i più lieti commenti ed i più vivi auguri.
Se a quel punto si fosse arrestata la ruota del destino, benedetta quella famiglia si sarebbe potuta considerare e felice. Ma la ruota delle umane vicende, girata dalle inesorabili parche, continuava senza sosta, nel suo fatale andare.


Dopo la scomparsa della buona zia Annunziata gli Adamoli tenevano, sul doloroso fatto, una specie di consiglio. Si capiva che in quella casa era necessaria altra donna. Poiché lo zio Giovanni vi rinunciava, accettava d'ammogliarsi, sia pure a malincuore, lo zio Aldobrando. Sceglieva egli la sua compagna, con intenzione, in una vedova senza figli e senza probabilità di farne: in Ambrosina Di Febo, d'ottima qualità, che molto somigliava, per carattere e per bontà, alla scomparsa zia.
La vita, quindi, in quelle due famiglie, pareva tornata normale. Se non che, dopo non molto, lo zio Giovanni, destando viva sorpresa, annunziava, improvvisamente, il suo nuovo matrimonio con Diana Ridolfi, di Teramo, vedova con due figlie.
Il fatto, che molto sconcertava, provocava il risentimento vivo dello zio Aldobrando. Nascevano, di conseguenza, molti timori per il prossimo avvenire.
Quei timori, purtroppo, non erano infondati. Quando lo zio Giovanni sapeva che stava per divenire padre, modificava, nei confronti nostri, la sua condotta. Spesso si mostrava, ciò che non aveva mai fatto prima, scontento. Avvenivano, nei riguardi della società, discussioni vivaci, che mettevano il babbo, padre di undici figli, in uno stato di vero turbamento. Rincasava in quei giorni, contrariamente al suo gioviale carattere, d'umore nero, senza volerne dire la ragione.
A mano a mano ognuno era preso da un senso di sgomento, d'accoramento. Nera in quella casa, già così festosa, era l'aria. Tutto infastidiva. Dallo stesso canto della civetta, prima deriso, si traevano melanconici pronostici.
Il Tordino medesimo, la cui voce giungeva sempre come quella d'un amico, non si dimostrava neppure lui generoso.
In un giorno del mese di luglio, neri nuvoloni s'agitavano, s'accavallavano nel cielo della montagna: nuvoloni che, a mano a mano, tra lampi e tuoni fragorosi, si distendevano, s'allargavano, invadevano altre zone. Pareva che il cielo stesso inveisse, con tutto il suo furore, su la povera terra. Scrosciava l'acqua, come un diluvio, e cadeva la grandine; scrosciavano i canali, le grondaie, i vicini fossi; alzava il Tordino, nella valle, mentre i fulmini cadevano su le querce, la sinistra sua voce.
Calmavasi, sul mezzogiorno, il temporale; squarci di sereno, con i segni dell'arcobaleno, apparivano qua e là, tra le nubi, che correvano sempre veloci, nel vasto cielo.
Nel mentre le lumache sbucavano nella siepe e gli uccelli riprendevano il volo, alcuni osservatori lanciavano, dall'alto del ponte, grida d'avvertimento a coloro che s'aggiravano di sotto, lungo il letto del fiume. Una piena, di vaste proporzioni, avanzava con tumultuoso impressionante rumore. Arrivava, s'allargava, avvolgeva, invadeva, con le acque limacciose, gli orti, il mulino, la fonderia, le vicine case d'abitazione. Spettacolo mai visto, che destava sgomento e maraviglia.
Tra i vortici delle livide acque che correvano, come furie, con il fragore della tempesta, apparivano e scomparivano arredi, tronchi d'alberi, bestie, forse anche vittime umane.
Nel pomeriggio tornava il sereno ed il sole, le acque diminuivano di volume e d'impetuosità, ma rimanevano anche per noi i danni, molto gravi. La diga, che deviava l'acqua verso il mulino e verso la fonderia, era stata quasi distrutta, il canale riempito di sterpi, di sassi, di mota.
Le macine ed i magli potevano essere rimessi in movimento, dopo molti lavori e molte spese.
Danni a danni, quindi, dolori a dolori.


L'ottobre, che seguiva, si presentava ancora una volta, per noi, nefasto. Le precedenti sventure erano accadute sempre d'ottobre.
In uno di quei giorni, per le sfavorevoli risultanze contabili presentate dallo zio Giovanni, il babbo era tornato da Teramo più agitato che mai. Nella notte alte grida della mamma mettevano a subbuglio la casa. Noi, che accorremmo assonnati e spaventati, trovammo il babbo in preda a forte agitazione nervosa. I medici, che lo visitarono, dichiararono che nulla vi era, per il momento, di grave, ma che occorreva, per la guarigione, un lungo periodo di cure e di riposo, soprattutto di tranquillità.
L'uomo sano, robusto e vigoroso; l'uomo che non era stato mai malato, doveva, improvvisamente, sospendere ogni attività, con conseguenze molto funeste per noi.
L'agitazione fu vivissima in quei primi giorni. Quando tornava un po' di calma, non si poteva non esaminare il doloroso caso, con particolare serietà. Non ritenendosi Antonio in possesso di tutte le qualità, per sostituire nelle complesse attività il padre, si pensava di far tornare Giuseppe, con la sostituzione, nel servizio militare, con Ciriaco, che proprio in quei giorni compiva i diciotto anni.
Giuseppe tornava, e prendeva senz'altro il suo posto di lavoro e di responsabilità, ma per quanto animato dalla migliore buona volontà, anche lui non poteva modificare, in nessun modo, il corso degli avversi eventi.
Dopo altri esperimenti e dopo altre incresciose discussioni, si doveva aderire, anche se a malincuore, allo scioglimento di quella società, costituita e proseguita, per qualche anno, piena di liete promesse.
Il babbo che, nel frattempo, aveva avuto nella salute un notevole miglioramento, per non rimanere inoperoso, iniziava, per l'esportazione, il commercio all'ingrosso della frutta. Non avendo una sufficiente preparazione, la prova non poteva avere favorevoli risultati. Tutta la produzione delle mele, ad esempio, acquistata nelle vicine campagne, non avendo un mercato in cui spedirla, rimaneva a marcire nei magazzini di raccolta.
Essendo l'esperimento fallito, con non lievi danni finanziari, si deliberava di abbandonare Teramo. Invece dell'Aquila, ove vi era sempre la proprietà, si sceglieva, a nuova residenza, Giffoni Vallepiana, ove la mamma possedeva ancora una parte della casa paterna.
Si lasciava quella contrada, un giorno tanto luminosa per noi, con la più viva tristezza nell'animo. Foschi colori avevano assunti, per noi, le colline, la fontana, il fiume, la campagna.
Un ciclo della nostra vita era ormai chiuso; un altro se ne apriva, ma senza luce.



Ritorno a Giffoni Vallepiana


Il viaggio s'iniziava per Giffoni quando, in autunno, il Gran Sasso aveva imbiancato la sua cima. Si lasciava Teramo senza un preciso programma, melanconicamente. I bambini, che nulla capivano, potevano battere gioiosi le mani al treno, al mare, alla novità. La mamma, che ne era partita bella nella sua fresca giovinezza, tornava alla sua terra dopo molti anni, madre di undici figli, col marito malato, con una pena acerba nel cuore. Nessuna luce illuminava, per il momento, il prossimo avvenire.
Dopo gli incontri, i saluti, le visite d'uso, la famiglia si raccoglieva nelle proprie preoccupazioni. Si tentava, in seguito, di riattivare a Giffoni l'industria di Teramo, ma con esito negativo. Il danaro tenuto in serbo, per le familiari necessità, a mano a mano si esauriva. Per maritare Maria Concetta, nei suoi sedici anni, si doveva vendere la casa della mamma. La buona e bella sorella andava a nozze per ubbidienza, ma molto a malincuore.
Divenendo la situazione sempre più oscura, il babbo, migliorato in salute, decideva di andare all'Aquila a vendere quanto vi si possedeva, per tentare, dopo, altro commercio.
I fratelli Giuseppe ed Antonio s'occupavano, intanto, in qualche modo, presso la grande azienda del parente Antonio Adamoli, lombardo pure lui, che si trovava in ottime condizioni finanziarie. Gli altri frequentavano e scuole pubbliche e scuole private.
In quel tempo giungeva l'altra dolorosa notizia della morte dello zio Giovanni.
Giovanni Maria Adamoli, terzo figlio di Giuseppe di Narro, che scompariva innanzi tempo dalla scena della povera vita, lasciava nei concittadini, per l'educazione, per la nobile operosità, per la scrupolosa rettitudine, il più largo rimpianto.
La vedova Diana Ridolfi, intelligente ed avveduta, dopo non molto, si separava dall'azienda, che aveva in comune con il cognato Aldobrando, per aprirne un'altra, sotto il proprio nome.


Il babbo tornava dall'Aquila, dove s'era recato, dopo sei mesi, con un carico di maioliche. La vendita della proprietà, essendo gravata da ipoteca, per una forte somma, era stata fatta in isfavorevoli condizioni. L'ipoteca, da tutti ignorata, era stata accesa da quell'ingegnere Ciuffoletti, già socio nella fonderia di Tempera, su presentazione di cambiali, firmate a suo favore dal babbo. Non riconosceva il babbo per su le firme; ma la perizia giudiziaria non risultava a lui favorevole.
Probabilmente quelle cambiali, con un pretesto qualsiasi, erano state fatte firmare, dal non troppo onesto ingegnere, per la quistione del rame, in qualcuna delle cene, nelle quali il babbo spesso partecipava.
Anche il commercio in ceramica, iniziato a Giffoni, per complesse ragioni, non proseguiva.
La discesa continuava, inesorabilmente. Nel 1894, Giuseppe, già in qualche modo occupato, era d'improvviso arrestato, quale renitente alla chiamata alle armi. Poiché figurava nelle liste di leva al posto del fratello Ciriaco, dal quale era stato sostituito, doveva anche rispondere, senza che egli lo sapesse, dei suoi obblighi militari. Il Ciriaco, anche volendo, non vi poteva provvedere, poiché, compiuto il servizio della sostituzione, contraeva per proprio conto nell'Esercito, per non tornare a casa a fare il disoccupato, una ferma di volontario ordinario di tre anni.
Il tribunale, che non ammetteva, nella sua severità, giustificazioni, lo condannava a due anni di carcere militare. Per il carcere, su petizione della dolente madre, otteneva la grazia sovrana, ma per la seconda volta doveva partire per soldato, al posto, appunto, di Ciriaco.
Si trovavano, quindi, contemporaneamente alle armi due fratelli.
Allontanatosi di nuovo il primogenito, il peso della famiglia rimaneva su Antonio, che, in verità, rispondeva, in quella occasione, ai suoi doveri, con generoso cuore.
Le condizioni di salute del babbo, dopo il ritorno dall'Aquila e dopo il fallito esperimento commerciale, tornavano a peggiorare. Non era possibile farlo ricoverare in una clinica, come sarebbe stato necessario per una buona cura, poiché le riserve, costituite dalle economie e dalle diverse vendite, ogni giorni di più si riducevano.
Anche nel napoletano, quindi, le cose non andavano bene. Ad un tratto, anzi, vi avveniva un peggioramento.
Un pomeriggio, andando in giro, udivo che un figlio naturale dell'industriale Adamoli, rivolgeva al fratello Vincenzo una delle solite sconce parole, tanto in uso nel popolo napoletano. Prima che Vincenzo si movesse, io, toccato nei delicati sentimenti, lo avevo già schiaffeggiato. Non avendo il coraggio di reagire, quantunque a me maggiore d'età, correva ad invocare l'intervento della madre, e si iniziava la zuffa.
In mio aiuto correva il fratello Antonio; in aiuto della megera, essendo entro il recinto di uno degli stabilimenti ove spadroneggiava, correvano i fratelli, i nipoti, i parenti, che con essa convivevano. La indemoniata era per primo colpita, con un bastone, alla testa; poi un fratello; poi un nipote. Urla si elevavano qua e là, e rumore di percosse. Antonio, che aveva un coraggio leonino, guardato alle spalle da me, che non tremavo, teneva validamente il campo. Nel mentre un fratello della furia, con un aggiramento, stava per colpire con un martello Antonio alla testa, riceveva a sua volta da me, con un ferro con forza lanciato, un colpo nelle vicinanze della tempia sinistra, e cadeva a terra, sanguinante. Mentre accorrevano a soccorrerlo, approfittando della confusione, ci allontanammo, per andarci a rifugiare, in altra frazione, in casa del parente De Ippolitis.
L'accaduto destava, nella contrada, molto rumore e favorevoli commenti per noi. Per noi, che avevamo osato di rompere l'incanto che circondava il covo della furia, da tutti temuta; che avevamo osato, in quello stesso covo, d'affrontare la ciurmaglia dei parenti, che vivevano, come bravi, su i suoi mali costumi; che avevamo rotto, in condizioni difficili, molte loro teste.
Anche Antonio aveva riportato una ferita alla testa, ma di poco conto.
Io ero stato, come il più piccolo, l'eroe della giornata, e molto se ne parlava. Avevo avuto, in verità, una parte molto attiva nella cruenta zuffa, senza ricevere, per la mia destrezza, neppure una graffiatura.
L'orgoglio poteva essere soddisfatto, ma le conseguenze, che ne derivarono, producevano nella famiglia nuove preoccupazioni. Per placare l'ira della furia offesa e ferita Antonio Adamoli doveva licenziare, contro la sua volontà, l'omonimo parente.
Dopo qualche tempo, poiché a Giffoni non si trovava altra occupazione, Antonio si trasferiva, per ragioni, appunto, d'impiego, a Teano, accompagnato, per il momento, da me e dal babbo.


Vivevamo a Teano a pochi chilometri dalla città, non molto lontano dalla storica località, ove avvenne l'incontro, nel luminoso risorgimento, di Vittorio Emanuele secondo con Garibaldi: dalla città già capitale dei Sidicini, gloriosa di storia, di ruderi, di romani monumenti, che noi visitavamo religiosamente.
Dai suoi bastioni, dove gli abitanti s'erano forse adunati, per osservare di sotto gli eventi storici, che vi si svolgevano, s'ammirava una vasta rigogliosa pianura, disseminata di case, di villaggi, di popolosi importanti centri. Laggiù, lontano, verso il mare, ove s'indovinava Napoli, si vedeva fumare il Vesuvio.
Invitava quella veduta, nebulosa nella sua vastità, e molte fantasticherie, ma altri erano i pensieri che turbavano il nostro animo.
Poche volte, d'altra parte, uscivamo dall'eremo, in cui vivevamo. La solitudine era, però, compensata dal magnifico paesaggio, costituito da amene collinette, da pittoreschi valloncelli, freschi di verde e di acque, molte delle quali carboniche ferruginose che, nel berle, sviluppavano un appetito pericoloso per la modesta nostra mensa.
Nella salute del babbo, o per il cambiamento d'aria, o per quell'acqua che beveva abbondantemente, era avvenuto un confortante miglioramento.
A Teano, in occasione della fiera di S. Antonio, che durava tredici giorni, assistevamo, con curiosità ed interesse, alle manifestazioni d'ozio e di lavoro, di miseria e di ricchezza, d'inganni e di rettitudine, di buffoneria e di serietà, che rappresentavano, in sintesi, la vera grande umana commedia.
Quella fiera si estendeva su un terreno, quasi di collina, per molti chilometri. Era, in ogni parte, un gridio, un muoversi affannato, un frastuono continuo. Ognuno cercava d'attirare, nel modo più chiassoso, sulla propria attività, l'altrui attenzione.
Lungo le strade, che conducevano a quella specie di bolgia, vi si osservavano fattucchieri, giocolieri, indovini, carovane di zingari, giuntivi da ogni parte.
Vi si osservava ancora, destando ribrezzo e profonda pietà, uno schieramento di storpi, di ogni specie. Pareva che fosse stata molto minuzioso la scelta per condurre, a scopo speculativo, su uno dei più infami mercati, gli aborti più mostruosi della ingrata natura.
Tutti si commuovevano alle grida, agli alti lamenti, alle invocazioni di quegli esseri infelici, e davano danaro.
Baracche sorgevano, inoltre, ovunque, padiglioni, case di legno. Vi erano scimmie, serpenti, bestie feroci, nani, giganti posticci, in continua trasformazione, e pagliacci di ogni colore e di ogni valore.
Non vi mancavano, a spesa dei semplicioni, dei gonzi, gli inganni, i furti organizzati, gli abili borseggi.
Ma di là da queste ed altre affermazioni, la Campania felice, in questa adunata, mostrava il largo spirito d'iniziativa, la capacità di ricchezza, i prodotti della sua terra feconda.
Vi erano stati aperti, per l'occasione, molte cantine, molti ristoranti, adorni di verde, con esposizione di vino e di ghiotte vivande, ove, gli intervenuti alla fiera, andavano a festeggiare i guadagni più o meno onesti.
Vi andammo, punti dall'appetito ed attratti dal buon odore, a cena anche noi. Scelto un posto, in fondo alla sala da pranzo d'uno di quei ristoranti, ordinammo un gustoso spezzatino, melanzane alla parmigiana ed un bel fiasco di vino, di quello duro pugliese ed altro.
Nella sala, dinanzi ai piatti e alle bottiglie, che si vuotavano speditamente, regnava la più schietta allegria. I commensali avevano, quasi tutti, visi rubicondi, spalle ben quadrate, mani ruvide, modi grossolani.
Erano, evidentemente, uomini che passavano di mercato in mercato, di fiera in fiera, acquistando, vendendo, imbrogliando, facendo ottimi affari.
Parlavano chiassosamente, senza riguardi per nessuno. Anche le donne, ornate di collane, di orecchini, di ciondoli d'oro, vi erano largamente rappresentate.
Completavano il quadro rusticano i molti suonatori ambulanti, che si susseguivano ad allegrare il già allegro ritrovo.
Nella comune baldoria anche noi, una volta tanto, mangiavamo e bevevamo, allegramente.
Io trovavo quel vino gustoso e bevevo. Ragazzo com'ero, non abituato alle smoderatezze, non tardavano i fumi alcoolici a salire alla testa. Con quei fumi incominciavo a vedere le cose annebbiate e doppie. I lumi s'accendevano, intanto, l'animo s'inteneriva.
Quando uscimmo, che era già notte, e riprendemmo la via di casa, che era a tre chilometri, maggiormente si fece sentire l'effetto del vino. Un cerchio mi cingeva spiacevolmente la testa, non mi reggevo sulle gambe, grossa sentivo la lingua, in rivolta lo stomaco. Non avendo la forza di proseguire, a un venti minuti di strada mi gettai su un mucchio di ghiaia, ove avveniva... ciò che doveva avvenire.
Il burlone dio Bacco m'aveva fatto un brutto scherzo, ma me ne vendicai. Non mi ebbe più in seguito, neppure lui, come il dio tabacco, nel numero dei suoi seguaci.


Poteva essere stata quella fiera, con tutto il mio infortunio, uno svago per noi, ma niente altro.
Io continuavo a fare, delle nostre modeste sostanze, l'amministratore. Poiché non m'era possibile frequentare una scuola, oltre i libri di cultura generale, leggevo storie, poemi, romanzi, che ricevevo a dispensa, per abbonamento, con belle illustrazioni. La domenica, mentre il babbo ed il fratello andavano in città, io rimanevo solo, nel silenzio festivo di quell'eremo, raccolto in quelle letture. Penetravo, in tal modo, con esse, con la riscaldata fantasia, nel brulicume, nei misteri, nei delitti delle corrotte grandi città; o assalivo, con i ferrati cavalieri, i ben muniti castelli, ricchi di liete leggende, spesso anche covi di malefici.
Cantavo pure, nelle chiare notti di luna, sotto le merlate dimore, alle belle, che vi vivevano solitarie, nei loro sogni d'amore.
Elevavo, fortificavo il mio animo, con quei romanzi, con quei poemi, che erano usciti dalla fervida fantasia di Giulio Verne, di Alessandro Dumas, di Eugenio Sue, di Vittor Hugo, di Tommaso Grossi, di Massimo D'Azeglio, di Alessandro Manzoni, di Edmondo De Amicis, di Torquato Tasso, di Ludovico Ariosto, e di tanti altri.
Con quelle letture m'abbandonavo, pure, nei miei quindici anni, o poco più, a molti sogni, per l'avvenire. Ero in quel solitario ritiro come in un deserto, per la preparazione intellettuale, morale e spirituale, necessaria ad affrontare, tra non molto, la battaglia della vita.
Qualche volta, dalla malinconia vinto, uscivo, andavo a frammischiarmi, nelle vicine campagne, nelle feste dei contadini, e cantavo nei loro cori, e ballavo nei loro balli, con le fresche coetanee.
Feste semplici, quindi belle, che avvicinavano alla schietta, alla sana anima popolare.
In una di quelle domeniche m'incontravo con una ragazza, venuta dalla città, di poco superiore alla mia età, graziosa e fresca anche lei, come un fiore di primavera, sposata ad un uomo anziano, contro la volontà dei genitori. Ci parlammo con molta simpatia. Il marito non se ne mostrava geloso. Evidentemente, per l'aspetto ancora infantile, non dovevo sembrare ragazzo pericoloso.
Ascoltavo, con commosso animo, i lamenti, le pene che tormentavano quella donna gentile, risvegliata bruscamente, dal sogno dorato, ad una dura dolorosa realtà.
Ancora qualche incontro, con quella giovane non felice, in quella campagna. Dopo non rimaneva, di quell'incontro, che il ricordo, avvolto, come tanti altri ricordi gentili, da una leggera malinconica azzurrognola nebbia.
Il babbo ed io, lasciando Antonio a Teano, ce ne tornammo a Giffoni.
Di quel ritorno altro ricordo rimaneva vivo nel cuore. Nello scompartimento del treno, che ci conduceva a Napoli, viaggiava altra famiglia, composta dai genitori e da tre ragazze, loro figlie. Serena era quella famiglia, allegra, civile d'aspetto. La più grande delle ragazze, di circa dodici anni, accompagnava, con simpatica voce, il padre, che suonava la fisarmonica. Dopo, tra il generale gradimento, intonavano un bel coro a tre.
Quella famiglia, così simpatica, aveva lasciato il luogo natio, i parenti, gli amici, le memorie più care, per trasferirsi in lontane contrade. La sera di quello stesso giorno si sarebbe imbarcata a Napoli, per andare, attratta da più liete visioni, nel misterioso continente americano.
Quando, nella città partenopea, discendeva dal treno, si seguiva con lo sguardo mestamente quella gente, che andava lontano, che si doveva considerare perduta per la patria.
Riprendevo a Giffoni, presso lo zio Luigi Memoli, commerciante di tessuti e fabbricante di sapone, il posto lasciato alla partenza per Teano. Posto provvisorio, s'intende, ché in me germogliavano idee, che mi spingevano a guardare molto in alto. Per dare, ad esempio, maggiore sviluppo a quella industria, ove lavoravano pochi operai, quantunque ragazzo, cercai di fare un po' anche il commesso viaggiatore. Riempito una valigia di sapone, un bel mattino partivo, pieno di energie e di speranze, per il Cilento. Andai di villaggio in villaggio, di bottega in bottega, di casa in casa, di disagio in disagio, come questuante, senza avere una sola ordinazione, senza collocare un sol pezzo di quel prodotto, pur tanto necessario ai domestici usi.
Ad ogni modo, quel viaggio, motivo di nuove delusioni, m'offriva l'occasione di conoscere un'altra contrada della nostra penisola, ricca anch'essa di naturali bellezze, di storia, di boschi e di fiumi, tra i quali il benefico Sele, che mandava, generosamente, all'arsa assetata Puglia, le sue chiare fresche acque.
Nelle ore libere mi raccoglievo a Giffoni come nella terra dei Sidicini, nella lettura dei miei libri, che costituivano la vita della mia vita. Talvolta, nemico sempre delle inutili compagnie, per meglio pensare e meditare, andavo su per le valli, coperte d'ulivi e di castagni.
Qualche volta sostavo su la collina alberata, nelle vicinanze del convento di S. Antonio, profumato nel giugno dai candidi gigli.
Nel vedere i frati, aggirarsi beatamente nel recinto, anch'io, per la mia pace, avrei voluto là rifugiarmi. Non dovevo entrare a Teramo in Seminario?
Ma ne ero da altra considerazione distratto. Se la vita, con gli affanni e le passioni, era una lotta, non la si doveva disertare.
Nella mia vita d'ozio ebbi ad assistere un giorno ad uno spettacolo, che poteva commuovere, far pensare. Era di luglio e la persistente siccità stava per rovinare tutto il raccolto della fertile vallata. Come era nella consuetudine, si organizzava una processione così detta di penitenza, diretta ad implorare la grazia dell'acqua, al santuario di Santa Maria a vico. Vi partecipavano, con le insegne, con gli stendardi, le croci, le reliquie più miracolose, compresa la Spina santa, conservata nella chiesa dell'Annunziata, le autorità, il clero, il popolo.
Si elevavano, nella mistica marcia, fatta a piedi scalzi, canti, inni, accese invocazioni. Numerosi penitenti, a maggiore espiazione dei propri peccati, causa di quella punitiva siccità, con grosse funi e catene di ferro, picchiavano violentemente, quasi a sangue, le proprie spalle. Per qualcuno il parossismo arrivava a tal punto che dovevano intervenire persone meno accese per far mitigare quel mistico furore.
Se l'acqua cadeva la grazia era stata ottenuta; se non cadeva la colpa risaliva ai peccatori, non meritevoli di perdono.
Ma la vita, anche dopo quella manifestazione viva di fanatismo, con la siccità o senza la siccità, non s'arrestava neppure per un attimo nei suoi intrighi, nei suoi inganni, nei suoi falli, ed anche nelle sue generosità, nella sua umanità, così a Giffoni, così in ogni altra parte del mondo.


Molto ascoltavo, nel luogo natio della mamma, con ansioso animo, la storia, già in parte a me nota, dei Marotta, raccontata, con orgogliosa fierezza, dalle vecchie zie e da quel Ciriaco, patrigno della mamma, che aveva, nei suoi ottant'anni e più, dalla fluente barba bianca, l'aspetto d'antico anacoreta. Patrigno, ma anche zio, essendo fratello del primo marito della madre della mamma, quindi della stessa famiglia dei Marotta.
Degli altri parenti spesso visitavo la casa di altro zio, Luigi, ultimo fratello del nonno; casa composta dai genitori e da tre figli: Pietro, Angiola ed Emilia. Vivevano, con fiero contegno, su l'orgoglio dell'antico nome, e su i modesti residui del vasto patrimonio disperso.
Dominati da quell'orgoglio, vivo e tenace, nei meridionali feudatari, ritenevano una menomazione, una umiliazione, un'offesa per sé e per gli antenati, darsi ad una qualche attività.
La più ostinata appariva la mamma, donn'Anna Sica, già anziana, alta, bionda, dagli occhi cerulei e dall'aristocratico naso aquilino. Per nulla rassegnata alle dolorose vicende, parlava sempre con sdegnosa aspra voce.
Buono, invece, era il marito Luigi, sempre sereno, gioviale nobilmente affabile. Parlava dell'antico stato, nel quale in parte era vissuto, come si può parlare di un paesaggio, ricco di meraviglie, visto in una giornata di sole, in un felice viaggio turistico.
Il figlio, Pietro, molto aristocratico, biondo come la mamma, educato nei ricordi del passato, trascorreva il tempo con amici buontemponi, tra la caccia, il circolo e i viaggi.
Le donne se ne rimanevano chiuse in casa, come in un chiostro, anch'esse viventi nei ricordi di quella grandezza, che appariva ancora nell'ampio cortile, guardato da feritoie, come in un castello, sempre chiuso; nel vasto giardino, alberato in parte da aranci e da mandarini; negli stemmi, nei ritratti, nei mobili artisticamente intagliati, ma tarlati e stinti, malinconica sopravvivenza d'un passato che non sarebbe più tornato.
Io ero accolto in quella casa, nella educata adolescenza, con molta festa. Le zie, cugine della mamma, erano ancora giovani. L'Emilia, ultima, adorna di fresca grazia, aveva di poco superato i venti anni.
Vivevano, queste zie, come fiori chiusi in serra, con molti sogni, con poche speranze.
Nei pomeriggi, d'estate, mentre si frescheggiava nel giardino, facevano a me le loro confidenze.
S'adattavano, do qualche anno, a sposare due vedovi, di buon nome e in buone condizioni finanziarie, ma non erano gli uomini da esse desiderati.
Dramma penoso, quasi sempre comune alla nobiltà decaduta. Coloro che, per nascita, avrebbero potuto varcare la soglia, di là della quale ardevano due gentili anime, non lo facevano, non vedendovi l'altro requisito; quello dell'oro, a cui pochi eletti sanno rinunciare; gli altri non l'osavano, per non essere sdegnosamente respinti, o, nei migliori dei casi, per non cadere in quegli ibridi connubi, dai quali, per la differenza di cultura, di educazione, di sensibilità, vano è sperare in una serena tranquilla convivenza.
Dovevano finire, di conseguenza, di aderire a quei maritaggi, se non volevano rimanere nell'afflitto stato monacale.

 

Intanto, nelle nostre vicende, tornava dal servizio militare Ciriaco, con le migliori intenzioni. Ma quel piccolo mondo, quasi appartato, fuori delle vie di comunicazione, nulla offriva. Spesso, esaminando malinconicamente le nostre condizioni, ne parlavamo.
Una sera del dolce settembre sedevamo fuori dell'abitato, sulla via di San Lorenzo, nelle vicinanze di uno stagno, chiamato pescheria, ove gracidavano, con lenta monotonia, i ranocchi. Era l'ora in cui l'animo è aperto, in modo particolare, agli intenerimenti, ai sogni. Nel mezzo del cielo terso e profondo, in uno scintillio di stelle, splendeva chiara e maestosa la luna. Non molto lontano, nella piazza dei Vassi, scrosciava, con fresca limpida acqua, la fontana del luogo. Noi, immersi nella bellezza dell'ora, nella poesia che saliva dalla terra, che discendeva dal cielo, restammo per qualche tempo muti.
Si rompeva poi l'incanto, per considerare la non lieta nostra condizione, la giovinezza non confortata da nessuna promessa.
Esaminata, conseguentemente, nei diversi aspetti la nostra situazione, determinammo di muoverci, di rompere l'indugio, di dare inizio alla nostra battaglia.
Il cielo spesso aiuta, nelle loro imprese, gli audaci.
In relazione a ciò, nei giorni successivi, andammo a Salerno, con molte liete speranze. Ponevamo molta fiducia nelle nostre doti fisiche, intellettuali, morali. Giungemmo a piedi nell'antica città di San Matteo, quando il giorno, dopo la notte, si riapriva alla vita. Alla periferia s'offrì alla nostra attenzione quel movimento di carri, di quadrupedi e di persone, consueto a tutte le città. Nel varcare la soglia, allora guardata dai gabellieri, udimmo da lontano, nel fresco mattino, il suono d'una musica, che marciava alla testa d'un reggimento, diretto, per esercitazione, verso la campagna. Più avanti, inoltrandoci verso il centro, ci apparì da una parte, solcato da variopinte vele, il mare azzurro, leggermente mosso. Qua e là, qualche bicicletta, qualche carrozza in corsa. Da una villetta, dalle rosse tinte, avvolta da giardino in fiore, si diffondeva il suono d'un pianoforte, che molto toccava il già nostro malinconico animo. Quale gentile spirito si scioglieva, alle prime luci, in tenera estasi? Angeliche dita, senza dubbio, dovevano essere quelle che rapivano all'aurora, che tenuamente svaniva sul mare, le occulte divine melodie.
Andammo avanti, nel turbamento, con nuovi desideri, e come ci consigliavano le sacre scritture, picchiammo alle porte, chiedemmo, ma senza nulla ottenere. Belle parole ovunque, molte promesse, e niente altro.
Dopo due giorni tornammo a Giffoni, rifacendo la strada, di ventiquattro chilometri, pure a piedi, riportando con noi una belle fotografia, che io conservo ancora, a ricordo del nostro inutile viaggio. Quantunque nel fior degli anni, meste vi si vedono le nostre sembianze!
Tanto per fare qualche cosa iniziammo, io e Ciriaco, lo studio della musica, con buon profitto. Dopo non molto strimpellavamo, in un concertino a due, mandolino e chitarra. Qualche volta, io che possedevo una voce da piccolo tenore, accompagnavo al suono una qualche piccola romanza.
Venivano spesso a veglia in casa nostra, e ci ascoltavano e ci applaudivano nelle nostre artistiche esibizioni, i vicini parenti, le giovani zie.
Anche nella tempesta possono apparire luci, a confortare il cammino.


Passammo ancora qualche tempo in vana attesa, quando Ciriaco, nulla sperando più dalla patria che dormiva, decise d'andare a cercare fortuna di là dell'Oceano, raggiungendo lo zio Donato, che vi era da molti anni.
Io, dal canto mio, riprendevo le ricerche, scrivendo ovunque vi fosse un parente, un amico, un conoscente, ma nessuno rispondeva.
Incominciai in tal modo, per diretta esperienza, a comprendere l'ipocrisia, l'egoismo del mondo.
Nel pomeriggio, alle ore quindici, aspettavo con ansia la posta. Guardavo la via, che il postino doveva percorrere, dal terrazzo di casa. Il vecchio orologio di San Lorenzo suonava l'ora, il postino compariva, s'avvicinava e, aumentando il mio sconforto, passava oltre.
Così tutti i giorni. Nessuno si commuoveva di me.
Si commuovevano, invece, le ragazze, che io, nei miei pensieri non lieti, non cercavo. Una di esse, ad esempio, spesso mi seguiva, da sola, per confortarmi nella solitudine dei boschi. Appariva teneramente civettuola.
Un'altra, da non confondersi con la prima, figlia di un pasticciere, anche lei fortemente innamorata, mi mandava, per mezzo di una donna servizievole, con le lettere, pacchi di dolci, che doveva sottrarre, furtivamente, al negozio del padre.
Momentanee distrazioni, anche se piacevoli. Un bel giorno, stanco d'attendere, decidevo pure io di rompere l'indugio, di partire per vincere il destino.
Prima d'allontanarmi volli visitare, salutare i parenti, che avevano nelle vene, fieramente, il sangue della mamma. Ognuno aveva per me, per le mie determinazioni, parole d'elogio, d'ammirazione, di augurio. Fui anche a salutare le giovani zie, con le quali avevo trascorso, nei mesti pomeriggi, tante ore, in affettuose confidenziali conversazioni. Stavano nel giardino degli aranci, luogo silenziosamente raccolto, dei nostri meridiani convegni. Ad un certo momento, essendosi la maggiore allontanata, restavo con la zia Emilia. Continuammo nella conversazione, velata, s'intende, di malinconia. Io esposi alla giovane zia, che voleva sapere, i miei progetti, i miei sogni. A diciassette anni è consentito anche audacemente fantasticare. Essa accoglieva le mie parole con evidenti segni di rammarico. Non ne spiegavo la ragione. Non si è sempre in condizione, specialmente se adolescenti, di penetrare nel dramma del cuore umano. Mi svelava essa stessa, ad un certo momento, i suoi affanni. La mia assiduità nel visitarla, la freschezza dei miei anni, la mitezza del mio sguardo e del mio sorriso, avevano stranamente operato anche nel suo animo. L'affetto di zia, nonostante la maggiore età, si era, a mano a mano, mutato in altro affetto.
Non potei, dinanzi a tale rivelazione, mentre le ombre s'affittivano, non carezzare, con rispetto, gli ondulati capelli, non baciare, con commossa tenerezza, il pallido viso.
Con il ritorno della zia maggiore mi congedai poco dopo, con molta tristezza, con questo segreto nel cuore.
L'inaspettato strano idillio svaniva, nello stesso momento, nel quale aveva vita; svaniva allo stesso modo d'una meteora, che infiamma d'improvviso, per un attimo, l'oscurità del cielo.


Alla mia partenza, l'addolorata madre, con spirito profetico, mi diceva:
"Va figlio, con la mia benedizione, verso la nuova tua vita. La via da percorrere sarà lunga ed aspra, poiché la ricostruzione non potrà avvenire se non quando la casa sarà caduta tutta in frantume, ed io sarò scomparsa dalla mutabile scena del mondo. Così è, lo sento.
Noi, vissuti sempre nello spirito della nostra religione, nella più scrupolosa rettitudine, non conosciamo, né spieghiamo le ragioni della ingiusta persecuzione. Destino, forse, comune a tutti gli uomini, buoni o cattivi che siano.
Al giorno più luminoso segue, ugualmente, la notte. Ora noi siamo nella notte, ma che va verso il giorno. La nuova luce, però, non apparirà se non quando la notte eterna non sarà discesa su noi, nel sepolcro."
Partii. Partii con qualche cosa d'indeterminato, di vago nell'afflitto cuore, ma con una precisa ferma volontà di ricupero. Lunga poteva essere la vai, anche aspra, come aveva detto la mamma, ma ero risoluto a percorrerla, a qualunque costo, sino a quella meta, che risplendeva, confusamente, nella nebbia del futuro.
Partii risoluto ad affrontare tutte le vicende, a lottare con tutte le difficoltà, a sopportare tutte le avversità, a sottopormi a tutti i sacrifici, pur di piegare quel fato, che s'era satanicamente divertito a tormentare, a disfare la mia casa, senza colpe.
Partii con la benedizione della mamma!



In cammino


Un giorno conversavo con una giovane zingara, bruna, intelligente, simpatica. Alla mia pietà per quella loro vita miseramente randagia, senza scopo e senza pace, che, con un po' di buona volontà, poteva rientrare nel normale civile stato, rispondeva:
"Non è possibile. Questo è il nostro destino."
Destino! Se effettivamente esistesse, nessun valore avrebbe in sé la personalità umana. Inumano sarebbe, inoltre, ammesso la sua esistenza, esaltare la virtù, condannare il vizio.
Ero, ad ogni modo, con la partenza, solo di fronte al mio avvenire. Solo nella formazione del mio piccolo romanzo, costituito da tutte quelle vicende, rosee ed oscure, liete e dolorose, di cui è sempre intessuta la povera vita.
M'allontanavo, ancora adolescente, per la seconda volta dalla mamma, con il pianto nel cuore, ma con il fermo proposito di lottare e di vincere.
Mentre il treno, che mi conduceva lontano, correva nella Campania feconda, raccolto in un cantuccio di uno scompartimento, tra il frastuono ed il viavai dei viaggiatori, esaminavo il mio caso non lieto. Andavo a Teramo, è vero, ma senza esservi chiamato, senza esservi, forse, desiderato. Mentre così pensavo vedevo, con la mente, la bellezza verde dei paesaggi, che mi sfilavano dinanzi, la figura arcigna dello zio, verso il quale ero diretto. Dura, senza dubbio, anche per il suo carattere, sarebbe stata l'accoglienza. Forse sarei stato respinto in cattivo modo.
Nello scoraggiamento mi veniva voglia d'abbandonare l'impresa, di scendere alla prima stazione, di tornare indietro. Ma proseguivo.
Nel passare nei pressi di Maddaloni, vedevo, sulla strada maestra, una colonna di soldati dalle fiamme gialle, che marciava, al suono d'una fanfare, con andatura svelta e marziale. Attiravano quei soldati giovanissimi, spensierati ed allegri, la mia particolare attenzione. Scomparivano dalla vista, ma la loro visione rimaneva, stranamente, in fondo al mio animo.
Il treno, frattanto, nel suo inesorabile andare, come quello del tempo, entrava fragoroso e fumante, nelle montagne del beneventano. A Benevento, nella città delle fiabesche streghe, giunti dopo mezzogiorno, vi era una lunga fermata. Non si ripartiva per la linea di Foggia che alla sera. Un signore che in treno, per la mia aria d'ingenuo ragazzo, s'era interessato di me, nell'attesa mi condusse con sé a visitare una nipote, collocata, a scopo educativo, in un istituto di suore. Vi era accolto, poiché spesso vi si recava, molto familiarmente. A tavola, nel consumare caffè e paste, vi si tenne un discorso concitato, molto velato, forse per la mia presenza, ma che io capivo benissimo, poiché non ero tanto ragazzo e tanto ingenuo, come potevo apparire. Nella notte era fuggita da quell'istituto, per avventura amorosa, una giovane suora. Nella lotta, che certamente s'era combattuta nell'intimo del suo animo, contro gli allettamenti dello spirito, avevano vinto i diritti più forti della materia. Ed aveva preso il volo.
Nella sera, riaccompagnato da quel buon signore alla stazione, riprendevo il mio viaggio. Nella notte di stelle si correva, successivamente, nella pianura pugliese.
I viaggiatori che io osservavo molto attentamente, come se ubbidissero a segreti ordini, salivano, ad ogni fermata, scendevano, chiacchieravano, mangiavano, dormivano.
Qualcuno di essi doveva tornare in famiglia, con la festa nel cuore, a rivedere, dopo lunga assenza, la mamma, la moglie, i figli, il caro luogo natio; altri s'erano messi in viaggio con la sola speranza d'un mutamento della loro non benigna stella; altri ancora, raccolti cupi in un angolo, correvano, con il cuore sanguinante, in seguito ad una chiamata telegrafica, verso la sventura.
Raccoglieva un po', quel treno in corsa, la vita, nelle sue luci e nelle sue ombre, nelle sue gioie e nei suoi dolori. Ma i viaggiatori, pur con i loro diversi stati d'animo, continuavano a salire e a scendere, a chiacchierare, a mangiare, a dormire.
Dopo Foggia anch'io m'assopii. Quando mi svegliai ero in piena terra d'Abruzzo, non molto lontano da Giulianova. Vi si arrivava quando apparivano già ad oriente le prime luci dell'alba. Alla stazione, dove ero disceso, con una certa commozione, riudivo la natia parlata. Parlata non bella, ma per i cari ricordi, che ridestava, suonava in me armoniosa, come un gioioso canto.
Dopo non molto correvo, con il treno, pieno di preoccupazioni e di titubanze, verso Teramo. La figura dello zio m'appariva sempre più arcigna, sempre più dura nel suo carattere. Desideravo, quasi, che quel treno rallentasse la sua corsa, per avere agio di pensare ancora, di respirare ancora liberamente. Invece no. Anzi, come a dispetto, pareva che andasse più veloce del solito.
Intanto, mentre si faceva giorno, apparivano i segni della città non lontana. Appariva lassù, raccolto sul suo cocuzzolo, Castellalto; appariva su la stessa direzione, più avanti, la bella cupola, sul fabbricato bianco, tra pini verdi, della Specola, onore dell'illustre conterraneo astronomo Vincenzo Cerulli; appariva in fondo, lontano, tra nuvolette, leggere come vele, la cima bianca del paterno Gran Sasso. Ma appariva d'improvviso, dandomi un tuffo al cuore, la stazione, dove s'era ormai arrivati.
Ed arrivai pure nel centro della città, nella piazza del Duomo, quando la vita vi dava i primi segni. Vi volavano i piccioni, vi passava qualche spazzino, qualche guardia, qualche mattiniero, che visitava i caffè, i soli esercizi già aperti, distribuendo l'aromatica bevanda a cinque centesimi la tazza.
Vi passava pure qualche prete e qualche bizzoca, con il tradizionale scialle, diretta alle prime messe.
Entrai anch'io in un caffè, in attesa della mia ora. Quando uscii il negozio dello zio, nel corso San Giorgio, era ancora chiuso. Ancora un po' di respiro. Vi passai innanzi più volte, con la mia valigetta, come per acquistarvi confidenza, per attingervi coraggio. Giunse anche l'ora di entrarvi, e vi entrai timidamente, come un colpevole. Avvenne l'incontro, per il quale avevo tanto trepidato, in un modo molto drammatico, tra brontolii di tempesta. Capii subito, dall'espressione del volto, dalla vivacità delle parole, che presso quello zio non vi era niente da fare. La mia speranza, una volta dinanzi a lui, di poterlo commuovere, di poterlo convincere a trattenermi presso di sé, affinché potessi riordinare, completare i miei studi, dolorosamente falliva.
Giunse nel frattempo, nel negozio, il fratello Vincenzo, che stava con lui. Si presentava bello nella sua fresca adolescenza. Alto era, di fattezze delicate, simpatico di modi e d'aspetto. Incontro, dopo circa quattro anni, affettuoso, commovente, ma malinconico. Anche lui non pareva contento. Alla sera, quando restammo soli, mi parlò della vita di schiavitù, in cui viveva: vita insopportabile, che tante volte s'era proposto d'abbandonare. Viveva là in perfetto regime militare, controllato sempre e rimproverato senza ragione. Vi erano, inoltre, di quelli che, o per cattivo animo, o per disonesti fini, soffiavano nel fuoco. Capivo, nel compiere quel passo, d'avere errato. A Salerno, ad ogni modo, chiuso a qualsiasi avvenire, non intendevo tornare. Non rimaneva, di conseguenza, che di riprendere l'idea, già un tempo ventilata, della carriera militare. Ne parlavo allo zio, anche per toglierlo da quello stato d'agitazione, in cui era, per la mia presenza in casa sua. Approvava, non solo, ma magnificava la mia determinazione. Sceglievo, anche per ragioni economiche, l'arma di quei soldati dalle fiamme gialle, che avevo visto, allegri e disinvolti, sulla strada di Maddaloni. Ma la domanda non era per il momento accolta, non avendo ancora compiuto i diciotto anni, necessari per l'arruolamento.
Diciotto anni! Età bella, anche nella sventura, che dura, però, come dura una rosa di maggio, con il suo profumo, in un fresco giardino fiorito. Sboccia, irrorata di rugiada, ai tiepidi raggi, sfolgora, con il sole, la sua delicata bellezza, appassisce, quindi si sfoglia, si disperde, diviene cenere, nel mistero del nulla...
Nei giorni successivi parve che fosse avvenuto un mutamento nei propositi dello zio. Forse era stato colpito dalla mia serietà, dalla mia forte volontà di lavoro e di progresso. Dopo di essersi consultato, nella notte, a letto, con la moglie Ambrosina, mi disse un giorno che se io volevo, potevo rimanere presso di lui. E si ebbe a parlare di molti progetti, da compiere nell'avvenire.
Nella gretteria, nel timore, nell'ottusità in cui vivevano allora i commercianti, molta fortuna poteva incontrare chi si presentasse, per ardite iniziative, con spirito nuovo.
Ma dopo qualche giorno, mentre mi stavo adattando, con una certa gioia, alla nuova vita, avveniva, nelle idee dello zio, altro improvviso mutamento, questa volta, in verità, non per colpa sua.
Una donna, della famiglia dei rettili, che abitava in un altro appartamento della stessa casa, aveva riferito allo zio, per seminare zizzania, un discorso, con il fratello Vincenzo, mai da me pronunciato, propositi, contro la casa che mi ospitava, mai da me concepiti.
Primo mio incontro diretto con la malvagità umana!
Quella donna, che aveva una figliuola, per la quale forse aveva messo gli occhi, per un futuro matrimonio, su Vincenzo, non desiderava che io restassi a Teramo.
Al diciottesimo anno, senza più discutere, partii per Maddaloni, quale allievo, per compiervi, nei soldati dalle fiamme gialle, il prescritto corso d'istruzione.


Lasciai Teramo in un caldo pomeriggio dei primi d'agosto, tranquillo. Forse un futuro diverso da quello agognato era a me riservato. Entrai nella caserma di Maddaloni, unitamente ad altri giovanissimi compagni, incontrati lungo il viaggio, sereno, con le più belle speranze.
Iniziai la nuova vita con un grazioso episodio. Il giorno successivo all'arrivo, il Comandante, che faceva sfoggio di molti galloni, nel passare in riserva i nuovi giunti, ancora in abiti civili, si fermava per osservare che cosa facesse il ragazzo, indicando me, in mezzo agli allievi.
Avevo l'altezza e la robustezza per il servizio militare ed avevo diciotto anni, ma, in verità, dalla delicatezza del viso, non ne mostravo più di sedici. Invitato ad uscire dalle file, dopo molte domande, fui condotto negli uffici per gli accertamenti. Non si persuadevano della mia identità, che solo dopo l'attento esame delle mie carte.
Non meno meraviglia destai nella popolazione, quando comparii in divisa nelle strade della piccola cittadina. Tutti si domandavano chi mai fosse quel ragazzo, che passeggiava in divisa di finanziere. Ero anche fermato, interrogato, carezzato.
Ero, comunque, soddisfatto del mio nuovo stato, che, nonostante la dura disciplina, mi rendeva libero, padrone di me, arbitro del mio avvenire. Una strada dinanzi a me era aperta, che io potevo percorrere a mio piacimento, sino alla luce, che splendeva in fondo. Ero lieto, inoltre, di essere al servizio non del privato, talvolta burbanzoso e villano, ma della patria che, nella tradizione familiare, sin da bambino, avevo fortemente amato.


Si presentava quel reparto, fabbrica dei Finanzieri d'Italia, molto movimentato. Vi erano giovani di tutte le provenienze, di tutti i ceti, di ogni educazione. Lo popolavano: figli di contadini e di operai, dalle mani ruvide e dai modi grossolani; figli di magistrati, d'ufficiali, di professionisti, bene educati e con titoli di studio; studenti eleganti, qualche volta boriosi, che avevano i più fallite le prove; studenti bravi, che per difficoltà economiche, erano stati costretti ad abbandonare la scuola.
Non mancavano nobili, tra cui il figlio d'un principe decaduto di Calabria. E vi erano timidi e vi erano millantatori di ogni specie.
L'Italia, in quel reparto, era rappresentata in ogni regione, in ogni ordine di cittadini, unificati, però, nella divisa che indossavano. Il figlio del principe di Calabria, era uguale, nel più perfetto moderno concetto sociale, al figlio del pastore della Gallura.
Alla fine del mese, ciò che costituiva un particolare avvenimento, mi si dava in danaro, come paga, la somma di lire quindici.
Quindici lire! Rappresentavo, dunque, qualche cosa nella vita.
Spedii quel danaro, colmo di felicità, con la forza d'una promessa e d'una fede, alla buona mamma. Suo doveva essere, come affettuoso omaggio, il primo gruzzoletto, tratto dal mio lavoro.
Ne ricevetti non tanto per il valore, quanto per il sentimento, con altre buone parole, nuove benedizioni.



Il bimbo di Oria


Dopo quattro mesi d'allievo, superato gli esami, essendovi bisogno di militari al confine, partii da Maddaloni diretto ad Oria, sul lago di Lugano. Dopo il mare, dopo la terra, attraversai per giungervi anche il lago di Como, dal quale il nonno, tanti anni prima, era partito profugo, senza farvi più ritorno. Provai una forte emozione nel vederne le acque tranquille, ove si specchiavano i villaggi, le solitarie ville, circondate da giardini e da parchi estesi; nel vedere laggiù, più lontano, tra una leggera azzurrognola nebbia, la Bellano degli Adamoli.
Durante il viaggio si ripeteva, per il mio aspetto infantile, ciò che era avvenuto a Maddaloni. Tutti s'interessavano di me. Molti ritenevano che io appartenessi a qualche collegio.
Ad Oria, villaggio del "Piccolo Mondo Antico" del Fogazzaro, la voce dell'arrivo d'un bimbo nella caserma delle guardie, si diffondeva rapidamente. Quando mi vedevano ne rimanevano meravigliati, e da quel giorno, con gentile affettuosità, mi chiamarono bimbo.
Le madri, intenerite, mi carezzavano, mi mandavano, nella loro simpatia, latte, uova, paste; le ragazze, quasi tutte figlie di Maria, che mi guardavano con dolci occhi, mi elevarono, con turbamento del parroco, ad idolo del loro piccolo cuore. Dove passavo, lungo la sponda del lago, su per le valli, entro i villaggi, ero accompagnato da tenere espressioni.
Un giorno capitò d'ispezione alla caserma il maggiore, il famoso Di Paolo di Giulianova. Ritenendomi, per la mia infantilità, un estraneo, di che c'era divieto, faceva molto chiasso, minacciando punizioni. Chiarito dal maresciallo l'equivoco, egli stesso, quantunque molto burbero, ne rise. Ma pure lui volle sapere la mia età, la mia capacità, la mia resistenza al duro nostro servizio di montagna. Tentennava il capo, come segno di sfiducia.

 

Il servizio si disimpegnava ad Oria, in verità, come in tutta la frontiera, a lunghi turni, in alta montagna. S'aveva per tetto il cielo, per giaciglio la nuda terra, per letto il sacco a pelo, per pasto il duro pane. Essendo di dicembre, ne avevo sentito subito la durezza, visto i pericoli, ma non me ne lagnavo, non me ne sgomentavo. Mi sembra, anzi, quella destinazione provvidenziale. Non vi avevo, ai fini dell'economia, molte spese; nella solitudine potevo dedicare maggior tempo allo studio.
L'aspetto delicatamente infantile mi cattivava, ripeto, le simpatie di quelle popolazioni, avverse, generalmente, alla Guardia di Finanza.
Un mattino di neve e di tormenta mi trovavo, con un compagno, entro uno dei tanti casolari, rifugio estivo degli alpigiani. I proprietari, che vi giunsero inaspettatamente, fecero per il fatto, molto chiasso, ed anche minacce. Eravamo in una specie di violazione di domicilio, da non perdonarsi a quei soldati che davano una caccia spietata ai contrabbandieri, professione al confine un po' di tutti.
Quando uscimmo per giustificare in qualche modo la nostra presenza in quel casolare, la donna, che accompagnava l'inferocito uomo, nel vedermi "Povero figliuolo!" Esclamava, e l'ira si mutava in affettuosa materna premura. Anche l'uomo, commosso, diceva: "Ma è vita questa da farsi fare a poveri ragazzi?"
Il Natale di quel primo anno, poiché la vigilanza al confine non poteva essere interrotta, mi trovava con altro militare in servizio d'alta montagna. Alta vi era la neve, e neve cadeva larga, muta, solenne dal biancore opaco del cielo. Eravamo, insonni vedette delle Alpi, in una caverna, scavata nella roccia, come in un nido d'aquile, molto in alto. Non s'udiva, né vicino, né lontano, rumore d'anima viva. Svolazzava qua e là, da dirupo a dirupo, qualche corvo, che, in tanta bianchezza, appariva più sinistramente nero, e qualche aquila, signora incontrastata delle cime.
I ricordi del passato salivano vivi, dall'anima afflitta, in quella natura desolata.
Eravamo lassù, alla montagna, da quattro giorni. Le provviste, per un eccezionale appetito, determinato dal freddo e dalla giovinezza, erano state esaurite innanzi tempo, e la fame tormentava lo stomaco. I villaggi, dove ad ogni modo non si poteva andare, erano in fondo alle valli, o su lontani poggi. Sul mezzogiorno, nell'ora in cui tutto il mondo della cristianità, dal tugurio alla reggia, dalla casa più povera alla casa più ricca, s'imbandivano pranzi, noi uscivamo dalla caverna, come lupi affamati, per visitare, tra le difficoltà della neve, i vicini casolari. In uno di essi, dopo non lievi fatiche, scovammo, finalmente, avanzi estivi di polenta, bene ammuffita. Con quella polenta, che la fame rendeva molto gustosa, festeggiammo anche noi il santo Natale.
Ed eravamo felici!


Godevo quasi di quella vita che si viveva fuori delle umane cattiverie; che si viveva nella poesia della solitudine, diversa da quella degli Abruzzi e della Campania. Là i canti salivano, nell'aria profumata, con la tenue delicatezza delle medievali ballate; qua, nella solennità delle altitudini, dal possente divino solitario creato.
Di tali altezze, che avvicinavano al cielo, povera appariva la vita che si viveva nel basso, nella frivolezza delle moltitudini.
Dopo le lunghe letture, facilitate dalla sopraggiunta primavera, l'anima si dilatava nella vastità dell'infinito e saliva, nei meriggi silenziosi, nelle magiche notti stellate, trascorse in veglia, a penetrare nel mistero degli spazi eterni, ove fortemente si sentiva la spirituale esistenza.
Alla sosta pensosa seguiva la ripresa della lettura di quegli scritti, nei quali più forte vibrasse il sentimento del dolore; più forte s'esaltasse l'amore per la donna, per la madre, per la razza, per la patria.
Sapevo quasi a memoria i canti del Leopardi, le "Ultime lettere di Jacopo Ortis", i brani più belli delle prose del De Amicis.
Leggevo e rileggevo, pure, il libro di quello scrittore umano e gentile, che rappresentava, appunto, nelle gioie e nei dolori, nella prosa e nella poesia, nei dubbi e nella fede, quel piccolo mondo, chiamato antico, entro il quale io vivevo.
L'ora più malinconica era quella della sera, quando, caduto il sole, le ombre avvolgevano, come gigantesco manto, le valli, i boschi, i monti. L'ora in cui gli ultimi segni dei viventi provenivano dalle campane, che, in armonioso accordo, particolare alle vallate alpine, suonavano, negli sparsi paeselli, la dolce Avemaria.
Salivano, dopo, e si diffondevano i rumori della notte: canti d'uccelli notturni, trilli d'insetti, fruscii di foglie, sospiri di alberi, sospiri d'acqua e di esseri invisibili.
Le tenebre, che s'infittivano, erano di tratto in tratto, a tempo misurato, rotte dal fascio luminoso della torpediniera, di servizio notturno sul lago.
L'anima mesta ed oscura come la notte, col sorgere ad oriente dell'aurora si riconfortava, si riapriva alla gioia, alle speranze, rosee anch'esse come l'aurora.


In tal modo s'alternavano i giorni alle notti; s'alternavano la vita solitaria, vissuta in montagna, e la vita vissuta nel movimento dell'umano consorzio.
Ed i mesi si succedevano ai mesi. Ma non era sempre vita contemplativa. Si faceva pure servizio, nel disimpegno del quale spiegavo molto zelo.
In uno di quei giorni dimostravo d'avere anche coraggio. L'alba appariva già, con il suo largo biancore, ad annunziare ai mortali che vegliavano, il non lontano sorgere del sole. Io e un sottufficiale eravamo di vigilanza lungo il confine, nella parte bassa del monte, sul ciglio d'un valloncello, coperto d'alberi. Ad un tratto, dall'altra parte, su territorio elvetico, appariva una fila di uomini, i quali, carichi, dal basso salivano verso l'alto. Il posto dove eravamo non si poteva abbandonare. Il sottufficiale, per essere nuovo, non conosceva il terreno. M'assumevo, quindi, io l'incarico di seguire quegli uomini, molto sospetti.
E su e su, essi di là, sempre su territorio elvetico, io di qua del valloncello, dietro sassi, cespugli, alberi, per non essere scoperto. L'incontro avvenne, dopo due ore circa, in alto, presso la cima, in territorio italiano. Io ero solo e ragazzo; essi erano in molti, e robusti montanari. Nonostante ciò, con la mia risolutezza armata, li piegai all'ubbidienza.
Il fatto, diffusosi rapidamente, riempì di meraviglia tutta la vallata.
"Altro che bimbo!" si ripeteva, dopo quell'episodio, ovunque, con ammirazione.
Ed il maggiore Di Paolo, nei suoi dubbi, era stato servito.


I contrabbandieri, nostri naturali nemici, lavoravano d'astuzia, più che di forza, per superare la linea della nostra vigilanza.
Un'altra notte eravamo appostati su un altro sentiero, raggiunto con tutte le cautele, per non essere scoperti dalle loro vedette, collocate astutamente in punti diversi. Le stelle scintillavano nella profondità del cielo silenzioso. L'orsa maggiore poteva essere alla metà del suo corso, verso ponente. Qualche bolide, qua e là, attraversava, luminoso, la volta celeste. L'altro militare dormiva placidamente, nel sacco a pelo. Io, essendo di turno, vegliando, guardavo sul sottostante sentiero. Ad un tratto vedevo su quel sentiero un'ombra, che camminava con il silenzio del fantasma. A mano a mano che avanzava, guardava a destra, guardava a sinistra, come se scrutasse, se cercasse qualche cosa. Passava. Io, nella più viva emozione, restavo fermo. Dopo non molto altre ombre apparivano, mute come la prima.
Erano contrabbandieri. Destato il compagno, balzammo, risolutamente, su di essi. La mischia, in una indicibile confusione, era di breve durata. Nella sorpresa non erano in condizione d'opporre alcuna resistenza. Nel timore di peggio ognuno cercava di disfarsi del carico, per gettarsi, come camosci, giù per i burroni. Nessuno, infatti, poté essere arrestato, ma lasciavano, sul terreno della mischia, molti quintali di tabacco, racchiuso in sacchi a zaino, bastoni, roncole, giacchette, berretti ed altri oggetti.
Un vero campo di battaglia.
Vivemmo, il resto di quella notte, in particolare esultanza, per la bella battaglia vinta.


In quel posto pensavo di regolare lo studio, in modo da trarne il maggiore profitto. A tale scopo, con il permesso dei superiori, mi presentai un giorno al collegio arcivescovile di Porlezza, ove ero stato bene accolto e ascoltato dal rettore, che fu poi Vescovo di Fermo, monsignor Castelli.
Subito dopo, percorrendo a piedi, tra andata e ritorno, ben venti chilometri di pessima e pericolosa strada, nei turni liberi dal servizio, s'intende, mi recavo a scuola in quel collegio.
Tutti avevano colà per me premure, in modo particolare il professore don Luigi Rossi, che m'impartiva, con le sue quattro lauree, lezioni su quattro diverse materie.
Questo bravo professore m'accompagnava, talvolta, per lunghi tratti, per completare, sulla via del ritorno, qualcuna delle sue lezioni.
Come si vede, nel mondo vi sono bure anime buone!
Non mi accontentavo di quelle lezioni. Nell'avidità d'apprendere ne truffavo pure qualcuna, ma in forma onesta. Frequentava il ginnasio di quel collegio un ragazzo di Oria, che vi si recava, però, comodamente, con il piroscafo. Nella sua svogliatezza aveva affidato a me, tra l'altro, lo svolgimento del compito d'italiano. Ne ero felice. Le osservazioni dei professori, s'intende, giovavano pure alla mia cultura.


Non finivano, nel frattempo, le simpatie delle donne, delle adolescenti figlie di Maria, che, nelle loro passeggiate domenicali, nonostante i moniti del parroco, mi ricercavano, per confortare la mia solitudine, su la montagna. S'interessavano, nei boschetti, nei valloncelli, freschi d'acqua e di verde, innocenti idilli.
Ma altra ragazza, di esuberante vitalità, pure vi veniva da sola; amava introdursi con me nei meandri della folta boscaglia.
S'interessavano, in altri timidi abbandoni, altri idilli, mentre le foglie, i fiori, gli uccelli inalzavano l'eterno, il possente inno alla vita.
Non a torto i poeti avevano cantato dei fauni e delle ninfe, la beatitudine, le musicali dolci estati.
Cari giorni anche in quella dura buia vita! I genitori vivevano, tutti di casa vivevano, ed io avevo diciotto anni.
Povera buona Anita! Tornava, nel luglio, dal collegio di Como, in famiglia. Tornava con la fantasia accesa dalle romantiche letture, con l'animo colmo di desideri e di poesia. Anche lei, quindi, non sapeva sfuggire alle attrattive del fatale bimbo. Con lo sguardo mi cercava, dalla vicina casa, nella caserma; mi cercava, mi seguiva con lo sguardo, qualche volta pure con la persona, sulla strada. L'incontro, che io, nelle mie oneste considerazioni, cercavo di evitare, avveniva poco discosto dal villaggio, su d'un poggio coperto di pini, dinanzi al lago, che palpitava di sotto. Le due giovinezze che sbocciavano allora alla vita non potevano anch'esse non palpitare, come le azzurre onde del lago, nella bellezza, da cui erano circondate.
Se non bella simpatica era l'Anita e graziosa nei capelli corvini, negli espressivi occhi neri, nella bocca adorna da magnifiche perle, dal dolce sorriso: graziosa nella parola, negli atti, nelle agili movenze.
In quei palpiti, in quella poesia, in quel profumo d'aurora vi era davvero da smarrirsi. Ma io non mi smarrivo, non perdevo di vista la meta, ancora lontana, che m'ero proposto di raggiungere. Lo dicevo, nei successivi incontri, nella maggiore confidenza, alla buona Anita, con tutta franchezza, e la esortavo a cancellare dal suo animo quella passione, che le poteva essere funesta. E le era funesta. Nei suoi forti sentimenti, proprio in quel tempo rifiutava la richiesta d'un ricco giovane del posto, che intendeva sposarla subito.
Nonostante gli affettuosi fraterni miei consigli, alla insistente domanda, insisteva nel rifiuto.
Dopo il bimbo, non aveva voluto amare più nessuno. Nella sua vita di nubile, mentre la giovinezza sfioriva, non le rimaneva che il ricordo, forse dolce, forse amaro, del bimbo, che non era nato per lei, che, dopo la partenza, non era più tornato.
Oggi, nella lontananza del tempo e dello spazio, voglio dedicare alla gentile innamorata, che io mi raffiguro ferma nei suoi freschi diciassette anni, un pensiero di sentito commosso rimpianto.
Ed un pensiero pure per la morbida bionda sorella minore, Sofia, dalla snella alta persona, dalle delicate fattezze, che emanava, nei suoi quindici anni, grazia e poesia.
C'incontravamo, quantunque l'Anita ne fosse gelosa, pure fuori dell'abitato, in un largo alberato, nei pressi della piccola chiesa.
Parlava la mite Sofia, con facile parole, con grazia lombarda, con candida ingenuità. Io non so perché anche lei, bocciuolo non ancora dischiuso, mi ricercasse.
I nostri discorsi, nelle tenue parole, nei vaghi argomenti, si discioglievano, come piccoli canti, in delicate liriche poesie.
Alla mia partenza, pure lei versava lagrime. Quando, qualche anno dopo, avevo notizie di Oria, sapevo che la soave fanciulla, dal candido animo, s'era rifugiata, monaca, in un convento di Torino.
Aveva abbandonato il mondo, e, forse, aveva fatto bene.


Passava così l'estate, passava l'inverno. Dalla mamma lontana, sempre viva nel mio animo, ero messo al corrente delle vicende familiari.
Con la primavera successiva, come ad un premio, ero prescelto per uno speciale servizio, su i piroscafi, che percorrevano il lago, carichi di turisti d'ogni nazionalità. Turisti che portavano, per chi li osservasse, ben segnata sul viso l'impronta della propria razza. Arcigni apparivano gli inglesi, flemmatici, biliosi, superbi; serio, invece, riservato, ragionevole il tedesco, anche se qualche volta non riusciva a celare l'orgoglio della forte stirpe, alla quale apparteneva; buono, generalmente, si dimostrava il russo, mistico, dolente, forse per la schiavitù, in cui ancora viveva; ciarliero, invece, appariva il francese, espansivo, nella sua facile sciolta loquela.
D'ognuno, dei rappresentanti di quei popoli, si sarebbe potuto fare, con uno studio su di loro, curiosi bozzetti.
Tutti ammiravano l'Italia, nelle sue bellezze naturali, nelle divine opere dei suoi geni, nella sua lingua armoniosa. Non tutti, però, avevano stima per il suo popolo. Avevano pure per noi parole offensive, che io rintuzzavo risolutamente. Trattai da vile un austriaco, che mi ricordava, un giorno, beffardamente, Lissa. Non mi trattenni, un altro giorno, dallo scagliare una moneta d'oro, contro un tronfio inglese, che ci chiamava pezzenti.
Pezzenti! Poteva aver ragione. Guardando verso prua, di quello stesso piroscafo, si vedevano seduti, su i propri sacchi di cenci, i nostri emigranti, che appunto a primavera andavano a cercare oltre confine, colmi di miseria e di tristezza, pane e lavoro.
Pernottavo, in conseguenza di quel servizio, a regolare turno, ad Oria e a Campione d'Intelvi, caratteristico comune, circondato da ogni parte dal territorio elvetico, luogo di villeggiatura estivo per i milanesi.
Quantunque andassi perdendo, con la lanugine, l'infantilità, non riuscivo ancora a sottrarmi alla particolare altrui attenzione.
A Campione incontravo un'altra fresca giovinezza, nella studentessa milanese Antonietta Maffi, dal cuore acceso d'amoroso fuoco. Anche lei, dopo le prime conversazioni, mi ricercava, ansiosa, ovunque. Anche con lei facevo passeggiate sentimentali lungo il lago, su per le verdi colline, nel bosco di castagni.
Non ne era contenta altra studentessa, la quindicenne Sofia Boffa, figlia della signora che m'ospitava. Ne era gelosa, e lo dimostrava. Affinché non uscissi, nei giorni che rimanevo a Campione, questa cara giovanetta, orfana di padre, mi veniva a tenere compagnia nella stanza a me assegnata, ove portava il profumo della sua ingenuità, la gioia dei suoi teneri anni.
S'univano alle italiane, in queste manifestazioni del cuore, pure donne straniere. Questi idilli duravano, però, quanto durava il viaggio, sul mobile lago. Qualche stretta di mano più forte, qualche sorriso più vivo allo sbarco, qualche dolce espressione, e poi, quelle brune o bionde, secondo la stirpe, melanconicamente sparivano nel loro andare.
Sparivano, come sparivano le rondini in autunno, nella vastità azzurra del cielo, nella lontananza della bruna terra.
Di queste gentili nomadi una è rimasta impressa nella mia memoria, in modo tale che, se fossi pittore, potrei ritrarla, come se mi stesse dinanzi, in tutti i suoi particolari, nella sua persona meravigliosa. Sedeva, sul piroscafo, in prima classe, vicino ad un uomo anziano, non so se fosse padre o marito. Dopo un giuoco di sguardi, che andavano dalla curiosità alla languidezza, si moveva, mi si avvicinava, mi parlava.
Poteva avere venticinque anni, ed era una di quelle bellezze inglesi raro ad incontrarsi, ma anche raro a superarsi. Alta era, morbida, flessuosa, perfetta nelle forme. Non era bionda, ma aveva i capelli bruni, ondulati, occhi grandi e dolci, su viso pallido vellutato, dalle perfette fattezze. Era bella nella bocca, nei denti di piccole perle, nel sorriso.
Avrei voluto fermare quel miracolo di perfezione, come talvolta si vorrebbe fermare, nella commossa estasi, l'aurora che nasce, con riflessi divini, dai palpiti del mare.
Ma anch'essa passava, come in un sogno delizioso, e non più tornava.
Tornavano, invece, su quei piroscafi, più volte, due graziose principessine della casa imperiale d'Austria, poco più che adolescenti. Venivano ad intrattenersi con me, sotto gli occhi severi delle governanti. Le conversazioni, timide dapprima, erano divenute, poi, affabili, scherzose, quasi confidenziali.
Innamorate? Molto bizzarro, come si sapeva, il cuore delle principesse austriache. In quei giovani cuori, però, vi poteva essere entusiastica ingenuità, non malizia.


Sul finire dell'estate, precisamente ai primi di settembre, avevo un incontro più degli altri gradito, da lungo tempo desiderato.
Tornavo sul mezzogiorno con il piroscafo da Porlezza ad Oria, ove dovevo scendere. Poco dopo la partenza mi s'avvicinava un passeggiero, evidentemente intellettuale. Il discorso, che ne seguiva, cadeva su quelle montagne, sul malinconico lago, sulla Valsolda, sul "Piccolo mondo antico", sul Fogazzaro. Io che più volte avevo letto l'aureo romanzo, sul posto degli stessi avvenimenti, che ne conoscevo quasi i personaggi, davo a quel signore minuti, preziosi ragguagli. Gli indicavo, a mano a mano che si presentavano in vista, i villaggi, le strade, i luoghi tutti in cui gli episodi d'umanità e di poesia,, d'amore e di dolore, s'erano svolti. In vista di Oria indicavo la villa abitata da Franco, e la darsena, ove nel fatale temporalesco giorno, annegava la bambina di Luisa, l'Ombretta sdegnosa del Missisipì.
Mentre parlavo, con infiammata ansia, m'accorsi che un signore, seduto non lontano, brizzolato, leggermente curvo, con un non so che di ascetico nell'aspetto, mi guardava, attraverso gli occhiali d'oro, con evidente compiacenza.
"Bravo" ad un certo punto mi diceva. Era proprio Antonio Fogazzaro, diretto, con la famiglia, alla sua villa di Oria, per trascorrervi, come consuetudine, il mese di settembre.
Nelle soste, che io vi facevo, lo incontravo, e si mostrava con me molto cortese. Ero ammesso pure nella sua casa, ove conoscevo la giovane figlia Maria, con difetto ad una gamba, per paralisi infantile. Conoscevo anche lo zio, l'ingegnere Rivera, altro personaggio del romanzo, colui che nel giardino pensile scherzava, beatamente, con la Ombretta sdegnosa.
Talvolta a sera, quando alto era il silenzio, e muto passava il fascio del proiettore della torpediniera di vigilanza sul lago, vedevo, tra i fiori della terrazza, il Fogazzaro, solo, come smarrito nelle ombre, nei tenui sospiri delle acque, mentre di là, nella sala, al pianoforte, la buona mesta Maria gli accelerava, con le divine notturne melodie, con quelle delle onde, i palpiti del suo commosso poetico animo.
Chi sa in quell'ora, dolcemente mistica, quali luminosi fantasmi sconvolgevano l'agitato suo spirito.
Forse molti di quei fantasmi, generosamente arrendevoli, erano consacrati, per l'altrui spirituale godimento, nella benefica sensibile carta; altri, forse i più belli, svanivano, con lo svanire del suono, nelle ombre mute della notte.


In quel tempo altro incontro fortunato avevo su quel piroscafo, mentre questa volta viaggiavo da Lugano a Porlezza. Conversavo con altro signore, loquace e simpatico. Mi diceva, quando sapeva il mio luogo di nascita, di conoscere l'Abruzzo, dove aveva parenti. Dalle indicazioni che forniva arguivo che egli doveva essere un Adamoli, della famiglia di Narro. Tale era, ed il riconoscimento avveniva in una manifestazione di commovente affettuosità. Da quell'incontro nasceva la certezza che avrei visitato, ciò che molto bramavo, la casa della Valsassina.
Le cose non andavano, però, sempre pacificamente, come in tranquillo mare, non essendo ciò nell'ordine delle umane vicende.
Non tutti di quei miei compagni d'arma sopportavano la mia scelta a quel comodo remunerativo servizio su i piroscafi. Le relazioni tra noi, anche per la mia indole docile, non potevano non essere cordiali. Nonostante ciò, due di essi, punti da malefico spirito, non avevano scrupoli dal formulare, sul mio conto, false accuse. Mi sarei espresso, secondo la loro denuncia, con una donna, in termini molto lesivi dell'onore degli ufficiali, da cui dipendevo. L'accusa miseramente cadeva, poiché la sera, in cui sarebbe avvenuta l'incriminata conversazione, era stata da me trascorsa, non ad Oria, ma a Campione.
Da un tal fatto capivo ancora meglio, che se vi sono su la terra innocue colombe, vi sono pure, forse in maggior numero, pronti a mordere, rettili velenosi.
Nella stessa Oria m'era inflitta, poco dopo, altra mortificazione. E' bene, per la conoscenza degli uomini, dire tutto. Un maresciallo, un giorno, mi chiedeva conto dell'immaginaria scomparsa di dieci lire, dalla scrivania del suo ufficio, ove io non ero entrato.
Dinanzi alla gravità di quella domanda, fatta con tanta stolta leggerezza, mi sentii ghiacciare il sangue nelle vene. Per molti giorni, in un senso di morale annientamento, ne restai fortemente scosso, turbato. Non avevo neppure la forza, dinanzi a tale perfido sospetto, di ribellarmi, di gridare, di chiedere, in mio favore, l'intervento dei superiori.
Io ladro! Ancora oggi, quando vi ripenso, fremo di sdegno.
Intanto l'estate passava, ed i convenuti a Campione, con l'autunno, riprendevano la via per il ritorno alla normale vita. La buona Sofia rientrava nel collegio di Lugano.
La gentile Antonietta mandava da Milano, ove anch'essa era tornata, la Farfalla o l'Amore illustrato, con scritti, in cui versava la sua passione, i lamenti, i sentimenti vivi del suo animo, per un amore senza speranza.


Finito il servizio speciale, che durava dal primo maggio al trentuno ottobre, anch'io rientravo al normale servizio, non più ad Oria, ma, per la particolare benevolenza del tenente Ezio Giovannini, e ne voglio, per gratitudine, fare il nome, a Porlezza, sede della tenenza e del collegio.
Anche qui non tardava la perfidia a farsi sentire. Il brigadiere, capo del reparto, altro velenoso rettile, mal mi tollerava. E a dire ch'ero disciplinato, rispettoso, scrupoloso, anzi zelante nell'adempimento dei miei doveri. Non voleva che io studiassi. Non potendo in altro modo nuocermi, ogni qualvolta prendevo un libro, anche se ero in turno di riposo, mi comandava in un nuovo servizio. Mi faceva raddoppiare, ciò che non avveniva per gli altri, i turni di alta montagna.
Non ne ero scontento, quindi non reclamavo. Almeno lassù potevo dedicare, senza essere disturbato, molte ore allo studio. E studiavo, nel pieno inverno, chiuso nel sacco a pelo, con il naso rosso, con le mani intirizzite, mentre la neve cadeva abbondante su me, su i quaderni, su i libri, su i pensieri.
Curiosa sempre la vita. Mentre io, riscaldato da un ideale, studiavo in quelle difficili condizioni, altri stavano ad oziare, senza alcun profitto, negli agi, nel lusso, nel caldo dei collegi!
Andare in montagna m'era gradito pure per altra ragione. Nel mio cuore era sempre viva la persona della mamma, che lottava laggiù, a Giffoni, con le dure necessità. La mia paga in quel tempo non era che di sessantadue lire mensili. Con esse dovevo provvedere a tutte le spese, comprese quelle per il vitto e per il vestiario. Rimanendo tutto il mese in caserma, poco o nulla mi sarebbe rimasto. In montagna la spesa la regolavo io. Vi praticavo il vitto il più igienico di questo mondo: pane, pancetta ed acqua fresca di fonte.
La pancetta doveva servire, intendiamoci bene, non per vero e proprio companatico, che sarebbe stato troppo lusso, ma soltanto per dare al pane, sul quale era delicatamente strofinata con un po' di aglio, un leggero suo sapore.
In tal modo potevo mandare alla mamma, puntualmente ogni mese, non meno di trenta lire.
Un vero miracolo, che poteva, però, destare a superiori infami, come quello di Oria, iniqui sospetti.
E la cattiveria continuava.
Nel gennaio, mentre il tenente, che mi proteggeva, era in licenza, una valanga, distaccatasi nell'alta montagna, travolgeva, nella caduta, undici finanzieri, partiti per la ricerca di altri militari, sperduti nella neve.
Il maggiore, accorso sul posto, ordinava al brigadiere di distaccare subito lassù, al reparto di prima linea, da Porlezza, un certo numero di militari, necessari a reintegrare, in parte, i morti. Io ero, naturalmente, tra i prescelti. Se io volevo studiare, mi si diceva, me ne sarei potuto rimanere a casa. Così mi si diceva, e quel giorno stesso viaggiavo, con la mia roba, su un difficile sentiero, per il luogo della sciagura.
La notte che seguiva vegliavo su una montagna di neve, sotto la quale erano sepolti, per l'eternità, i poveri compagni, eroiche ignorate vittime del dovere. Vegliavo, senza che vi fossero, in quel desolato mondo bianco, da cui ero circondato, segni vicini o lontani di vita. Vegliavo, mentre nella neve, che continuava a cadere, urlava violenta la tormenta, assordava il fragore delle valanghe, che precipitavano, da punti diversi, dall'alto verso il basso.
Non potevo, in quella desolazione, non ripensare quando fanciullo, di dietro i vetri delle finestre di casa, là a Rocciano, commiseravo il solitario viandante, che in sull'imbrunire passava sulla strada deserta, coperta di neve. Tormentata dal vento. Ancora lontana la sua casa, ancora lungo il cammino, su per i colli, colmo di pericoli. Il lupo, cacciato dalla montagna, aveva ululato nella neve. Sentivo per lui, e per i familiari, che lo attendevano in pena, la più larga pietà.
E non soltanto per gli uomini avevo pietà, ma anche per gli uccelletti, che svolazzavano intirizziti e smarriti, da cespuglio a cespuglio, da albero a albero, da tetto a tetto, insidiati sempre dalla umana cattiveria.
Ma quel viandante avrebbe tra poco ristorato le sue forze, ribenedetto la vita, nella casa riscaldata, negli adatti cibi, nel letto caldo di lana e di affetto. Quegli uccelletti avrebbero trascorso la gelida notte nel rifugio dei fienili.
Ma io dove mi sarei rifugiato?
Povere vedette insonni delle Alpi! Chi conosceva i loro sacrifici? Mentre nelle città, nei teatri, nei caffè, nelle feste, nelle case riscaldate gli italiani godevano gli agi, le gioie del vivere, lassù, a tremila metri, alle porte della patria, qualunque il tempo, l'ora, il pericolo, stava a guardia, sulla loro sicurezza, l'imperterrito soldato dalle fiamme gialle. Quel soldato che nell'adempimento del dovere poteva cadere, come erano caduti quei giovanissimi, che dormivano sotto quella neve, ma non tradiva mai la sua consegna.
Soldati, e molti lo ignoravano, i più arditi, i più dotati di spirito di sacrificio, i più fedeli, tra i fedeli.
Dopo tre mesi, mercé il nuovo interessamento del tenente, a dispetto del perfido brigadiere, rientrai al mio reparto di Porlezza.
Quelle giovani sante vittime del dovere furono ritrovate in aprile, nello scioglimento delle nevi. Furono resi loro, a spesa dello Stato, solenni funerali, ai quali parteciparono, mossi da pietosi sentimenti, con le autorità, gli abitanti della vallata.
Io vidi sfilare le bare benedette da una cima, ove, quel giorno, mi trovavo di servizio. Il mesto corteo, illuminato da pallido sole, proseguiva, nel basso, lentamente. Una banda riempiva la contrada dalle note lente d'una malinconica marcia funebre.
Seguii quel corteo, con lo sguardo e con l'animo, sino a quando non scomparve dietro un poggio, di là dal quale si trovava, circondata da cipressi, il piccolo cimitero alpino.
Per quel giorno, dinanzi allo spettacolo della morte, nel tumulto dei miei sentimenti, non aprii libro.

 

Nella Pasqua potei, finalmente, visitare la casa, dalla quale era partito il nonno. Era venuto a prendermi a Porlezza lo zio Vittorio, incontrato sul piroscafo.
Nel passare per Bellano, ove ammirai il monumento a Tommaso Grossi, visitai i parenti, che vi dimoravano. A Narro prendevo alloggio nella casa del nonno, abitata, appunto, dallo zio Vittorio. Dall'intonaco bianco, dagli ampi balconi dalle persiane verdi, signoreggiava essa nel centro del borgo, del quale era sindaco Fortunato, altro cugino del babbo.
Nella parete, in fondo all'atrio, era riprodotto lo stemma gentilizio, uguale a quello descritto nell'albo araldico nazionale, sormontato da corona patrizia. Sotto lo stemma v'erano trascritti, in latino, cenni storici, attestanti, l'antichità, la nobiltà della famiglia.
Il luogo dove sorgeva Narro, circondato da collinette e boschi, già in quel mese d'aprile in verde vegetazione, era davvero magnifico. Ovunque l'Italia si presentava bella.
L'ampia storica Valsassina appariva da lassù, nell'acqua del fiume che scintillava nel suo fondo, nel verde delle sue rive, bella e dolce di silenzio, di riposo, di poesia. Commosso dai tanti ricordi non vi facevo, però, molto caso. Volevo vivere, in quei giorni, soltanto in quella e per quella casa, sacra per me, ove il nonno era nato e vissuto in parte, nella religiosa bontà, nel fervido appassionato patriottismo, come i vecchi, che lo ricordavano, mi confermavano concordemente.
Si giungeva alla festa santa. Un allegro scampanio, simile a quello fatto in onore del cardinale Federico Borromeo quando in giro pastorale visitava la Valsassina silenziosa, annunziava il giorno della Resurrezione. Scampanio che si ripeteva, con le sette campane, con armoniosi accordi, con motivi musicali, su per i colli, giù per le valli, riempiendo di mistica solennità tutta la contrada.
Con la più viva commozione, in un cielo luminoso, tra il generale tripudio, andai ad ascoltare la messa, come il nonno tanti anni prima, nella chiesa parrocchiale di Casargo, a tre chilometri, sede del comune.
In quella chiesa, mentre al suono largo dell'organo si compivano i sacri riti, pensavo se io, che avevo avuto altri segni, che per primo visitavo la terra dei padri e in essa attingevo nuovo spirito, non avessi davvero, rispetto alla famiglia, una speciale missione da compiere.
Amavo, durante il giorno, di muovermi, per visitare parenti e luoghi, ma la sera mi ritiravo presto per raccogliermi, nella stanza solitaria, nei miei pensieri, nelle mie fantasticherie. Forse quella doveva essere la stanza ove il nonno s'era moralmente preparato ai forti cimenti. Nella notte inoltrata, quando il villaggio già dormiva, pareva d'udire, nella casa muta, quel movimento agitato, che ne aveva preceduta la fuga. Pareva ancora d'udirne lo spirito, che io stesso forse evocavo, come in una seduta medianica, per sottoporlo ad interrogatorio, per sapere quel che non ancora sapevo della giovinezza, della vita vissuta, delle aspirazioni che avevano tormentato il suo nobile animo a Como, all'Aquila, a Teramo. Per sapere, soprattutto, quale avvenire era riservato ai figli di Gelasio, suo primogenito, non troppo assecondato dalla fortuna; per sapere l'esito dei forti propositi, che vivevano in me, nella salda mia volontà.
I segni, che ne avevo, parevano favorevoli.
Così passavo, nella casa sacra, una parte della notte. Nel giorno, nell'affettuosità dei parenti, da cui ero circondato, non avevo tregua, non avevo riposo. Tutti mi volevano a pranzo, a cena, a dormire. Dividevo il tempo come potevo. In casa dello zio Fortunato trovavo la cugina Margherita, della mia stessa età, che molto a me somigliava. Presso una zia vi erano due fratelli, suoi figli, prossimi ad essere sacerdoti.
La religione era osservata da tutti, con scrupoloso zelo, e tutti appartenevano al partito cattolico.
Finita la licenza, rientravo, come da un pellegrinaggio mistico, con nuove idee e nuovi propositi, a Porlezza.


Nel successivo maggio riprendevo, su i piroscafi, il servizio speciale, nel momento in cui a Milano fervevano i sanguinosi moti, determinati non soltanto da ragioni politiche, ma anche e forse più ancora da ragioni economiche.
Era il tempo doloroso del "Lasciar fare, del lasciar passare", in cui il nostro povero lavoratore viveva senza difesa, in un deplorevole stato di sfruttamento e di schiavitù. Per sottrarsene non rimaneva ad esso altra scelta, che quel di lasciare la casa, di varcare addolorato, con un sacco di cenci sulle spalle, il confine, andando così ad arricchire, con la sua intelligente operosità, terre di altre nazioni, magari nostre nemiche.
I moti di Milano, nei quali s'era introdotto, come sempre avviene in simili casi, la plebaglia, repressi nel sangue, fallivano. Tutti color, specialmente dell'ordine intellettuale, che si ritenevano compromessi, o ricercati, si mettevano in salvo, con la fuga in Svizzera.
Spettacolo pietoso al quale io assistevo in parte, che faceva molto pensare sul cattivo ordinamento economico, sulle sociali ingiustizie, sulle passioni non sempre serene, non sempre ragionevoli degli uomini.
Di quei profughi ne vedevo molti a Lugano, di tutte le professioni, non esclusi sacerdoti. Un certo numero spesso veniva alla partenza del piroscafo, come per mandare all'Italia il mesto saluto.
Quantunque rappresentassi, con la mia divisa, il potere regio, pure non mi guardavano di mal occhio. Qualcuno, anzi, mi veniva a parlare, senza odio, con la speranza di poter tornare presto in patria.
Non posso dimenticare, appunto di Lugano, un italiano, che vi aveva abituale residenza, nobile d'aspetto, alto, con barbetta e capelli bianchi, che nel camminare si poggiava, stanco e un po' curvo, su di un bastone.
Si rivolgeva a me affinché m'interessassi per il ritiro d'un documento, da uno dei comuni della Valsolda, necessario per riscuotere la pensione a lui assegnata, quale reduce delle guerre del risorgimento. Doveva mal vivere, il poveretto, se ogni giorno si faceva trovare, in ansiosa attesa, all'arrivo del piroscafo. Non sapeva trattenere un gesto di desolazione nel vedermi giungere, ogni giorno, a mani vuote. Nonostante tutto il mio vivo interessamento, per le stupide formalità burocratiche, non prima di tre mesi riuscivo ad avere il prezioso documento. Ne feci una festa. Il giorno dopo viaggiavo verso Lugano felice. La città, che nel verde dei suoi dolci colli era già in vista, m'appariva, per lo stato del mio animo, più bella. Si giungeva; il piroscafo s'avvicinava alla banchina; s'arrestava; si gettava il ponte mobile. Io, affinché fossi subito visto, ero verso la prua, bene avanti. Guardavo, nel movimento dei passeggeri, sotto la tettoia, a destra a sinistra, sulle strade della città: nulla. L'amico non si vedeva.
Il piroscafo, intanto, compiute le operazioni, riprendeva il cammino. Pensavo, per la gioia della consegna, al giorno dopo. Sperai invano. Nei giorni successivi, nella ricerca, sapevo che quel povero amico, tanto rassegnato, non era più tra i vivi.
L'ingrato destino non aveva voluto, neppure per un sol giorno, far rilucere uno squarcio di sereno sulla sua casa, sulla sua desolata grave età.
Ne restai fortemente addolorato, ed oggi ancora vi ripenso con mestizia.


Nel servizio su i piroscafi si ripetevano, presso a poco, gli episodi del precedente anno. Rivedevo molti dei turisti, cortesi e scortesi, che come uccelli emigratori passavano dall'una all'altra regione, dall'uno all'altro continente. Non vi rivedevo la enigmatica donna, dalle forme perfette; ma vi rincontravo con nuovo fascino, le due principessine austriache, che per un mese villeggiavano, in un loro castello, nei pressi di Lugano. Nelle gite sul lago continuavano ad avvicinarsi a me con manifesti segni di simpatia; simpatia che non sfuggiva al personale del piroscafo, che vi facevano sopra scherzosi commenti. Ma io non vi facevo caso. Neppure per un momento, dinanzi a quelle luci, s'abbagliava il mio senno. Ognuno, dopo le facezie, seguiva, senza turbamento, la propria vita.
A Campione si rinnovavano le graziose contese; ma per le maggiori doti ne usciva vittoriosa la quindicenne Sofia.
Lasciavo Campione, per l'ultima volta, quando l'autunno gravava già, con le nebbie, con l'umidità, con la fitta uggiosa pioggerella su i monti, su le valli, sul lago. A Campione, per il ritorno in città o in collegio, non era rimasta nessuna delle mie gentili amiche. Rientravo pure io malinconicamente, dopo la festosa parentesi, nella freddezza della caserma.
E riprendevo il servizio nel disagio, nei pericoli della montagna.
Qualche volta, nelle escursioni, che mi dilettavo di fare da solo, su per i dirupi e su per le cime, io stesso andavo a cercare i pericoli.
Un giorno, sul pomeriggio, da un bosco fitto, uscivo ai margini d'un valloncello, molto profondo, chiuso, nella parte alta, da una parete, che cadeva a picco. Ne volli tentare il passaggio, fidando sulle mie alpinistiche attitudini. Non v'era sentiero, ma una lieve piega, sulla quale neppure le volpi, forse, in cerca di prede, passavano. A metà cammino, infatti, non era più possibile andare avanti; né era possibile, per mancanza di spazio, di girare, per tornare indietro. Di sopra s'ergeva la parete, a taglio diritto, senza vegetazione; di sotto s'apriva, minaccioso, il precipizio. Mi sentivo mancare, nonostante il mio spregiudicato coraggio. Mi tormentavo il pensiero di dover finire i miei giovani anni, fracassato, in fondo ad un burrone, senza rinomanza. Invocare aiuto, per una cordata, era perfettamente inutile. Non vi era nelle vicinanze anima viva. Il mio compagno, in appostamento, si trovava lontano. Sentivo, intanto, giungere la stanchezza, il fastidio, lo scoramento. Nel frattempo, per potermi meglio sostenere, fino a quando non arrivasse qualche santo a liberarmi, cercavo d'allargare, con un piede, la piega del terreno. Dopo d'aver assicurato una certa stabilità iniziavo altro lavoro, nella parete, con le mani. Togliendo terra, a forza di unghie, scoprivo una radice, ed era la mia salvezza. Con il suo aiuto mi potevo girare e riprendere, adagio adagio, il cammino, in senso inverso. Tornavo così, a piccoli passi, ai margini del bosco.
Per un momento, ancora sbigottito, come quegli che "uscito dal pelago alla riva", mi volsi a rimirare il passo, con il fermo proposito di non ripeterne più la pericolosa prova.



Smarrimento


Alla fine di quel secolo, ricco di gloriosi eventi, in cui la patria, mercé il valore, il sacrificio, il sangue versato dai suoi figli migliori, aveva riconquistato la sua unità e s'avviava verso maggiori fortune, io conseguivo, giovane tra i giovani, i primi galloni, con la promozione, per esame, a sottufficiale.
Era il primo gradino, l'inizio festoso dell'ascesa. Ma questa gioia, condivisa dalla mamma lontana, come in tutte le cose umana, non mancava di velarsi di malinconia.
Con la promozione dovevo lasciare quei luoghi, ormai tanto a me cari, dove mi chiamavano ancora, vezzosamente, bimbo; dove vivevano amici, parenti, quei tanti piccoli cuori, che per me avevano palpitato, quelle buone donne, che m'avevano carezzato con affetto materno.
Dovevo lasciare quel lago avvolto di mestizia, con i palpiti del quale, come persona amica, avevo dolcemente palpitato.
Dovevo lasciare quel delizioso "Piccolo Mondo Antico", ove il vago fiore dell'adolescenza s'era aperto ai primi caldi raggi della giovinezza luminosa.
Dovevo lasciare, ciò che maggiormente m'attristava, quel collegio di Porlezza, in cui, quale iniziato ai misteri del tempio della cultura, il mio animo s'era vieppiù elevato nel cielo azzurro dei sogni, nelle lusinghe vaghe delle speranze.
L'addio a quei monti, a quel lago, alle persone che vi vivevano, alla mia fanciullezza, cara anche se afflitta, usciva con il pianto dal mio agitato animo.
Prima di partire sentii forte la nostalgia di rivedere, per un momento, da vicino Oria, il bianco paesello che rimarrà, con le sue case, con il suo lago, con i suoi abitanti, scolpito nei miei ricordi come persona viva e cara.
Non so perché vi volli andare, per l'ultimo saluto, a notte alta. Rirfeci, da Porlezza, quella strada, che tante volte avevo fatta, per recarmi a scuola, nel collegio arcivescovile. Attraversavo i paeselli, che incontravo lungo la strada, già immersi nel silenzio, senza far rumore. Vi si vedeva qualche finestra illuminata ancora, e vi si udiva, qua e là, dietro i recinti, nei pagliai, il ringhiare di qualche cane, molestato nel sonno leggerissimo.
Giungevo ad Oria che l'orologio di Albogasio suonava la mezzanotte. Nei pressi della villa di Fogazzaro, oltre la piccola chiesa, sostai alquanto, per raccogliermi un po' nei miei pensieri, per ascoltare i palpiti del mio sensibile animo.
Nella mite notte di maggio la luna illuminava, nella sua maestosa pienezza, dolcemente la sua madre terra. Le acque, nel lago calmissimo, s'udivano appena, nel loro lento frangersi sulla ghiaia, tra le barche in riposo. Lo scroscio della cascata di Rescia mi giungeva, in quel momento, con una voce nuova. Pareva che mi scrosciasse davvero nell'animo.
Andai, poi, oltre, camminando con la leggerezza d'un gatto, nell'ombra delle case, che si proiettava sulla strada. Nessun incontro. Sostai più avanti, nella piazzetta centrale, sotto la finestra di colei che m'aveva amato, che a quell'ora dormiva, forse sognava. In un certo momento, mentre salivo a lei, con un tacito madrigale, mi parve di veder muovere le imposte della sua cameretta. Illusione. Nessuna finestra, nella notte chiara, s'apriva al tacito cantore.
Dopo, nel tumulto dei miei pensieri e dei miei desideri, riprendevo la via del ritorno, soddisfatto d'aver reso, sia pure in un modo così strano, un tributo d'affetto alla gentile sfortunata innamorata.


Anche nella nuova residenza, di confine sempre, non mi sottraevo ancora all'altrui attenzione e curiosità. Non potevo essere più, con i venti anni suonati, il bimbo di Oria; ma ugualmente colpivo, per il grado che avevo, in età molto giovane; età che poi non dimostravo, conservando un aspetto sempre di adolescente. Si facevano, di conseguenza, sul mio conto, per la mia carriera, i più lieti pronostici.
Nella nuova contrada, Valle d'Intelvi, bella anche essa, nella verde freschezza, ebbi ad assistere, tra la vita e la morte, ad un altro spettacolo, offerto, su la montagna, dagli spiriti folli dell'abisso.
Era caduta la notte e gli otto uomini che mi dipendevano, giovani come me su i venti anni, vigilavano già, in punti diversi, lungo la linea di confine, nostra trincea di guerra, in tempo di pace. Salivano, nell'aria torva e nel caldo afoso di luglio, dal monte Generoso, grossi nuvoloni, dalle tinte sinistre; altri, in altri punti, correvano, a largo spiegamento, il cielo senza stelle. Guizzavano i primi lampi; si udivano i primi fragori del tuono. Cadevano i primi scrosci di pioggia; aumentava il vento. Il valloncelli, a mano a mano, si gonfiavano, l'acqua torbida straripava, inondava i terreni, nell'alto e nel basso. Il tuono, con l'intensificarsi dell'uragano, diveniva un sol fragore, cupo, profondo. Cadeva la grandine, fitta, più fitta, con chicchi grossi come ova, ed imbiancava la contrada come neve. Cadevano i fulmini fitti, più fitti. Cadevano senza tregua, come la grandine, su gli alberi, su i massi, su le rocce, su tutte le cime, con fragorio di sterminio.
Lampi, tuoni, grandine, vento s'elevavano, a mano a mano, ad una concorde potenza, da far ritenere come giunta, spaventevolmente, l'ultima ora del mondo.
Nessuno potrà mai immaginare, se non ne sia stato testimone, che cosa sia un temporale in montagna.
L'acqua, giù per i pendii e per i valloncelli, scrosciava a torrenti, con voce sinistra; la parte piana, nel basso, era tutto un lago; l'aria tutto un fuoco; il cielo tutto un rumore. I fulmini danzavano, diabolicamente, attorno a noi, chiusi, come ultima salvezza, nei sacchi a pelo, coperti d'acqua.
Credevamo di non rivedere il giorno.
Due ore durava quella diabolica rappresentazione, concepita, evidentemente, e diretta, dal più infernale genio, degli abissi più profondi.
Sulla stessa mia linea non erano mancate, purtroppo, le sante vittime. Due delle otto guardie, nel pericolo, s'erano rifugiate in una capanna di paglia. Un fulmine, assetato di sangue, vi cadeva sopra e le uccideva. La capanna s'incendiava. Quando, attirati dalle fiamme, accorremmo, la capanna era tutto un rogo. L'opera di spegnimento era resa difficile dallo scoppio delle cartucce, che quelle povere vittime, che bruciavano con la capanna, avevano nelle giberne, essendo armate di fucili.
Raccogliemmo quei compagni ad incendio domato, carbonizzati. Ad uno di essi, avendo fatto studi classici, sorrideva il più bell'avvenire.
Avevano salito l'erta con me, poche ore prima, pieni di fede e di gioiosa giovinezza; ne ridiscendevano, poche ore dopo, bruciati, in mesto funebre corteo.
Tornava il sole, ed anche nei nostri animi scossi tornava il sereno.
Tale è la vita, nelle sue vicende!


Ma è triste la vita! Dopo non molto mi giungeva la notizia, dolorosissima, della morte, in un ospedale, del povero padre.
Non posso oggi non rivolgere ancora una volta, alla sua santa memoria, il profondo affettuoso pensiero.
Non posso non ricordare quel mattino che mi accompagnava, a Giffoni, alla carrozza in partenza per Salerno. Era con lui l'angelica sorella Maria, la prima a raggiungerlo, nel fior degli anni, nel mistero dell'oltretomba.
Era ancora giovane d'età, il povero padre, ma era già curvo sotto le sferzate del nero destino. Nell'avvilimento camminava senza parlare. Anch'io non aprivo bocca, ma capivo, nel desolato dramma, quali sentimenti s'agitassero nel segreto del nobile animo. Ci abbracciammo, nella separazione senza lagrime, più volte ci baciammo.
Lo vidi ancora, mentre m'allontanavo, fermo, desolatamente con una mano in aria, in segno d'addio. Presentiva, forse, il povero padre che, su questa ambigua valle di lagrime, non ci saremmo più riveduti.
Tramontava, con il tramontare del secolo, nelle corsie d'un freddo ospedale.
Povero padre! Poteva avere avuto, come tutti gli uomini, le sue debolezze, ma non era stato cattivo. I figli lo dovevano ricordare quando, pieno ancora di forza, di feconda operosità e di speranze, nel simpatico gioviale carattere, aveva per tutti una buona parola, uno scherzo, una carezza; quando rientrando dalla città, ed i piccoli gli s'affollavano attorno festosi, aveva sempre per essi un sorriso ed un dono.
Dovevano ricordare che se egli, troppo fidando nell'altrui rettitudine, era caduto sulla via della sua operosità, aveva tenuto, d'altra parte, sempre alto e sempre onorato il proprio nome.
Povero padre! Moriva non avendo al suo fianco, nell'anticipato tramonto, per spietata avversità, che il solo figlio Antonio. Ma moriva rivolgendo ai cari lontani, in una perfetta lucidità di mente, tutti i suoi pensieri, e dopo di avere scritto alla cara compagna una lettera tenerissima.
Ricordava, in quella lettera, malinconicamente, il primo incontro, nella festa di Pasqua, nella chiesa di San Lorenzo, avvolta dal profumo degli aranci e dei pini. Ricordava il tempo vissuto sule rive fresche d'ombre e d'acque del Tordino e del Vera, fiumi sacri pure alla giovinezza di Giuseppe e di Doralice, suoi genitori. Ricordava ad uno ad uno i figli, addolorato di non aver potuto fare per essi, quanto era nel suo desiderio.
Tante altre cose ricordava, nell'afflitto tramonto, chiedendo alla buona compagna, per le proprie manchevolezze, se ve ne erano, il suo perdono.
Povero padre! Collocato nel comune campo della morte, le sue ossa, prima che potessero essere salvate, sparivano, nel volgere inesorabile del tempo, come spariva la tomba, che le conteneva.
Ma non sparivano gli affetti umani, che sopravvivono al silenzio delle urne, ai misteri della morte.
A Giffoni, dopo la morte del babbo, le cose s'aggravavano. Il fratello Giuseppe, congedato ed ammogliato, anche lui abbandonava l'Italia, per l'Argentina. Vincenzo, agitato da nomade spirito, si trasferiva altrove. Nella casa non rimaneva, con le piccole sorelle, che Federico, non in condizione, per l'età, di rendimento.
Per tali ragioni, quando stavo per essere promosso al grado superiore, in un momento di smarrimento, mi congedavo, per tornare a riscaldare, con il mio affetto, la solitudine dell'addolorata madre.
Nel congedarmi m'ero proposto di tentare, per la riscossa, altra via, più facile e spedita. Ma dopo qualche mese di affannose ricerche, dovevo tornare sulla via, segnata, forse, per me dal fato.
Ero tornato ancora una volta a Teramo, dove lo zio Aldobrando, dopo la partenza del fratello Vincenzo, era rimasto solo. Ma la sua porta per me era rimasta ancora una volta chiusa.
Gli eventi, quindi, e favorevoli e sfavorevoli, dovevano avere il loro inesorabile corso.
Non potendo risolvere il problema in altro modo, ripugnando a me di trasferirmi all'estero, domandavo la riammissione nel Corpo, dal quale m'ero congedato.


Un viaggio da raccontare quello fatto da Salerno a Como, per raggiungere la nuova residenza, anche per mettere meglio in evidenza, di quanti contrasti è formata la povera, volubile vita.
Ebbi a fare una sosta d'un mese a Cava dei Tirreni, bella ed ospitale cittadina. Avevo avuto una lettera per una famiglia di molto riguardo, alla quale mi presentai, per la consegna, una domenica mattina. Il signore, come mi diceva la domestica, che m'apriva, non era in casa, né in città, ma potevo entrare, essendovi la signora sua moglie. La signora, dalla quale ero subito colpito per la fresca e profumata avvenenza, mi raggiungeva, poco dopo, nel salotto, ove ero stato fatto entrare.
Anche lei, nel guardarmi con due luminosi mesti occhi, ebbe un moto di sorpresa. Non le dovevo sembrare molto nuovo. M'aveva forse visto, nei suoi sogni di fanciulla. Nessuna idea, se non più che corretta, mi balenava alla mente, anche se fortemente turbato da quella esuberante bruna bellezza. Quando stavo per andarmene m'invitava a sedere, e sedeva essa stessa, di fronte, non molto lontano. Poiché il marito, insieme ad un di lei fratello avvocato, era partito per Napoli, e non sarebbe tornato che la sera, iniziava con me una conversazione un po' confusa. Ad un certo momento, uscito l'unico bambino a spasso con la domestica, in casa restammo soli. Per quanto conservassi ancora molta ingenuità, pure quel fatto mi preoccupava. Ogni qualvolta tentavo di andarmene, ero pregato di rimanere, di parlare, di ascoltare. Le poesie del Petrarca, ch'erano sul tavolinetto, ci conduceva a discutere sul cantore d'uno dei più forti e dei più santi sentimenti, che possa scuotere cuore umano. Ne ricordavamo, commossi, i silenzi di Valchiusa, le fresche chiare acque, gli alberi, la pioggia di fiori, i palpiti, i lamenti, le esaltazioni, e parlavamo della divinità dell'amore.
Io, anima candida, esaltavo la purezza, la nobiltà, la spiritualità del cantore di madonna Laura. Ma mi accorgevo che la bella donna, alle mie parole, s'inteneriva, i suoi occhi divenivano sempre più luminosi. Mi svelavano, poi, meglio lo stato del suo animo, le reticenze, la languidezza dello sguardo, i sospiri, che sfioravano il pianto.
Poiché da tutto traspariva che non era felice, stavo per fare qualche altra domanda, quando d'improvviso si rompeva l'incanto; s'alzava, si lanciava verso di me, s'abbandonava, con la sua profumata fervida giovinezza, tra le mie giovani braccia.
Sapevo dopo che quella tenera donna conduceva con il marito, anziano, rozzo, geloso, vita disgraziata. Era tenuta in casa, come in un carcere. Chiuse dovevano rimanere, nei sospetti e nei continui litigi, pure le finestre. Quando s'allontanava l'Otello portava con sé le chiavi del portone.
Il cielo benigno in quel giorno l'aveva voluta favorire. Aveva mandato, come uno sprazzo di luce, sia pure per un attimo, un cuore generoso e cavalleresco a confortarla.
Prima che lasciassi Cava dei Tirreni ricevevo da lei una lunga lettera, con la quale mi narrava, le vicende dolorose della sua giovane torturata esistenza.
Riprendevo il viaggio con il mio dramma, ma anche con la visione mesta di quella infelice.

 

A Napoli, in attesa della partenza del piroscafo per Genova, ero costretto ad altra sosta. Nella grande città babilonese, dai canti e dal chiasso scomposto, in una nostra caserma, ero spogliato di quanto possedevo. Usi di Napoli, mi si diceva.
Giungevo a Genova dopo un cattivo viaggio, in un mare in tempesta. Proseguivo, in ferrovia, per Como, con venti centesimi in tasca. Dovetti tenere la cinghia bene stretta, sino a Cavallasca, nuova mia residenza.
I comandi, nella loro durezza, non avevano tenuto in nessun conto il grado da me precedentemente rivestito, né i sottufficiali, già miei colleghi, m'usavano cortesia; anzi qualcuno si mostrava addirittura sgarbato. Il servizio di sentinella, di otto in otto ore, lungo la rete metallica, era durissimo.
Ma tutto sopportavo, con serafica rassegnazione, guardando l'avvenire.
Dopo un anno di quella vita ero ripristinato nel grado e destinato, come un miracolo, a Firenze. Tutti ne erano meravigliati, poiché Firenze, la più bella ed ambita residenza, non s'otteneva che per autorevoli interventi, dopo molti anni di servizio.
Le benedizioni della mamma scendevano già sul mio cammino.



Il fondo toccato


Nella gentile città di Dante, ove la buona fortuna m'aveva condotto, per acquistare maggiori cognizioni, frequentavo circoli, accademie, teatri, anche sotto mentite spoglie. Non trascuravo, nelle ore libere, di visitare, per immergervi l'ansioso spirito, le pinacoteche, le gallerie, i musei; non mancavo di andare ad esaltarmi, come quando ero dinanzi alla maestà delle Alpi, dinanzi alle divine creazioni del genio toscano ed italiano. Quei geni che rispondevano ai nomi immortali di Leonardo da Vinci, di Michelangelo, di Raffaello, di Tiziano, e di tanti altri sommi, avanti alle opere dei quali, che oggi ancora mi rivivono fresche nei sensi, rimanevo per ore e ore in estatico raccoglimento.
Ma alla lirica bella, seguivano tosto i neri accenti, del doloroso dramma non ancora concluso.
Nell'estate che giungeva, per godere un po' di campagna, essendo scrivano presso il comando superiore, andavo in una delle tranquille contrade di Castel Fiorentino.
Nel passare sul mezzogiorno, nelle mie gite, dinanzi ad una villetta circondata di verde, vedevo ad una finestra, come in attesa, immancabilmente, una florida ragazza. Non ne chiedevo notizie, per non svegliare sospettosa curiosità; ma ero lieto quando, con un fratello, ne potevo visitare la casa.
Vi ero accolto con molta cordialità e con un dolce mesto sorriso da parte della cara ragazza, che contava diciotto anni. I miei sentimenti non potevano superare quelli d'un puro omaggio alla giovinezza, ma le mie parole, naturalmente gentili, parevano commuovere la bella fanciulla, dagli occhi neri e profondi.
Quando lasciavo la casa sapevo, e ciò molto mi rattristava, che quegli occhi belli, da qualche anno, erano spenti per sempre alla luce.
Non rividi più quella infelice, poiché proprio in quel giorno un telegramma urgente mi chiamava in famiglia, dove altri occhi, non meno belli, stavano per spegnersi, non alla luce, ma alla vita: la buona, la mite, l'angelica sorella Maria Gesù, gentile fiore di aprile, moriva. Giungevo a casa appena in tempo per raccogliere l'ultimo suo mesto sorriso, l'ultimo sguardo, ancora vivo, dei suoi dolcissimi occhi. Poi la cara sorella reclinava il capo, tenuamente, nel sonno, che non ha risveglio.
Più fortunata della cieca di Castel Fiorentino? Non so. Molti, nei diversi sentimenti e nelle diverse considerazioni, potrebbero essere i pareri. In quanto a me, l'amor fraterno m'induce a dire, che avrei voluto vedere, ancora in vita la cara sorella.
Dicevo di lei, nella stanza ardente, in un mio taccuino, che conservo religiosamente:
"Povera sorella! Troppo presto la parca inesorabile ha troncato, nei tuoi quindici anni, la santa tua giovinezza. Tu passavi tra la gente, che t'ammirava, avvolta di dolcezza e di poesia, con leggerezza d'un angelo. Troppo buona eri, troppo mite per poter rimanere a lungo su questa terra d'inganni. Tu te ne sei andata, sorella, lasciando nel nostro cuore una ferita profonda. Ovunque io vada, vicino e lontano, nel tumulto delle città e nel silenzio delle campagne, porterò sempre vivi nel mio cuore, la tua immagine d'angelo e quel soave sorriso, con il quale ieri m'accogliesti nel tuo letto di morte.
Penserò sempre, dolce sorella, che nel cimitero solitario e silenzioso della vallata degli ulivi, in questa contrada profumata d'aranci, tu dormi, nella tua eterna giovinezza, l'eterno sonno."
Restavo vicino alla mamma, che si dimostrava inconsolabile, un mese. Non valevano tutte le mie parole, le mie cure, il mio affetto a distrarla dal dolore, che l'annientava. Spesso si doveva andare a riprenderla, dopo il tramonto, al cimitero ove si recava sola per rimanere, in lagrime e in preghiera, accanto alla tomba che raccoglieva la cara figliuola.
Non trovava questa volta, la buona mamma, neppure nella religione, essa tanto religiosa, la via della rassegnazione.
Nei momenti di calma, nelle ombre della sera, aveva con me lunghe conversazioni. Nel ricordare le vicende della sua vita, dalla giovinezza felice alla maturità tormentata, concludeva sempre col dire che la tempesta, che da tempo infuriava sulla nostra casa, non si sarebbe calmata se non con la sua scomparsa. L'erta, secondo lei, non poteva essere risalita se non dopo toccato, con tutti i rottami, il fondo della valle maledetta. E faceva per noi, con spirito profeticamente acceso, che molto colpiva, confortevoli pronostici.
Le veglie, nelle notti d'ansia, duravano a lungo. Quanto diverse da quelle veglie serene, nelle notti di neve, nella casa felice di Rocciano. Là la vita si presentava con i colori rosei dell'aurora, qui con le ombre nere del tramonto.
Giungeva, intanto, il giorno della partenza. Nella separazione dolorosa la mamma buona mi stringeva nelle braccia, che non voleva sciogliere, e mi baciava con calde lagrime. Forse sentiva che la vita le mancava; sentiva anche lei, come il babbo, che non ci saremmo più rivisti su questa terra.
Tornavo a Firenze senza pace, con l'animo in tumulto, con il più nero presentimento. Poco sopravviveva a quest'ultima sventura la buona mamma, martire santa del più grande amore materno. Io non ero presente al tramonto. Avevo già goduto nell'anno il massimo della licenza; non ne potevo avere, per una barbara disposizione, altra.
Se non con la persona, ero stato a lei vicino, nell'ora estrema, con tutto il mio dolore. Ed essa, facendo il mio nome, l'aveva sentito, ed il suo spirito, appena libera, veniva a me, a confortare la mia angoscia.
Il chiarore tenue dell'alba, nel novembre malinconico, penetrava già nella camera silenziosa. Vegliavo, o quasi, sul mio affanno, con il pensiero fisso alla mamma morta. Ad un tratto un leggero fruscio, come di aria tra le foglie, mi colpiva. Guardavo, ansiosamente. Dalla parte della luce vedevo un'ombra che s'avvicinava con la leggerezza d'un fantasma. Era la mamma, vestita di bianco, sana e bella, come nella sua serena giovinezza, che veniva a me. Mi guardava, quando mi giungeva vicina con un tenero sorriso e mi parlava della sua beatitudine, che diceva di godere e mi confortava. Tendeva la mamma le braccia ed io sentivo quasi, come quella d'un soffio d'aria, la carezza delle tenui mani.
La mia voce, nella meraviglia, la invocava teneramente: mamma, mamma! Anch'io allungavo le braccia, seduto sul letto, per abbracciarla, ma lei svaniva, lentamente, con l'alba.
- Allucinazione! - potrà dire qualcuno. Forse. Ma io, e lo giuro, vidi la mamma, ne sentii la carezza, ne ebbi ancora una volta la benedizione.


Sulla sua santa bara, una gentile giovane amica, commossa, aveva detto:
"Signori, un lamento di sacri bronzi si ripercuoteva ieri sera lentamente nell'aria, nella fredda giornata d'autunno, annunziando l'immatura perdita della cara e virtuosa donna Maria Carolina Marotta, madre affettuosa di numerosa prole, che seppe educare alla religione e a tutti i sacri umani doveri. Essa, o Signori, condannata alle controversie della vita, provando disinganni, dolori inenarrabili, seppe, con l'ammirabile sua rassegnazione, ricoverandosi sotto l'usbergo della religione, condurre pazientemente al suo termine la sua dolorosa vita.
In ancora giovane età perdeva l'amato consorte, rimanendo essa a tutela dei cari figli, i quali, memori delle sue virtù, ne piangono oggi, inconsolabili, la perdita.
Anch'io, o Signori, che ben conoscevo donna Maria Carolina Marotta, mi tenni onorata della sua sincera leale amicizia. Di cuore gentile, amorevole con tutti, generosa col povero, con cui divideva financo il suo pane, era l'angelo consolatore dell'oppresso, del misero.
Non ancora erasi rimarginata la ferita, prodotta dalla perdita del sostegno della sua vita, che un'altra, più dolorosa e profonda, ne esulcerava l'anima, già tanto travagliata: la morte della cara, adorabile figlia Maria Gesù.
Povera madre! Mi pare di vederla là, curvata su quel letto bianco a vegliare quel caro pegno d'amore. Appariva, immobile e gemente, simile all'angelo del dolore, accanto alla tomba.
Da quel giorno la sua angoscia, muta e profonda, lentamente la conduceva al sepolcro.
La sua vita, che fu di sacrificio, sia oggi di esempio a quanti la conobbero, che in essa ammirarono virtù non comuni.
Non vana ambizione, ma il grande affetto, che sempre nutrii per te, m'ha oggi indotto a porgerti l'ultimo saluto, che precede la partenza, che non ha ritorno. E lassù, nel soggiorno dei giusti, prega, o anima benedetta, per i tuoi figlie delle lontane Americhe, ignari, forse, dell'immane sventura, da cui sono stati colpiti; prega ancora per gli altri figli, e per le altre figlie, che costituirono sempre, per le loro virtù, il tuo orgoglio.
E voi, Signori, perdonate le mie povere poche parole, uscite spontanee dal mio animo, in omaggio della cara estinta, la cui santa vita le meritarono quaggiù l'amore dei mortali, ed oggi, che vi è ascesa, il sorriso dei cieli."
Così diceva la gentile Raffaella Doria, mettendo in luce, sia pure affrettatamente, talune delle virtù, che pregiavano la sua amica, in quei funerali che furono, per concorso spontaneo di popolo, una grandiosa manifestazione di affettuoso rispetto, di venerazione, per la santa scomparsa.
Il fondo della valle era stato in tal modo toccato, come aveva detto la mamma. Occorreva ora, come il più sacro dei doveri, a qualunque costo, a prezzo di qualunque sacrificio, risalire la faticosa erta.



Luci nella tempesta


Scomparsa la mamma a cinquantacinque anni, la casa paterna si doveva considerare finita, caduta in frantumi.
Dei suoi appartenenti, Giuseppe e Ciriaco, essendo in America, vivevano fuori dei nostri trambusti. Però accettavano di ricevere le sorelle giovanissime, che non si sapeva come convenientemente sistemare in Italia: Angiola, Allegrezza e Argira.
Antonio stava già a sé, con la propria famiglia; Vincenzo, scapolo, continuava a girovagare; Federico, il più piccolo dei fratelli, veniva, per qualche tempo, con me a Firenze.
Io avevo sempre fisso, nella mente, Teramo. Pensavo a Teramo come ad una luminosa terra promessa, nella quale attuare quel disegno, che forse era stato nel pensiero del nonno di Narro. Lo zio Aldobrando pareva che vi fosse rimasto per tenervi il posto, in attesa che vi tornassero, per gli ulteriori sviluppi, i figli del fratello primogenito, i figli di Gelasio.
Sapevo che questo zio, dopo la partenza di Vincenzo, era rimasto con estranei nell'azienda; pensavo, quindi, di mandarvi Federico. Gli scrivevo, di conseguenza, una lettera molto commovente. E Federico partiva con una valigetta, con un po' di biancheria ed un impermeabile nuovo, che gli avevo acquistato presso una cooperativa. Giungeva a Teramo, secondo il piano stabilito, quando lo zio aveva ancora nelle mani la lettera, ricevuta poco prima. Brontolava un po' nel vedere entrare il nipote, ma il mio scritto aveva operato beneficamente sul suo animo. Federico, trattenuto, si metteva sulla via del suo avvenire.
Sapevo che in tutti questi frangenti, che avevano condotta la casa al disfacimento, erano state fatte spese, non tutte soddisfatte, nessuna ombra, di nessuna specie, si doveva proiettare su noi, sulla memoria della buona mamma. Ne scrissi ad Antonio che, in verità, aderiva, senza ritardo, ad una mia proposta. Di conseguenza, un bel giorno, tutt'e due, ci ritrovammo a Giffoni, dove, tra la generale meraviglia, aprimmo banco. A tutti coloro che si presentavano, vantando un qualche credito, pagavamo quanto chiedevano, senza discutere.
Crediti, in verità, ben modesti, forse dimenticati. Il loro pagamento concorreva ad aumentare, in nostro favore, la pubblica stima.


Dopo anch'io riprendevo la mia strada, con nuova lena. Nell'anno che seguiva, sostenendone gli esami, ero promosso al grado superiore, sempre, però, nell'ordine dei sottufficiali, e destinato a Cagliari, nella bella città dell'isola silenziosa.
Anche qui ero chiamato a disimpegnare le funzioni di scrivano, quale capo ufficio, presso il comando più elevato. Trovandomi, quindi, ancora a diretto contatto con ufficiali superiori, avevo modo di mettere meglio in evidenza le mie qualità.
La strada da percorrere si presentava al mio cammino più agevole. Non trascuravo, ad ogni modo, lo studio, che stava sempre a base della progettata edificazione. Frequentavo, pure a Cagliari, come a Firenze, i circoli di cultura, le scuole di lingua, le aule universitarie.
Vita di lavoro, di privazioni, di sacrifici, dovendo togliere le ore di studio alle ore di riposo, anche notturno.
La domenica e le altre feste, quando tutta la città si raccoglieva nella sera per ascoltare sul terrazzo del magnifico bastione la banda militare, io restavo nella mia stanza, come legato al mio tavolo, immerso nei libri. Non ero distratto neppure dalla musica, che giungeva, dall'alto, distintamente al mio orecchio.
Andavo a letto, poiché la mia robustezza lo consentiva, a tarda ora; m'alzavo con l'alba.
Non ero distolto neppure dalle famose feste di S. Efisio, che duravano più giorni, nelle quali concorreva, con le proprie caratteristiche, tutto il popolo sardo. Vi concorreva con i balli, le musiche, i canti, le ardite cavalcate e con i suoi complessi vistosi ricchi costumi.
Qualche volta di domenica, come momentaneo riposo, ed anche per meglio conoscere, nella vera vita, la nobile Sardegna, con il brigadiere mio compagno d'ufficio, sardo egli stesso, facevo gite lontano dalla città. Di là del fertile Campidano s'incontravano, generalmente, terreni sterposi, in cui, nell'abbandono, dominavano i cinghiali, i mufloni, gli uccelli a migliaia, ed il biblico pastore. Biblico, poiché anche lui, come quello asiatico, nella solitudine componeva, nella sua lingua, con spontanea arte, versi, canti armoniosi ed intagliava, con buon gusto, figure d'ogni maniera.
Ordinariamente sostavamo su qualche altura, tra alberi di sughero, nei pressi delle siepi di fichi d'India, da dove si potesse ammirare l'ampio golfo ed i paeselli bianchi, che parevano usciti dall'acqua, per riscaldarsi al sole.
Quanti pensieri, diversi da quelli delle Alpi, attraversavano, in quei luoghi remoti, il mesto mio animo. La solitudine, come su d'una nave sperduta nella vastità dell'Oceano, era più fortemente sentita.
E rattristava, in quella solitudine, la visione della zona delle saline, più ancora la massiccia nera costruzione del bagno penale, entro il quale l'umanità traviata espiava i suoi delitti.
I pastori, nel loro senso d'ospitalità, spesso ci offrivano il formaggio delle loro pecore, e l'agnello, molto gustoso, arrostito, con una procedura speciale, sotto la bracia.
Oggi ancora ricordo quelle silenziose contrade, i costumi, le cantilene da paesi orientali, di quella brava taciturna gente. Gente fiera, la cui gioventù eroica rincontravo, poi, protagonista di eroiche gesta, nella prima grande vittoriosa guerra.
Ricordo pure il laccio che l'insidia, anche nella romantica isola, m'ebbe a tendere per due volte: insidia non d'amore, ma di morte.
In una di quelle sere di studio si spegneva, d'improvviso, la luce alimentata dal gas. Ne approfittavo per gettarmi, vestito, un po' sul letto, per riposare. Avevo la schiena indolenzita, le idee confuse. Nella stanchezza mi coglieva il sonno. Nella notte, ad un certo momento, sentivo, nel sonno, come se qualcuno o qualche cosa mi soffocasse. Mi svegliavo, a stento, ad avvertivo, in una pesantezza di capo, d'avere le forze paralizzate.
Avevo dimenticato, al cessare della luce, di chiudere il rubinetto ed il gas, che, al ritorno, aveva riempito la camera, stava per uccidermi, senza pietà.
Con uno sforzo non lieve riuscii a trascinarmi sino alla finestra che aprivo ed ero salvo.
Seconda insidia. Nel caldo di luglio, io ed il brigadiere compagno d'ufficio, eravamo andati in un luogo solitario, lontano dalla città, per tuffarci, beati, nelle mosse azzurre onde di Nettuno. Con molta prudenza, nel godimento del nuoto, mentre il mare ingrossava, eravamo passati dall'una all'altra delle così dette secche. Nel tornare indietro, superando già l'acqua, su le secche di riposo, la nostra altezza, eravamo costretti di continuare, senz'altro, verso terra.
Io andavo avanti con sufficiente sicurezza, ma il compagno, meno allenato, ad un tratto si sentiva venir meno le forze. Senza misurare il pericolo mi lanciavo in suo soccorso. Poggiandosi, giudiziosamente, con una mano su di me, mi lasciava libero il movimento del nuovo. Ad un certo punto anch'io non ce la facevo più; anch'io bevevo acqua, affondavo, annegavo. Un palo ed una fune che i pescatori tenevano là, nel mare, per le loro reti, a cui io mi potei afferrare con la forza della disperazione, ci salvava.
Per lo sforzo fatto dovetti rimanere a letto, con la febbre, più giorni.
"Non era giunta la sua ora", potevano sentenziare i sostenitori del fato.
"La resistenza, la padronanza di sé, la forza della sua volontà lo salvavano", potevano contrapporre i suoi negatori.
Sopravvivevo all'insidie, questo è certo, e potevo continuare a vivere nelle mutevoli vicende della povera vita.


Non appena mi fu consentito, mi presentai a Roma all'ardua prova degli esami, per l'ammissione alla Scuola per gli Allievi Ufficiali, che superai quasi come un miracolo. I posti messi a concorso, per quell'anno erano diciotto, i concorrenti trecento, con titoli di studio, ben preparati.
Giunsi a Caserta, per l'inizio del primo anno accademico, il 4 novembre. Nell'entrare nel Palazzo Reale, sede dell'Accademia, un senso di sgomento mi invadeva. Non potevo non rammentare i re, ch'erano passati per quella reggia, una delle più grandiose del mondo; che vi erano passati con le passioni, con la magnificenza della loro grandezza, con la forza della loro potenza.
Ma pensavo, con sgomento al vasto programma che ivi si doveva svolgere, nella durata di due anni, per conseguire, dopo altri rigorosi esami, la promozione ad ufficiale.
Furono i due anni di Caserta, senza notevoli avvenimenti, due anni di vera clausura. Le numerose materie da studiare, da quelle di cultura generale a quelle professionali, non consentivano tregua alcuna. Raccoglimento assoluto, come in un monastero. Dalle cinque del mattino, ora della sveglia, alle ventitré di sera, ora del silenzio, si rimaneva in continua faticosa attività. Gli intervalli, dall'una all'altra delle lezioni, impartite da severi professori, alcuni dell'università di Napoli, non erano che di cinque minuti. Le due ore di ricreazione, concesse verso sera, prima di cena, si dovevano pure dedicare, per una migliore preparazione, allo studio.
Qualche volta s'usciva, con la mente stanca, nel vasto parco, anch'esso cinto da ogni parte, per ammirarvi le bellezze, di cui era ricco. Pareva veramente uscito dal genio acceso d'un fantasioso artista. Viali ampi, colmi di verde e di silenzio, nel centro; vialetti infiorati ai lati, con boschetti in fondo, che chiudevano i prati. Qualche rotonda, con aiuole, e qualche fontana di graziosa fattura; poi laghetti con cigni, deliziosi come sogni. Più avanti, in fondo, nella collina, dopo altro ombroso viale, il regno delle cascate: regno della immaginosa mitologia, dell'alta poesia. Ninfe qua e là, tritoni, gentili deità d'amore: deità dei boschi, dei prati, delle acque. Cascate su cascate, nel basso e nell'alto, con ampie vasche in verdi spazi: acque fresche dal lieve mormorio; acque spumeggianti, dalla bianchezza di neve, fragorose nel precipitare. Grotte ancora qua e là, con armonico disordine: grotte dei venti, del silenzio, del mistero. Pareva di dover vedere uscire davvero da quelle grotte, da quelle acque, da quei boschi, le divine abitatrici.
Quando su quel lembo di paradiso il possente Febo mandava, come una carezza, i suoi amorosi raggi, e da ogni parte saliva con le foglie, con le acque, con i fiori, con gli uccelli il divino canto del creato, pareva di vivere in un sogno.
Ma il sogno tosto svaniva per noi, richiamati bruscamente alla nostra realtà dal gigantesco edificio, messo, come a guardia, all'ingresso di quel paradiso.
Superavo, a suo tempo, gli esami di passaggio dall'uno all'altro corso. Superavo, nell'anno successivo, dopo fatiche ed ansie indicibili, gli esami finali di promozione.
In tal modo il ragazzo del Tordino, lo scolaro di Rocciano, il bimbo di Oria, per solo suo merito, risaliva, con le fiammeggianti spalline da ufficiale, nell'ordine superiore degli avi.
Dopo un festoso banchetto, inaffiato con abbondante spumante, si dava un addio, pure con qualche cosa di mesto nell'animo, a quel Palazzo, a quella Scuola, dove s'era tanto palpitato, tanto sognato, tanto sofferto.
Si dava un addio alla vita del sottufficiale, modesta in apparenza, ma che pure aveva in sé tanti pregi, tante virtù, tanti elementi nobilissimi.
Sentivo di dare, nel nuovo sbalzo luminoso in avanti, dinanzi ai nuovi più forti doveri, un addio al passato, alla giovinezza, sempre bella e d'estate e d'inverno, e nell'alto e nel basso, e nella ricchezza e nella miseria.
Addio cari giorni del bimbo di Oria!
Fuori da quel recinto, da quella maestosa reggia, rimanevo sulla strada per qualche tempo fermo, agitato da molti pensieri. Avevo ottenuto, con una non comune forza di volontà, una luminosa vittoria su gli avversi eventi, si, ma non ne godevo appieno la gioia. La persona, che avrebbe dovuto partecipare a quella festa non viveva più; quella che, nelle leggi eterne dei santi affetti, avrebbe dovuto sostituirla in terra, non era stata ancora incontrata.
Sentivo su quella strada coperta di platani, mentre i compagni s'allontanavano festosi, nelle malinconiche riflessioni, un largo vuoto a me d'intorno.
Dopo anch'io andavo alla stazione, per prendere il treno per Teramo.
Una nuova luce ad ogni modo illuminava, nelle nuove condizioni, la mia via e la mia vita.


A Teramo ero accolto con festosa affettuosità. Lo zio Aldobrando mostravasi fiero di vedere un nipote ufficiale. Ne parlava ai conoscenti, facendo il mio elogio, con molto entusiasmo.
Poiché nelle cose della vita non vi è mai perfetto sereno, non tardavo ad osservare che tra lo zio e il fratello Federico non vi era molto accordo. Un giorno lo zio, facendo le sue lagnanze, me ne parlava. Era, in verità, troppo esigente. Prima di ripartire, però, riuscii a ristabilire tra essi la buona armonia.
Ma dopo non molto un fatto nuovo sopraggiunse a mutare il corso degli eventi.
Dopo la morte di Diana Ridolfi, seconda moglie di Giovanni, avvenuta in quel tempo, la figlia Annunziata, brava studentessa, che stava per essere licenziata dalle magistrali, era rimasta sola. Lo zio Aldobrando, non dimenticando che si trattava d'una nipote, anche per consiglio d'amici, la prendeva in casa.
Nei due cugini, orfani di genitori e giovani, non tardava a svegliarsi una scambievole simpatia, che a mano a mano diveniva sempre più viva.
La china sulla quale i due scivolavano si faceva sempre più morbida, in fondo alla quale fioriva, con i dolci allettamenti, la promessa gaia della vita.
Un telegramma, dopo qualche giorno, mi fece accorrere da Grosseto, nuova mia residenza, a Teramo. L'idillio era stato scoperto e gli innamorati erano stati messi, senza pietà, al bando della casa.
Lo zio, quantunque la chiesa e le leggi civili vi fossero favorevoli, non concepiva che due cugini potessero sposarsi, e rimaneva talmente scosso del fatto da ammalarne seriamente. Desiderava poi che io mi ritirassi, assicurandomi l'avvenire con una atto di donazione di tutta la sua roba.
Troppo tardi! Avevo troppo lavorato, troppo sofferto per costruire, con le sole mie forze, il mio stato. Ad ogni modo, nell'interesse esclusivamente degli altri fratelli, qualche cosa occorreva fare e chiedevo, quantunque ciò fosse di pregiudizio alla mia carriera d'ufficiale, appena allora iniziata, l'aspettativa per motivi di famiglia.
Mi ci vollero ben otto mesi per persuadere lo zio a cedere la sua azienda non agli Spinozzi, che l'avevano richiesta, ma a qualcuno degli altri nipoti, non ancora bene sistemati nella vita.
Io ebbi a sostenere, con tutto il mio fervore, con tutta la mia autorità, le necessità del fratello Vincenzo, che languiva, in fondo ad un fosso, nel lavoro micidiale d'una fonderia di rame. Ai figli sarebbe toccato nella vita, senza dubbio, la stessa sorte del padre.
Quando chiamai a Teramo questo fratello, per consegnargli l'azienda, subito mi scrisse:
"Ho ricevuto la tua lettera e il tuo telegramma. Io non ho parole per poterti ringraziare; te ne sarò grato per tutta la vita. Un giorno dai miei figli sarai benedetto, sarai tenuto come un grande benefattore. Il tuo cuore è nobile; nobile perché se ne conoscono le azioni."
Come i figli rispondessero a questo debito di gratitudine non è il caso di parlarne. Nella loro condotta, nei miei riguardi, posso dire d'aver meglio conosciuto le bizzarrie del cuore umano.
Nel frattempo Federico, continuando sulla nuova via, sposava la cugina, riaprendo, di conseguenza, il negozio di ferramenta, fondato dalla madre Diana, dopo la separazione dal cognato Aldobrando.
Annunziata non rinunciava al beneficio del titolo di studio, che aveva già conseguito con ottima votazione, andando ad insegnare proprio a Rocciano, pieno di eventi per la famiglia Adamoli, nella cui chiesa riposava il nonno di Narro.
Compiuto quest'altro dovere verso lo zio e verso i fratelli tornavo in Maremma, per continuare nella mia carriera.
Mi volli rendere un po' conto, giacché vi ero, di questa Maremma famosa. La volli percorrere, anche per ragioni di servizio, da un punto all'altro, a piedi, da Follonica a Torre San Rocco.
Piccolo segregato mondo. Il primo tratto, costituito da più poggi, più o meno elevati, appariva coperto di pini verso il mare, di querce, di lecci, di eriche e di ginestre nell'interno. Ne era difficile e faticoso il passaggio.
Tranne qualche carbonaia, che fumava qua e là, qualche svolazzamento di uccelli di rapina, non vi si vedeva, non vi si sentiva altro segno d'anima viva. Vi si scorgevano, invece, tracce di cinghiali, che vi abitavano, e vi s'udivano i ronzii dei fitti sciami di ditteri e di altri simili insetti che assalivano, con i loro pungiglioni, il disgraziato che vi passava, in modo tormentoso.
Giungevo a "Punta la Guardia", da noi chiamata "Torre Troia", dopo qualche ora. La caserma era collocata in un vecchio castello, costruitovi da qualche bizzarro romantico feudatario medioevale, su una roccia, che saliva dal mare. Non vi mancavano le torri, i merli, il ponte levatoio e vestigi di trabocchetti.
Le guardie, incaricate della vigilanza della costa, vi vivevano, nella malinconica solitudine, una vita di veri anacoreti. Vi erano però in vista molte isole, tra cui quella bruna e misteriosa di Montecristo, colma di strane leggende.
Chi sa a quanti episodi d'amore e d'odio, di lirici canti e di tragedie sanguinose, doveva essere stato testimone silenzioso quel Castello, nella corsa dei secoli!
Non molto lontano era il luogo del sacrificio di Pia dei Tolomei.
Riprendevo il cammino. Dopo altro bosco ed altra boscaglia raggiungevo, nella pianura, Castiglione della Pescaia, piccolo borgo sperduto, come una bianca isoletta, in quella estesa desolazione.
E stagni si vedevano ancora qua e là, uccelli acquatici, canali, alghe, viluppi di vipere, ranocchi e zanzare senza numero. Non mancavano, di tratto in tratto, nei brevi spazi di terreno coltivato, non case ma casupole, ma capanne, sulla soglia delle quali appariva, a destare non gioia ma pietà, la maremmana fanciulla.
Anche là, con i diritti del cuore, fioriva amore. In una di quelle capanne, come nella romantica fantasia, un appuntato intesseva, con una di quelle palustri bellezze, il dolce idillio.
Come quel graduato si trovava là? Passai oltre senza indagare. Certi sentimenti, nella loro santità e maestà, non debbono essere turbati.
Quell'appuntato, come seppi dopo, non stava là per inganno, ma per trarre dai miasmi quel fiore che vi era caduto.
Intanto la "Grande Proletaria", come cantava il poeta, si muoveva. Dopo la sconfitta di Adua, dovuta senza dubbio ad intrighi, a mancanza di discernimento, da parte dei capi civili e militari, pareva che ogni altra idea di conquista, nelle competizioni internazionali e nelle necessità nazionali, fosse caduta per sempre.
Viveva l'Italia, dopo Adua, inoperosa ed in mortificazione.
Le azioni, quindi, iniziate nel 1911, per l'occupazione della Tripolitania e della Cirenaica, spingeva, il volubile popolo italiano, ad entusiastiche manifestazioni. Adunate chiassose nelle piazze, bandiere al vento nelle case, fiaccolate nelle strade.
Tutti, dinanzi a questo improvviso risveglio, vedevano, commossi, tornare l'Italia, risolutamente, sulle vie di Roma.
Ogni uomo, valido alle armi, pareva che non volesse mancare alla gloriosa impresa. Anch'io, in relazione pure ai miei sentimenti, feci la mia calorosa domanda per parteciparvi. Non avevo risposta. Evidentemente non vi era particolare bisogno di combattenti.
Dopo non molto mi giungeva, invece, l'ordine di trasferimento da Grosseto ad Ascoli Piceno.


L'antica città di S. Emidio mi ricordava la famiglia della nonna, che da Ascoli derivava, ed il fratello padre Emidio, che vi era rimasto, quale provinciale, per qualche anno. Non mancavo di visitare, quando vi giunsi, religiosamente, il convento che lo aveva avuto capo, accolto dai religiosi con molto rispetto. Viva vi era ancora la fama della sua santità.
Vi conoscevo il pittore Augusto Mussini che, per i disinganni e gli affanni, patrimoni della povera vita, vestendo da francescano, vi s'era rifugiato.
Vi viveva però ancora inquieto. Era evidente che il saio non era stato sufficiente a dare pace al suo animo tormentato.
Città tranquilla Ascoli nelle sue torri, nelle sue chiese, nei suoi molti conventi; città che molto risentiva, nei suoi abitanti, nella sua antica nobiltà, la lunga soggezione al governo sacerdotale.


In quel tempo anche Ascoli viveva nell'entusiasmo della guerra che si combatteva, secondo quanto riferivano i corrispondenti di giornali, con grande ardimento. Talvolta a me pareva che quei corrispondenti, di classica educazione, molto esagerassero nel presentare modesti episodi con omeriche vive tinte. Come mi pareva che si esagerasse quando s'andava a ricevere alla stazione con bandiera e musica e s'accompagnava in città al canto di "Tripoli bel suol d'amore", non reggimenti vittoriosi, ma un qualche soldato, magari di sanità, che rientrava tranquillo al suo presidio.
Le azioni di penetrazione si svolgevano, sia pure con lentezza, in modo tale da lasciare bene sperare per il risultato finale.
Partecipavo alla sera alla tradizionale passeggiata nella bella piazza del Popolo, chiusa, in ogni parte, da artistiche e storiche costruzioni. Vi avvenivano scambi di sguardi e di sorrisi, con le graziose sognatrici.
Non tutte, veramente, graziose. Anche le non belle, d'altra parte, avevano diritto alla vita. Non fui con esse, in verità, e lo confesso con piacere, mai sgarbato.
Ne conobbi una pure ad Ascoli, in un modo un po' curioso. Un giorno un signore mi s'avvicino e, senza tanti preamboli, mi disse:
"Scusi, tenente. So che lei ha chiesto informazioni della signorina (e ne faceva il nome). Ottimo partito, essendo figlia unica, bella, ricca, virtuosa..."
Al mio diniego continuò:
"So come stanno le cose. Non ci pensi. La signorina in questo momento è a villeggiare, in una sua villa, a San Benedetto del Tronto. Essa domani, verso le ore sedici, sarà seduta in uno dei sedili dei nuovi giardini del mare. Sarà vestita di bianco, con un fazzoletto azzurro sulle spalle. Vada a conoscerla. Ne sarà contento. Io, essendo amico di famiglia, provvederò, dopo, al resto."
Non per bisogno ma per curiosità andai e vidi. Era ricca, poteva essere virtuosa, bella no davvero.
Altro simile caso m'ebbe a capitare a Chieti, dove ero stato di servizio, per qualche tempo. Non era stato questa volta ad interessarsene un estraneo, ma lo stesso padre della ninfa innamorata. Per pudore non ebbe a presentarsi a me, ma al maggiore mio superiore, per chiederne la cooperazione. Mi si doveva, in altre parole, dire che la sua giovane unica figlia si era accesa d'amore per me. Io, in verità, poiché molte donne mi guardavano, non avevo avvertito, in istrada, questa fiamma che ardeva per me. Il padre, ad ogni modo, che aveva avuto sul mio conto le migliori informazioni, assecondando il desiderio della figlia, erede per di più d'un ricco patrimonio, volentieri m'avrebbe eletto suo genero. E tutti i giorni, come vedevo io stesso, senza saperne il perché, visitava il maggiore, restio a parlarmene. Ma quando questi finalmente vi si decideva ne ridemmo insieme. Dopo pochi giorni tornavo ad Ascoli e così tutto finiva.



Nelle ansie della Patria


Pareva ormai, dominato gli eventi, che io dovessi pensare a me, ai casi miei. Anch'io avevo diritto, dopo tante lotte, dopo tante peripezie, ad un po' di pace.
Sentivo per, per gli affetti che s'agitavano in me, pungente più che mai il desiderio della famiglia, dell'unione con la donna gentile non ancora scoperta, ma che io sentivo viva nel cuore.
Ricevevo, nel frattempo, con sorpresa, la notizia da Napoli del ritorno dall'America, con moglie e cinque figli, del fratello Giuseppe. Tornava con lui pure la sorella Argira.
Non mi sarei dovuto interessare di quel ritorno. Quando però sapevo che i rimpatriati, da Vietri sul mare, si dirigevano verso Giffoni Vallepiana, l'amor fraterno mi spingeva ancora ad intervenire. Non sarebbero ad essi mancati, nella valle del Picentino, che nulla offriva, altre peripezie, altri guai.
Chiamavo, di conseguenza, Giuseppe a Teramo, e mi adoperavo affinché si concludesse con Federico una società, con quell'azienda già bene avviata.
La nave degli Adamoli, quindi, rimessa in assetto, navigava a vele spiegate, quando a turbare nuovamente il corso scoppiava, nel 1914, la guerra mondiale.
Da questa nuova guerra poteva l'Italia, se sapeva fare, trarre grandi vantaggi. Ma non tutti gli italiani, agitati da contrapposte tendenze, lo capivano. Ma contro i così detti neutralisti, dalla mente d'oca e dal cuore di coniglio, sorgevano gli interventisti, discendenti dagli eroi del risorgimento. Gli uni e gli altri ricorrevano a tutti i mezzi, e di stampa e di piazza, per far trionfare la propria tesi.
Dopo un regolare corso, sulle mitragliatrici, nella Scuola militare di Parma, ero trasferito da Ascoli Piceno al mio centro di mobilitazione di Torino.
Il Piemonte, fortemente neutralista, condotto dall'autorità di Giovanni Giolitti, non si riconosceva più nella sua gloriosa tradizione nazionale. Contro il popolaccio torvo e ringhioso, forse pagato, s'ergevano, però, a rialzare la bandiera della riscossa, ripiegata a San Martino, i cuori caldi e saldi degli studenti e dei forti veri italiani.
Non passava giorno che non avvenissero, tra i due gruppi, scontri, anche sanguinosi. E non soltanto in Piemonte. Ma la voce dell'Aedo italico, che s'elevava sdegnosa e poderosa dallo scoglio di Quarto prima, e dal sacro Campidoglio dopo, fustigando e fugando i vili, apriva, alle armate latine, la via alla marcia gloriosa.
Partivo da Torino, con il mio battaglione, mentre le agitazioni erano sempre vive, ai primi di maggio, diretto al fronte del Trentino.
Altro cuore, in verità, trovammo nei Veneti, che non avevano dimenticato il duro bastone austriaco, che guardavano, con animo fraterno, a Trento e a Trieste.


Il pensiero della patria da difendere, da rendere, con le altre rivendicazioni, più grande, faceva sospendere ogni altro desiderio.
Nella notte del fatidico 24 maggio, al comando, appunto, d'un reparto mitraglieri, vegliavo già nelle trincee di Marcai di Sopra, Altipiano di Asiago, con le armi pronte per il fuoco.
Il primo scambio di cannonate, nella notte agitata, svegliava, nella profonda commozione, le più belle speranze.
La guerra libica, condotta con intendimenti di conquista, era stata conclusa vittoriosamente. Non poteva la guerra, doppiamente santa, che s'iniziava in quel momento, non avere il suo glorioso epilogo.
Si doveva, nel nuovo conflitto, non solo completare l'unità, con la riconquista delle belle province che ancora gemevano sotto il bastone austriaco, ma doveva l'Italia, nella nuova storia, dar prova, nel consesso dei popoli, della sua guerriera e civile capacità.
Arduo il compito, ma che i nuovi combattenti, già schierati in armi, avrebbero saputo onorevolmente assolvere.
Io mentre vegliavo in ansia, nella notte oscura, non potevo non risalire, in relazione alla guerra, la storia, da quando le legioni di Roma, apportatrici di leggi e di civiltà, con spirito costruttivo, correvano vittoriosamente il mondo, a quando le orde barbariche, nei fatali ricorsi, con selvaggio animo demolitore, rotte le dighe, riuscivano a dilagare nel territorio sacro. E ripensavo ai secoli di sventure e di servaggio, al tanto sangue versato, ai tanti eroici sforzi compiuti, dagli avi gloriosi, per riconquistare la libertà, la nazionale unità. Ripensavo ai martiri, agli eroi di quegli sforzi, tra i quali si dovevano annoverare i forti parenti di Como e dell'Aquila.
Mi proponevo in quella guerra, nella quale, per la benignità del fato, anch'io partecipavo, se non vi cadevo subito, d'essere degno degli avi.
Ero lieto, quindi, quando, in seguito, potevo prender parte a combattimenti, ed azioni pericolosamente ardite, assecondato sempre, e con entusiasmo, dai miei bravi mitraglieri.
Una forte amarezza dovevo provare nella notte dal 15 al 16 agosto di quel primo anno. Nel cielo stellato splendeva, nel solenne silenzio, la più bella luna. Le truppe, dopo una violenta preparazione d'artiglieria, uscivano chete chete per attaccare le posizioni nemiche da conquistare. In ognuno vi era, in verità, entusiasmo, fervore, e qualche cosa si sarebbe fatto. Disgraziatamente, per colpa del 115. reggimento di fanteria, che andava all'assalto prima che ne ricevesse l'ordine, l'azione miseramente falliva.
Il nuovo giorno illuminava, non la vittoria, ma il reggimento distrutto, che giaceva nel sangue, dinanzi alle trincee del Basson, difese ferocemente dal nemico.
Passavano altri mesi. Dopo un notevole fortunato sbalzo in avanti in altro settore, vegliavo sulle alture del ponte di S. Colombano, tra i leni di Vallarsa e di Terragnolo, nei pressi di Rovereto. Nel mattino del 7 gennaio del 1916 uscivo, con una forte pattuglia, per riconoscere un terreno conquistato, e per l'eventuale occupazione d'un poggio, da dove il nemico molto ci molestava. Ad un tratto, quando eravamo bene innanzi, s'apriva su di noi un violento fuoco di fucileria. Cadevo colpito da una pallottola deformata.
Debbo qui ricordare, con gratitudine, il mio attendente sardo, Angelo Porqueddu. Non appena sapeva l'accaduto, dalla trincea, sotto il tiro degli austriaci, correva a me, con coperte e con il pacchetto di medicazione, per prodigarmi le prime cure.
Nella notte soltanto potei essere trasportato, in barella, e per sentieri difficili, con un largo squarcio nella coscia destra, in un ospedaletto da campo, quindi, con treno speciale, all'ospedale Mauriziano di Torino.
Il primo mio sangue, ciò che mi dava una certa superiorità su gli altri, era stato da me versato.
Si stava bene in quell'ospedale, così detto dei nobili, quantunque pure là l'area serena, che vi si respirava, fosse rotta dai lamenti dei feriti, provenienti dai diversi fronti di combattimento. I letti erano morbidi, ma abituati ormai a dormire su la dura terra, o su miseri giacigli, con gl'indivisibili compagni della povertà, vi si stava quasi a disagio.
La vita dei nostri progenitori non doveva essere, poi, così brutta, se noi, dell'età delle mollezze, ci eravamo bene adattati a vivere, nella trincea di morte, la stessa primitiva loro vita.
Rendevano la loro opera, in quell'ospedale, i migliori chirurghi, tra cui il ben noto professore Carle, ed un ordine di suore molto distinto. Si prodigavano a nostro favore con affetto davvero di sorelle. In un momento in cui pareva che nella mia ferita si dovesse sviluppare un'infezione, e la febbre saliva, una di esse rimaneva a me vicino anche di notte, con materna sollecitudine.
La sera ci facevano giungere, da una vicina cappella, i loro sacri canti, in cui si distingueva una limpida voce di soprano, che vivamente inteneriva i nostri già sensibili animi di guerra.
Anche i cittadini, che ci visitavano, si mostravano con noi affettuosamente premurosi.
Ci visitavano pure le autorità ed alti personaggi, tra cui Paolo Boselli, allora capo del governo, che ci esprimeva, per il nostro sacrificio, la gratitudine della patria.
Pur nelle nostre sofferenze non pareva, in fondo, tanto brutta la professione dell'eroe, specialmente quando a rendere omaggio al nostro valore si presentavano anche belle signore.
La donna, con il fascino della sua grazia, finisce sempre di rendere luce alla notte, gioia al dolore.
Tornavo a riprendere il mio posto al fronte, a mia domanda, dopo tre mesi, con la ferita ancora aperta, e tornavo al mio reparto, sull'Altipiano di Asiago, accoltovi festosamente.
In uno di quei giorni stavo ancora per rimanere vittima del mio troppo zelo. Uscito da solo dalla trincea m'ero spinto, per una ricognizione del terreno, sotto le posizioni del nemico, che bene vigilava. Ad un certo punto, per poter meglio vedere, salii su di un rialto. Guardando il forte del Lucerna, che stava in alto, a guardia della vallata, vidi da uno delle sue cupole in movimento uscire una bocca di cannone. Contro uomini isolati non si sparava, generalmente, con cannoni, quindi non me ne preoccupai. Udii, intanto, partire, vedendone la fumata e la fiammata, un colpo e udii il sibilo del proiettile, che correva proprio verso di me. Prima che me ne potessi rendere conto, per un tentativo di salvataggio, il proiettile rumorosamente arrivava, ma non mi colpiva. Penetrava, invece, nella parte bassa del rialto, sul quale io mi trovavo, e scoppiava. Con il terriccio, i sassi, le schegge, andai pure io in aria, per ricadere di sotto, come morto. Per un po' mi ritenni davvero spacciato e quel tanto di percezione, di vitalità che, disteso a terra, ancora avvertivo, l'attribuivo ad un indugio del mio spirito a prendere il volo verso il regno dell'eternità.
Ma neppure questa volta, protetto da qualche benigna deità, o dalla mia santa mamma, la mia anima se ne era andata.
Dopo un po' di tempo, quantunque molto contuso, mi potei rialzare e tornare, con meraviglia del nemico, se mi stava ancora a guardare, verso la nostra linea.
Per natura io non avevo paura, non temevo la morte, sempre allegramente sfidata; mi ci divertivo, quasi, a giuocare con essa. Non commettevo, però, le pazzie del maggiore Ermanno Razzetti, del 161. fanteria. Egli di giorno e di notte s'avvicinava da solo per insultare, con l'uso di un megafono, gli attoniti austriaci.
Un giorno volle condurre, in una di queste inutili bravure, con altri ufficiali, anche me, che già mi trovavo, con le mitragliatrici, in un posto avanzato. A mano a mano che ci avvicinavamo alle trincee nemiche gli ufficiali, che conoscevano le bizzarrie di quel maggiore e che non intendevano morire a quel modo, salutavano e tornavano indietro. Quando per la vicinanza dei reticolati non era più possibile di andare avanti, con lui eravamo rimasti io ed il tenente torinese Cane.
Dinanzi a tanta pazzesca audacia gli austriaci, a non più di quaranta metri, ci guardavano meravigliati, senza sparare. Ci dovevano considerare appunto o matti, degni di commiserazione, o disertori, in cerca d'un varco per passare dalla loro parte.
Non potendo andare più avanti, come la cosa più naturale di questo mondo, piegammo a destra, parallelamente al fronte, come per una pacifica ricognizione. Continuando nel cammino ci andammo a cacciare in una stretta, dalla quale, quando gli austriaci aprirono finalmente il fuoco su di noi, non sapevamo come uscirne. La nostra situazione, anche se protetti da alberi, non era davvero lieta. Quando vedemmo avanzare con i fucili spianati da un varco, nelle ombre della sera, che già calavano, una pattuglia nemica, per sottrarci alla cattura, poiché non avevamo neppure le armi per poterci in qualche modo difendere, rompemmo l'indugio. D'improvviso, con la sveltezza dei camosci, ci precipitammo giù per i dirupi, mentre i proiettili ci fischiavano rabbiosi attorno. E fummo salvi.
Tutti ci salvammo allora; ma il maggiore lasciava successivamente la vita in un'altra simile impresa.
Biasimo o lode? Il valore, comunque manifestato, va sempre rispettato ed ammirato. Insegna, se non altro, a sapere eroicamente morire.
Gli eroi rinfrancano i deboli e segnano, sulla via dell'affaticata vacillante umanità, i punti luminosi che avvicinano alla divinità.


Di quel giorno serbo un doloroso ricordo. Nel passare, nella nostra pazzesca marcia, in un posto avanzato, vi trovammo un aspirante diciannovenne, bel ragazzo, che vi era giunto il giorno innanzi. Ebbe un aspro rimprovero dal maggiore, poiché alle sue domande dimostrava di non essersi reso ancora conto del terreno, sul quale, con i suoi uomini, doveva vigilare, né della posizione del nemico. Pretesa che poteva avere il suo valore, ma pretesa anche esagerata, quando in quel posto non era consentito d'alzare neppure la testa.
Noi andammo avanti, quel giovane aspirante, toccato da quel rimprovero, voleva muoversi, quando una pallottola lo colpiva nelle vicinanze del cuore.
Quando rientrammo, trovammo quel bel ragazzo su una barella, che agonizzava. Nella notte moriva.
Sarebbe caduto in seguito? Forse. S'era in guerra. Sentivamo, però, che la sua ombra s'aggirava crucciata attorno a noi.


Vi era ancora tregua ai primi di maggio su quel fronte, ma non assoluta. Di giorno erano velivoli che giravano, senza sosta; di notte s'udivano rumori, si avvertiva l'ansia di un intenso lavorio.
Nel campo italiano, al contrario, nessuna attività, nessuna preoccupazione. La linea dei forti, le posizioni quasi imprendibili, pareva che tranquillizzassero, assicurassero i nostri alti comandi.
Evidentemente in quel momento non si rammentava che i mezzi, senza gli uomini che li animassero, non potevano aver valore. E di uomini là ve ne erano pochi.
Nella sera del cinque maggio, mentre cadeva una lenta pioggerella, il nemico apriva d'improvviso e concentrava su il settore di Milegrobe un vivo violento fuoco d'artiglieria, distruggendovi una intera compagnia.
La mia Sezione, che era a suo sostegno, si salvava per trovarsi indietro di circa duecento metri. Poteva così sbarrare la strada al nemico, nel suo tentativo di penetrare nelle nostre linee.
Il fatto doloroso doveva, senz'altro, scuotere e mettere in stato d'allarme; ma i nostri comandi non se ne preoccupavano ancora, né prestavano fede alle rivelazioni dei disertori, irredenti del Trentino e della Dalmazia.
Gli austriaci stavano per scatenare una grande offensiva, che chiamavano punitiva.
Non si poteva non trepidarne, considerando la situazione, davvero non lieta, in cui ci coglieva l'accorto nemico.
Al periodo di preparazione, che si faceva, a mano a mano, sempre più evidente, non tardava a seguire il periodo risolutivo.
In ogni nuovo giorno, nel mentre, con la rosea aurora, la natura si risvegliava fresca alla vita, riprendeva il nemico l'opera infernale di distruzione e di morte.
Nella notte del diciotto, poiché gli austriaci erano riusciti ad avanzare sull'Altipiano di Tonezza, giungeva a noi l'ordine per un lieve ripiegamento.
La Sezione mitraglieri da me comandata, aggregata in quei giorni alla brigata Ivrea, era ancora appostata presso la conca di Milegrobe. Nelle varie fasi era accorsa ove maggiore si manifestava il pericolo, lasciando ovunque, lungo l'aspra via, brandelli di carne viva.
Il giorno venti, nel mentre il bombardamento assumeva una spaventosa grandiosità, ricevevo ordine di raggiungere le truppe del colonnello Rossi Luigi, del 162., impegnate a morte a quota 1528 del Costesin. L'impresa si presentava ardua, ma quella Sezione, come dalla fatalità sospinta, non tentennava. Altri mitraglieri bagnavano con il sangue la sconvolta via, ma quando i proiettori illuminavano la notte tragica le armi fatate della Guardia fedele, cantando il terribile canto, falciavano sul Costesin le ubriache orde assalitrici.
Poi ogni cosa ricadeva nella tregua agitata. Tutto in apparenza posava e taceva, ma nelle ombre due razze palpitavano, due popoli vegliavano di fronte, con il loro secolare odio.
Con il nuovo giorno nuova tempesta di proiettili colpiva la difesa. Si sparava sulle deboli trincee e nelle retrovie financo con i 420. I soldati, tra i quali scoppiavano, erano maciullati, lanciati in aria a brandelli. Le gambe, le braccia, le teste nel ricadere s'impigliavano nei rami degli alberi, ove rimanevano penzoloni.
Talvolta si vedevano roteare nell'aria corpi interi, che nel ridiscendere si schiacciavano orrendamente al suolo.
Spettacolo macabro, da bolgia infernale, mai forse visto da occhi viventi.
Si rimaneva dinanzi ad esso come istupiditi, in attesa del fatale colpo, che ci doveva condurre via.
Anche se il proiettile non giungeva, ricadevano su di noi, con i brandelli di carne, che ci insanguinavano, terriccio, sassi, schegge di ogni grandezza, che ci producevano contusioni e ferite anche gravi e mortali.
In tutto questo finimondo un cuculo, imperterrito, da un boschetto faceva udire la sua voce, per incoraggiare alla resistenza.
Dopo l'alba del giorno ventuno, mentre la tempesta si spostava verso altri settori, grosse ondate tentavano di travolgere la difesa. Questa restava salda a quota 1528 del Costesin. Cedeva, invece, sulla sinistra, in modo che gli austriaci, con azione d'avvolgimento, potevano attaccare alle spalle i forti difensori.
Il momento si presentava in tutta la sua tragica gravità. Il più prode dei manipoli, il più eroico degli uomini, non avrebbero avuto altra alternativa o d'arrendersi o di morire, per sola affermazione di valore, senza speranza di salvezza. Ma mentre tutto crollava, le due mitragliatrici s'eressero terribili sulla propria potenza. L'una rimase di fronte; l'altra, manovrata da me, non essendovi tempo per dare ordini, si volse alle spalle. Avvenne la strage. Ma gli energumeni non sostavano. Una forza cieca, diabolica pareva che li spingesse al massacro. I caduti erano ricolmati, il terreno perduto riconquistato. Un cadetto eroico poteva giungere, da un camminamento, a minacciarmi alle spalle. Il cadetto, in una lotta a corpo a corpo, con uno dei miei, era sgozzato; le orde assalitrici falciate, ed il valore, infiammato dal santo diritto, trionfava sulla forza bruta. Il grido di vittoria echeggiava sul nemico sconfitto.
Stranezza del cuore umano! Fin che durava la strage ogni senso di pietà dormiva; nella tregua risorgevano umani sentimenti. Compassione per i feriti; dolore per i caduti; benevole accoglienza ai prigionieri. Era ancora vivo allora lo spirito di cavalleria. Si rendeva omaggio al valore del nemico; s'infioravano le loro sepolture.
Noi stessi c'inginocchiammo su quel cocuzzolo di sangue, dinanzi al giovane cadetto, che appariva più bello nella sua eroica morte. Cadetto al quale avrei voluto restituire la vita, quando lessi in una cartolina, scritta dalla mamma lontana, parole di tenera affettuosa speranza e d'amore.
Le autorità militari, a riconoscimento della nostra condotta, fregiavano sul campo di battaglia, me e i miei, caduti e superstiti, del nastro azzurro dei prodi.

 

Ma la guerra non finiva al Costesin. Dopo altri episodi, più o meno cruenti, nell'estate del successivo anno, mi trovavo, con il mio battaglione, nelle operazioni per la conquista della Bainsizza. Si poteva far crollare allora, se vi fossero state migliore preparazione e maggiore collaborazione tra le nostre armate, tutto il fronte dell'Isonzo, con la conseguente occupazione di Trieste.
Ci arrestammo, invece, dopo il magnifico sbalzo in avanti, quasi timorosi, alle spalle del nemico, dinanzi alla foresta di Chiapovano.
Le nostre condizioni non erano liete. Gli austriaci, se si riorganizzavano, potevano, da un momento all'altro, ricacciarci giù, o farci prigionieri, a loro piacimento. Non vi era poi acqua; gravi vi erano i disagi, in un terreno infetto. Molti gli ammalati. Io stesso un giorno dovetti essere ricoverato d'urgenza in un ospedaletto da campo, con febbre altissima.
In una di quelle notti, mentre deliravo su un giaciglio insanguinato, era ivi condotto un giovanissimo sottotenente, mortalmente ferito all'addome. Conservava, tra gli spasimi, piena lucidità di mente. Strappava molte lettere, che dovevano contenere segreti, forse d'amore: lettere che prendeva da una cassettina, che s'era fatta portare dall'attendente. Dava pacate istruzioni, allo stesso attendente, su quanto doveva fare, dopo la sua morte.
Io ero vivamente addolorato di non poter dare nessun aiuto, nessun conforto, in quell'ora solenne, al giovane eroe, poiché anch'io mi sentivo morire.
Poi egli si raccoglieva in sé, su un lato, invocando, tra penosi lamenti, il nome della mamma.
Entrava in agonia.
Un soldato, che indossava la stola, forse sacerdote, lo assisteva nel trapasso.
Anche quell'ufficiale, sepolto, nella fresca giovinezza, lassù, in un piccolo cimitero di guerra, mi è rimasto vivo nella memoria.


Quel che molti temevano non tardava, purtroppo, ad avverarsi. Gli austriaci, dinanzi alla nostra inoperosità, rafforzati da truppe scelte tedesche, nel successivo ottobre, ci attaccarono violentemente. Superate facilmente le gole di Caporetto, dilagarono nel basso. Non vi era un altro Mario a disfare, nella loro irruenza, quelle barbariche orde.
Quando giungeva anche a noi, d'improvviso, l'ordine d'abbandonare la Bainsizza, ero in pietose condizioni. Era stato già disposto il mio trasferimento, a mezzo di un'ambulanza, in un ospedale dell'interno. Non solo rifiutai d'andarvi, ma, nel nuovo pericolo, corsi a riprendere al battaglione il mio posto. Ne ebbi dal comandante un severo rimprovero. Secondo lui gli ammalati, in quelle contingenze, potevano procurare fastidio non aiuto.
Poteva aver ragione, ma non nel caso mio, con il mio temperamento. Mi reggevo, in verità, per le lunghe sofferenze, per il lungo digiuno, per le forti febbre, appena in piedi; ma il mio spirito era sempre saldo.
Ad essere rimasto al mio posto non poco il battaglione ebbe a guadagnarne. Usciva, quasi per mio merito, con onore dal generale disfacimento.
"Non un altro inverno in trincea", avevano urlato, con rauca voce, i nostrani rossi rinnegatori. I soldati, i prodi combattenti delle undici vittoriose battaglie, nell'urto improvviso, sotto la malefica influenza delle forze del male, s'erano lasciati travolgere, senza resistenza.
"La mancata resistenza di reparti della seconda armata vilmente ritiratasi senza combattere, e ignominiosamente arresisi al nemico, ha permesso alle forze austro-germaniche, di rompere la nostra ala sinistra sulla fronte Giulia. Gli sforzi valorosi delle altre truppe non sono riusciti ad impedire all'avversario di penetrare nel suolo della patria. La nostra linea ripiega. Secondo il piano stabilito, magazzini e depositi dei paesi sgomberati sono stati distrutti. Il valore dimostrato dai nostri soldati in tante memorabili battaglie combattute e vinte, durante due anni e mezzo di guerra, dà affidamento al Comando Supremo che anche questa volta l'esercito, al quale sono affidate l'onore e la salvezza del paese, saprà compiere il proprio dovere."
Tale l'ordine del giorno, che forse non risulta negli atti ufficiali, certo molto grave, diramato dal generale Cadorna, nella sua amarezza, ai comandi dipendenti.


Nel discendere dalla Bainsizza su l'Isonzo, la mattina del 25 ottobre, il disastro si presentava a noi nelle tinte più tragiche. Soldati d'ogni arma e d'ogni corpo, a migliaia, senza più armi, correvano affannosamente alla ricerca d'un ponte, per continuare, nella fuga vergognosa, verso l'interno.
Nessuno più udiva, nello sfacelo, l'ansia, la voce accorata della patria, in mortale pericolo.
Tutte le truppe, che discendevano sull'Isonzo dagli altri settori, erano, da quella torbida fiumana, proveniente da Caporetto, irrimediabilmente travolte. Non era travolto, anche un po' per mio merito, il mio battaglione. Non erano travolti gli altri battaglioni dei soldati dalle fiamme gialle, e vada il ricordo in loro onore, che ripiegavano dal Carso.
Nei pressi di Plava ero ferito da una scheggia di aeroplano ad un ginocchio. Mi medicai alla meglio e restai al mio posto.
Nella notte si faceva guardia sul monte Corado, ove gli artiglieri avevano abbandonato, senza sparare un colpo, cannoni e montagne di proiettili. Gli ufficiali dov'erano?
Nella stessa notte, nella veglia dolorosa, s'assisteva ad uno dei più infernali spettacoli, mai forse pensato da mente umana. Lungo la vallata dell'Isonzo, su per i monti, in ogni punto del Carso pietroso, vicino e lontano, con la distruzione dei depositi di munizioni e dei magazzini, non si vedeva che un solo gigantesco incendio. Gli scoppi delle granate, delle bombe, dei razzi e di altri simili luminosi e fragorosi ordigni, incendiavano, tra il fumo di fuoco, fantasticamente l'aria. Faceva pensare, quel turbinio di fiamme, a fuochi giganteschi d'artificio, di demonii in festa, in una vulcanica bolgia infernale.
In quello spettacolo tenebroso, nella notte di annientamento, s'udiva, nel basso, piangere l'Isonzo.
Anche noi, nel nuovo giorno, rimasti soli su quel monte, fummo costretti, sia pure con le armi in pugno, di continuare nel ripiegamento. Cercavamo, sulla nostra strada, un qualche comando, da cui ricevere ordini, ma comandi non se ne trovavano. Non vi erano più presidi, né posti di collegamento. Tutti, nel panico, erano in fuga: comandi altri e bassi, ufficiali e soldati. Soltanto noi, e lo dico non per vana gloria, ma per l'affermazione d'una sacra verità, ci tenevamo uniti, conservavamo le armi, prestavamo servizio, di nostra iniziativa, per salvare qualche cosa. Per salvare, se non altro, il nostro prestigio, l'onore delle armi italiane.
Noi dipendevamo dal 27. Corpo d'Armata, comandato dal generale Badoglio, scomparso pure lui, nella catastrofe.
A San Giovanni di Manzano, preso finalmente contatto con un comando militare, il battaglione aveva ordine d'unirsi ad altri tre battaglioni di fiamme gialle, giunti dal Carso, per costituire tutt'insieme, nella ritirata, una specie di retroguardia. Dovevano spingere, inoltre, di là del Tagliamento prima, di là del Piave dopo, tutti gli sbandati, che erano migliaia, pericolosi alle popolazioni civili, con il loro spirito di saccheggio.
Il compito era assunto ed eseguito con coraggioso zelo.
Non dirò dell'altro pietoso spettacolo della popolazione anch'essa, nella maggior parte in fuga. Le strade, chiuse già da carri e da cannoni abbandonati, ne erano pericolosamente ingombre. Ogni fuggiasco aveva con sé su le spalle i sacri penati, oggetti cari, fagotti rigonfi, bambini in pianto, vecchi invalidi, e menomati, e malati.
Nessuno voleva lasciare alle beffe, ai maltrattamenti del nemico, imbaldanzito, i propri cari.
Nel ripiegamento, oltre a tanti altri preziosi oggetti di carattere militare, raccogliemmo e scortammo sino a Conegliano la bandiera dell'84. reggimento fanteria.


In quanto a me mangiavo quel che capitava, anche polenta; bevevo e riacquistavo, a mano a mano, con la salute, tutte le mie forze. Sopportavo serenamente le sofferenze della ferita al ginocchio.
Il dolore della disfatta, che pareva irreparabile, m'aveva reso maggiormente aggressivo. Bastonavo gli sbandati, i vigliacchi, coloro che nulla sentivano della nostra sciagura. Non si sottraevano alla mia ira neppure gli ufficiali superiori.
Ma il Piave, doppiamente sacro, ove si ricostituiva il fronte, fece il miracolo di restituire al nostro soldato, con la sua commossa voce, la coscienza di sé, del suo antico valore. E contro la linea del fiume, benedetto, inutilmente s'avventarono le imbaldanzite armate teutoniche.
Dopo appena un anno, le ombre ch'erano discese fosche dal lugubre Caporetto ad avvolgere, penosamente, la nostra vita, svanivano nella luce che salì dalla gloria purissima di Vittorio Veneto.
La corsa, nella riscossa, divenne furiosa sulle disfatte armate nemiche, per raggiungere, oltre il terreno riconquistato, l'ultima agognata meta: Trieste.
Il sole, che nel più fatidico dei giorni volgeva al tramonto, dava ai cari colli, alla dolce città di San Giusto, già dal Carso in vista, con i tiepidi raggi del melanconico novembre, un aspetto che aveva del sacro. Il tripudio, la divina esaltazione dell'entrata nella città santa ci faceva vivere fuori della terra, in una vita di sogno.
E si tornava, nella vittoria luminosa, nella vita di pace.


Ero destinato, per il periodo dell'armistizio, con il grido di capitano e con la mia compagnia, nel non lontano borgo di Servola. Requisivo per alloggio, secondo gli usi di guerra, una stanza presso la casa d'un prussiano, ingegnere e direttore d'un alto forno, colà esistente. Vi ero all'inizio, e non poteva essere diversamente, appena tollerato. Con il mio contegno non tardavo, però, a svegliare in quella famiglia, in cui erano pure due signorine, sentimenti di simpatia.
Nei trattenimenti, nei quali ero poi ammesso, intervenivano germanici, austriaci, slavi. Non era difficile intuire quali sentimenti si agitassero, in quelle riunioni, nel cuore di ognuno.
Il tedesco, nel suo orgoglio, non poteva non considerare, con pena, la tremenda disfatta. L'austriaco, nel ricordo del passato glorioso, non poteva non piangere, con la terribile disfatta, su i superbi idoli infranti. Lo slavo, alla sua volta, non poteva non considerare l'inutilità del suo sacrificio, per una patria non sua.
L'italiano soltanto poteva gioire sulla gloriosa riscossa.
Questo nel segreto. Negli atti esterni nulla trapelava. Si suonava, si ballava, si cantava, si brindava nelle eterne finzioni, alla grandezza della patria di ciascuno.
Non era mancato neppure a Servola, come ornamento, il solito infiorato idillio, con la figlia maggiore della casa, che mi ospitava, Marta, dalla flessuosa alta persona, dai capelli d'oro. "Crini d'oro ed occhi azzurri", colori della predestinazione, secondo la leggenda.
Non era propriamente bella, Marta, ma era simpatica, intellettuale, colta.
Spesso ci davamo convegno nel giardino annesso alla villa, nel boschetto degli oleandri, ove si leggevano e si commentavano, con commosso animo, i migliori scrittori, i migliori poeti e tedeschi ed italiani. Poeti di fede e di disperazione; d'amore e di dolore, come il Petrarca, ed il Foscolo, il Gòethe ed il Leopardi.
Piace, pure, nel godimento, tormentare l'animo con i lirici lamenti.
Si facevano anche passeggiate romantiche sulle colline, coperte di ginestre; per la spiaggia, ombrosa di pini; sul mare, in barca bianca, su onde azzurre.
Non tardava la tranquilla nostra amicizia ad essere insidiata da altra signorina, già fidanzata, di famiglia austriaca, molto vivace, nella bruna bellezza. Cercava, con mille moine, d'attrarmi a sé, per far dispetto a Marta. Non ne conoscevo le ragioni. Io resistevo, validamente.
Una sera m'invitava, la sirena, scaltramente, d'accompagnarla in città, al cinematografo. Ero posto al bivio, ma, per non apparire scortese, andavo.
Non era tutto. Nel riaccompagnarla a casa, poiché avevo tenuto un contegno corretto, m'attirava, la notturna ninfa, entro il recinto della villa, ove abitava soltanto con il padre. M'attirava ancora, con dolce arte, dall'uno all'altro vialetto, entro i meandri fioriti, illuminati da un bel chiaro di luna.
Non so in quella notte quanto tempo restassi in quell'alcova di sogno, profumata di gelsomini.
Quando rientrai nella villa di Servola, ove Marta forse vegliava con l'animo teso, l'alba annunziava già ai mortali il sorgere vicino del giorno.
Nella confusione delle razze e dei sentimenti non soltanto la bella austriaca, ma anche un'avvenente giovane vedova slava sorgeva su la strada della buona Marta.
Vidi questa nuova ninfa d'amore, adorna di squisita grazia, dinanzi al cancello della sua villa, di ritorno, per la via dei colli, da Trieste a Servola. La rividi ancora la seconda sera, come se m'aspettasse. I nostri sguardi s'incrociarono, le nostre labbra s'aprirono ad un lieve sorriso. Nel turbamento non osai di più, ma con il sangue un po' caldo, ripassai alla stessa ora, la sera dopo, dinanzi a quella villa.
Era sempre là, la nuova amabile sirena, ad attendere. Entrai ed andammo, dolcemente, sotto il cielo stellato, nel canto della notte, lungo gli ombrosi viali, nella villa dai rossi ed azzurri salotti.


Lasciai la bella italianissima città dopo un anno, per raggiungere Chieti.
Contrasti eterni della vita!
Prima di Chieti ero stato a Genova, e vi avevo provato, in ordine alla guerra, una delle più forti delusioni.
In ogni razza e in ogni età vi sono i degeneri, quindi non potevano mancare neppure nella bella penisola. Degeneri che si rifugiavano, nell'ora degli ardimenti, con il capo coperto, nelle putridi cloache della viltà. Riuscivano alla luce, dopo la vittoria, non per esaltare, ma per deprimere gli eroi.
Una domenica vedevo io stesso, dolorosamente, avanzare dalla parte di Sampierdarena, con luride insegne, con biechi baffi, con rauchi canti, una lunga colonna, costituita, appunto, dai peggiori rifiuti delle umane fognature.
Dinanzi alle lapidi, ai monumenti, che ricordavano gloriose gesta, lanciavano, con i sassi, scomposti insulti. Qualche lapide, più luminosa, era pure infranta, tra satanici applausi.
Sciagurati! Non sapevano gli stolti che in Italia, terra di martiri, di santi, di eroi, finivano sempre di trionfare, con lo spirito, le sante idealità.
Dopo il breve smarrimento, i combattenti insorsero. Altre colonne ripercorsero l'Italia, con altra visione, con altre bandiere, con altri canti, per lavare l'onta, per riconsacrare la vittoria.
Ed il milite Ignoto poteva salire, mentre tutte le campane d'Italia suonavano a festa, e tutte le bandiere sventolavano gioiosamente al vento, su l'Altare sacro della patria redenta. E si entrava nella nuova luce dell'impero.



Nelle luci della vita


Fin da bambino, ripeto, avevo amato, quasi per istinto, i campi, la pace delle valli, dei boschi, delle solitudini: istinto che non mi aveva abbandonato nel crescere degli anni.
A Chieti, città situata sulla cima d'un colle, scelsi la mia abitazione alla periferia, da dove era in vista l'ampia vallata della Pescara, il fiume, i monti, il mare. A sera, dopo le fatiche del giorno, rimanevo a lungo al balcone a rimirare i paeselli e le cittadine, che ardevano nella propria illuminazione, di là dal fiume, vicino e lontano, come ardevano le stelle nel cielo profondo. Tutto appariva bello e gentile, ma dentro di me sentivo sempre più vivo il vuoto della mia casa e della mia vita. Era ormai tempo di rompere l'indugio. Nelle mie romantiche fantasticherie sognavo sempre, come ricompensa alle mie ansie e alle mie fatiche, una villetta solitaria, nel verde e nella pace dei campi.
Nelle mie ricerche riuscii, finalmente, a scoprire colei che doveva essere nella vita la mia compagna. La scoprii come condotta da una mano misteriosa, forse quella della mamma, nelle vicinanze di Teramo, in una villa color di rosa, dove viveva quasi nascosta, in attesa del suo destino. Educata anch'essa alle asprezze della sventura, possedeva non comuni doti di sensibilità, di serietà, di bontà. Era aperta, con la sua anima delicatissima, naturalmente al bene, al nobile, alla poesia. Contraria al movimento femminile progressista, che toglie alla donna la luce della sua vera missione, viveva quasi isolata, con la sola compagnia della fidata amica Irma Guerrieri. Viveva nei ricordi e nella tenerezza d'una cara speranza.
L'incontro avvenne nel giorno d'una festa cara. Giunsi alla casa silenzioso con l'ansia di un cavaliere errante, alla ricerca del castello intravvisto nel sogno. E teneri furono i racconti sulle nostre speranze, sulla storia delle nostre anime in pena, delle nostre anime in festa. Successivamente, in un fresco mattino di giugno, senza chiasso, senza corteo, ci presentammo dinanzi all'altare d'un Santuario, per completare, nel sacro rito, la nostra festa. Andammo, quindi, nel nostro volo a posarci su quel Vomero, coperto di aranci, dinanzi al quale si apriva, con la maestosa bellezza, l'ampia distesa del golfo incantevole. Vedevamo, nell'eterna poesia, le vele bianche andare come sogni, sui palpiti delle onde. Vedevamo uscire dal mare le isole brune, soggiorno di fate, e più lontano, con l bianco pennacchio, il mitico Vesuvio.
Rifacemmo, passo passo, religiosamente, la via già da altri fatti, nella serena gioia del roseo evento.
A Pompei, dopo visitato il grandioso Santuario, andammo su la città morta. Ammirammo nelle eleganti armoniche costruzioni l'artistico squisito senso dei nostri grandi avi. Restammo molto pensosi dinanzi alla giovinetta pietrificata dalla lava, dalla quale era stata avvolta nel sonno. Morbide erano le pieghe del corpo nudo, nel dolce riposo. Dovevano, forse, essere tornati a lei in sogno, nella gioiosa concezione pagana della vita, i godimenti del giorno avanti, i godimenti riservati, con i giovani guerrieri romani, per il giorno dopo. Ma il presente dio Vesuvio, ridestatosi ad un tratto, copriva con il suo manto di fuoco, con la gaia giovinezza, la città licenziosa. Poi andammo a Roma, ad elevare il nostro spirito nelle cose eterne. Dopo riprendemmo sereni la via del ritorno.


Da Chieti, dove per il momento ero rimasto solo, riaccendevo le relazioni con i parenti dell'Aquila, che spesso visitavo. Ero tornato all'Aquila, da dove ero partito bambino, con titoli che onoravano la memoria della fiera nonna e degli altri cari scomparsi. Avevo rivisto i luoghi del nostro passaggio, la scuola di S. Antonio da me frequentata, Vitoio con il suo fiume verde ed il suo laghetto, con commosso senso religioso. Non andai per allora a Tempera quasi temessi di rompere l'incanto che l'avvolgeva. La rividi, però, da un poggio non lontano. Rividi, in una tenue luce, la chiesa, le case, i dolci colli, il Vera sulle rive fresche del quale era stato seduto con la piccola Candida.
All'Aquila condussi pure, più tardi, la compagna buona, accolta con festosa simpatia dalla aristocratica parentela. Quelle visite erano ricambiate a Silvi, specialmente dalla famiglia Rizzacasa, che vi si recava, per la stagione balneare, con una corona di floridi bambini.


Nel febbraio del 1923, dopo la buona zia Ambrosina, moriva lo zio Aldobrando, figlio ultimo di Giuseppe di Narro e di Doralice Strina, sorella del patriota ingegnere Isidoro. La zia Maria Cristina era già morta nel convento delle recluse di Firenze.
Non aveva avuto questo zio, per le tante peripezie, una coltura adeguata al ceto cui apparteneva, ma aveva posseduto quelle altre qualità di rettitudine, di intelligenza, di sana operosità da renderlo stimato ed amato. Apparentemente burbero, ma buono nel fondo e generoso. Aveva saputo conservare, come una missione, senza macchie, quel posto, sul quale i nipoti dovevano sviluppare la loro ricostruzione.
La generazione, quindi, discendente da quella di Como, con le sue gioie e i suoi dolori, con le sue speranze e le sue delusioni, era con lo zio Aldobrando scomparsa. Subentrava ad essa, vigorosamente, la seconda generazione: la nostra generazione.
Anche verso questo zio, di conseguenza, deve rimanere viva, sentita la nostra affettuosa gratitudine.


Dall'unione di Giuseppe e di Federico, come era nella mia mente, esistevano già elementi da servire per conquistare nel felice cammino, nell'ordine commerciale ed industriale, un vero primato. Ma sul meglio, quando le attività si dovevano maggiormente allargare, sopraggiungevano i figli di Giuseppe a far dare a quel cammino una brusca svolta. Però, ad onore del vero, i due gruppi, che nella separazione ne derivarono, seppero proseguire, sulla buona via, con avveduta laboriosità.
Vincenzo, che era stato un entusiasta combattente, nel primo tempo aveva saputo trarre dal bene accreditato negozio, ereditato dallo zio, i migliori vantaggi. Anzi con una oculata attività, con la fabbricazione dei gabbioni, aveva saputo creare a Teramo una industria destinata al più largo sviluppo. Ad un certo momento, nonostante l'indole buona e gli onesti intendimenti, si smarriva. Però, e vada ciò in suo onore, faceva studiare i figli due dei quali potevano anche laurearsi.
In tal modo i suoi figli, unitamente a quelli di Federico, concorrevano ad elevare, pure nell'ordine della coltura, il nome degli Adamoli.



Oltre la meta


Nel marzo del 1928, in attesa della promozione a maggiore, ero trasferito da Chieti a Messina, nella bella città dello Stretto, vittima spesso delle ire degli dei infernali, abitatori della vicina vulcanica terra del fuoco.
Serbava ancora la città le tracce del terremoto, dal quale qualche anno prima era stata sconvolta nelle case, nelle strade, negli abitanti. Pur nelle macerie offriva sempre, nella perpetua primavera, la bellezza del suo mare, delle sue colline, dei suoi aranceti. Taorimina, lembo di cielo caduto in terra, cullata dal canto melodioso del mare, dai meravigliosi azzurri riflessi, che avvolgevano come una carezza la spiaggia, i poggi, le case, le persone, i pensieri. Meravigliosa pure per quel vasto teatro dalla fattura eterna, in cui si facevano rivivere, con le antiche opere e nelle forti passioni, i popoli grandi di Grecia e di Roma. Vi si faceva rivivere con l'immensa anima latina, con i sogni di dominio, il divino Cesare.
Proprio in quella città dell'infuocata Trinacria, avendo ormai assicurato la promozione agli alti gradi, ancora giovane d'età e colmo di speranze, chiesi ed ottenni il passaggio dal servizio attivo a quello ausiliario. Il fatto in sé semplice gettava ovunque, specialmente nel Corpo, sorpresa e rammarico.
Il piccolo di Rocciano, il ragazzo di Maddaloni, il bimbo di Oria aveva compiuto atti in pace e in guerra, che non sarebbero stati forse mai dimenticati nel tempo. Uno degli episodi di guerra, quello del Costesin, ad esempio, era stato riprodotto, per le future generazioni, in un grande quadro, conservato a Roma nel museo storico della Guardia di Finanza.
Nel lasciare il Corpo nel quale ero vissuto negli anni più belli e vi avevo sognato i sogni più lieti, molte lettere ricevevo di simpatia, di rammarico, di ammirazione. Il comandante tra l'altro mi scriveva:
"La fulgida prova di eroismo da Lei data in guerra e gli utili servizi sempre resi in pace, in pro dell'amministrazione stanno a dimostrare che la Patria potrà, in qualsiasi circostanza, fare su di Lei sicuro affidamento."
Ma fra le tante mi è caro riportare quella scritta con genuina semplicità dai sottufficiali che mi dipendevano:
"Non festa, né parole le potranno dimostrare in quest'ora non desiderata l'affetto, la stima, la perenne gratitudine dell'animo nostro, noi che abbiamo sempre apprezzato le di Lei esimie qualità di cuore, d'intelletto, di sapere.
Noi piangiamo il suo allontanamento perché sappiamo di perdere una persona di tempra adamantina, un saggio consigliere, una sicura guida, il patrocinatore della nostra bella divisa, la divisa del Finanziere italiano che Lei voleva vedere assurto a quella stima e dignità, di cui per le sue benemerenze ha sacrosanto diritto. Ed insegnava a noi, col valore della penna, con la fermezza, con la fede e la passione il culto ardente per la patria adorata. Per la patria, ma anche per l'esaltazione e l'onore del Corpo Ella ebbe a combattere da valoroso sui campi di battaglia: ebbe ad avere le carni dilaniate dal piombo nemico; ebbe ad avere sul campo l'insegna dei prodi."
Il colonnello Amos Meucci ch'era stato con me in guerra, in quei giorni tra l'altro, per un mio articolo, mi scriveva:
"Ti stringo fraternamente la mano in atto di piena solidarietà per la tua esauriente e nobile risposta alle Forze Armate.
Soltanto tu, che per me, e non soltanto per me, sei la medaglia d'oro virtuale del Corpo tra i viventi, avevi titoli per rispondere all'anonimo scrittore e di rispondere come hai risposto."
Sarei stato medaglia d'oro per l'azione luminosa del Costesin, con la quale salvavo le truppe del settore in disordinato ripiegamento, se i proponenti fossero stati più sereni nelle loro considerazioni. D'altra parte e ciò è pure umano, essi non potevano svalutare il valore di sé stessi e delle proprie truppe sbandate per esaltare il valore di uomini appartenenti ad altra arma, anche se eroi.
Il generale Murari Brà, comandante di quel settore, in una sua lettera tra l'altro non poteva non scrivermi:
"Coi fanti della Ivrea va indissolubilmente legato il ricordo della R. Guardia di finanza del 1. battaglione ed in ispecie di quegli eroici mitraglieri che si copersero di gloria.
Io li ricorderò con ammirazione i suoi eroici mitraglieri..."
Brevi cenni che valgono meglio ad illuminare una vita di lotta, di perseveranza, di sacrificio, di bontà per il raggiungimento degli alti umani ideali.


Da Messina mi ritirai, con la famiglia nei beni ereditati a Silvi dallo zio Aldobrando. Dedicavo là il tempo allo studio di cui conservavo la passione, all'agricoltura di cui avevo vivo l'amore. Vivevo nella pace dei campi con la mia compagna, vero angelo di bontà caduto, come benedizione del cielo, sulla riedificata casa. Con lei, dopo le tante lotte e i tanti affanni, la vita era entrata come in un'oasi di pace. Nei giorni sereni andavamo spesso a sedere dinanzi al mare, come due giovani in ansia d'amore. Portavamo con noi, nel nostro particolare stato di grazia, i poeti che più vivamente avevano fatto cantare la divina psiche, ma i libri rimanevano chiusi, poiché attorno e entro a noi era tutto un canto divino; canto nel mare, nelle stelle, nella nostra anima commossa.
Vivevamo così, in questo nostro poetico mondo, quando fui chiamato, in qualità di podestà, a capo del comune. Molti ebbero a parlare di tale nomina, esagerando magari i miei meriti. - Il Grido della Stirpe - giornale di New York tra l'altro scriveva:
"Tra le belle spiagge dell'Adriatico è da annoverarsi quella di Silvi, del quale comune è stato testé nominato podestà il maggiore Umberto Adamoli, ferito e decorato di guerra, presidente del Nastro Azzurro della provincia di Teramo. Parlare di lui, delle sue doti e dei suoi meriti significa fare cosa gradita a tutti meno che ad Umberto Adamoli per la sua innata modestia. Chi lo conobbe giovane quando moveva i primi passi sulla via del sapere e del dovere lo ritrova oggi quel che era allora nella stessa veste di bontà e semplicità.
Il nome del maggiore Adamoli è circondato da viva simpatia e per le virtù di prode combattente e per il profondo amor di patria. Elegante oratore, la sua eloquenza onesta e coscienziosa, infiammata da generosi impulsi, conquista a mano a mano l'animo di chi ascolta, e lo esalta e lo entusiasma. Egli porta nelle molteplici attività quello spirito vivo e sollecito, che è una delle brillanti caratteristiche del suo temperamento.
Siamo sicuri che Silvi, sotto la sua saggia operosità, camminerà speditamente verso il suo migliore avvenire."
E Silvi non si poteva lagnare della mia opera. Nella stessa prima notte gli abitanti mi potevano vedere a lottare da solo, su un tetto, con le fiamme che avvolgevano e divoravano un fabbricato.
Il segretario del Fascio, dott. Guido Bindi, per quel fatto mi scriveva:
"Mi permetta che prima di tutto esprima a Lei tutta la mia ammirazione nell'opera di salvataggio e di spegnimento in occasione dell'incendio della segheria di Di Credico. Oggi stesso mi sono recato a Silvi marina e ho raccolto dalla viva voce del popolo l'ammirazione per i suoi atti di vero valore, degni del soldato che in guerra si ebbe le più alte considerazioni."
M'ero esposto in verità un po' troppo. Il tetto sul quale mi trovavo per isolare il fuoco, con la sole cooperazione d'un ragazzo sedicenne, Edmondo Tamburri, era già in parte crollato. Rendeva maggiormente pericolosa la nostra fatica la corrente elettrica, che si sprigionava dai fili spezzati e ci investiva da ogni parte. La mia buona compagna mi seguiva nel pericolo senza dire una parola, senza fare un gesto di disperazione. Solo quando ridiscendevo, annerito e bruciacchiato, mi accoglieva con gli occhi umidi di lagrime.
S'iniziava in tal modo la mia opera di podestà con un atto d'ardimento nello spegnere un incendio. Opera che doveva finire molto più tardi a Teramo, nello spegnimento d'altro incendio, in altra segheria, nella notte ultima della mia carica di podestà. Casi strani e curiosi del vivere!


Rimanevo a Silvi per oltre tre anni. Provvedevo in tal tempo ad aprire e ad alberare strade, a fare e a incoraggiare costruzioni, a far funzionare enti d'assistenza. Istituii pure l'Asilo infantile, che mancava. Intendevo di fare di Silvi un comune modello, un soggiorno estivo di prim'ordine.
Anche i Caduti, quasi dimenticati, rivedevano la luce in un monumento, inalzato su mia iniziativa su una pubblica piazza.
Ma a questa mia attività, elogiata dagli stessi villeggianti che in ogni nuovo anno trovavano nuovi agi e nuove bellezze, guardavano con occhio torvo e perfido animo, rosi dall'invidia, tormentati dalle ambizioni, gli operatori del male. Nel mio sdegno, sia pure con molto rammarico, chiedevo ed ottenevo la sostituzione e mi ritiravo a Teramo.
Generale il dolore, specialmente nel popolo. Molte le lettere a me dirette. Di esse voglio trascrivere soltanto quella delle buone Suore dell'Asilo da me fondato. Dicevano:
"Le giunga gradito il nostro ricordo unito ai sensi della più sentita gratitudine anche da parte dei cari bambini, suoi protetti. Come immaginavamo, la sua partenza ha lasciato un grandissimo vuoto, che diventa sempre più sentito. Invano i bimbi l'attendono e fanno a gara per moltiplicare fioretti e preghiere, affinché il buon Dio voglia rimunerarlo di tutto e rendere prospera e felice la sua esistenza."
Così le buone Suore nel loro mistico dolore.

 

A Teramo tornavo a quel cantuccio di silenzio, già soggiorno di pace della mia compagna. Tornavo allo studio, al giornalismo, alla sana vita dei campi. Non il solito Cincinnato a spasso, ma uno che come il vero austero romano s'interessava della terra, che lavorava da sé il suo orto e il suo giardino. E nelle favorevoli stagioni rimanevamo, io e la buona compagna, come a Silvi dinanzi al mare, sino a tarda ora nel giardino in fiore, in tenero raccoglimento. Pareva talvolta una profanazione rompere, con la parola, il santo incanto. E quando nel cielo profondo vividamente palpitavano le stelle, o quando tra i rami verdi e gli alti rosai appariva la bianca luce della luna, pareva che l'anima si distaccasse da noi per andare ad unirsi alla divina anima universale. E si rimaneva a lungo muti, giudicando la vita bella come la giovinezza, la speranza, l'aurora.
Talvolta la cara sposa risaliva per diffondere attorno le notturne melodie del piano. Dopo si poteva pure parlare e parlavamo della nostra vita, sulla quale pareva che non dovessero mai sorgere nubi, mai operare col suo fluire il tempo.


A Silvi tornavamo al tempo del raccolto e tornavamo nella nostra campagna, che giaceva su un poggio solitario, ricco di vigneti e d'ulivi. Da lassù si vedeva da un lato, in alto, Silvi paese, con la sua chiesa dal bianco campanile; dall'altro lato, sotto, con i cipressi, il campo dell'eterno riposo, che dava alla contrada un non so che di mesto; avanti, nel basso, il mare, con le tenui vele in movimento. E buoi bianchi qua e là, tra il verde e il bruno dei campi; biancheria al sole; svolazzamento d'uccelli; canti lieti della villanella. Ovunque religiosa poesia.
Non avevano in casa i nostri buoni contadini né carta, né penna, né giornali, né libri. Non sapevano che farsene di questo tormentoso prodotto del civile vivere. Misuravano essi il tempo non dall'orologio ma, come gli antichi pastori, dal corso del sole, dal cammino delle stelle, dalla loro finissima percezione. Traevano oroscopi meteorologici e non sbagliavano dall'osservazione del cielo, dalla direzione del vento, dal movimento delle nubi, dal colore del mare, dal tramonto del sole.
S'alzavano ogni mattina con l'alba. Usciva per primo di casa, come un rito, con la pipa accesa, per scrutare il cielo e trarne le previsioni della giornata, il vecchio padre. Dopo a mano a mano uscivano, mentre la luce si diffondeva, gli altri per i lavori della stalla, dell'aia, dei campi. Usciva anche la giovane massaia per le cure del pollaio e per altre domestiche faccende. Seguivano i marmocchini, padroni della casa, idoli del nonno, seminudi, robusti, con un bel pezzo di pane che addentavano gustosamente. Uscivano più tardi i buoi per l'abbeverata, e le pecore per il pascolo. La feconda macchina in tal modo era messa in movimento.
Consumavano generalmente la colazione, il pranzo e la merenda, che la sollecita massaia portava loro in nitidi canestri con nitide tovaglie, in aperta campagna, all'ombra degli alberi, allegramente.
Dopo il tramonto, quando la sera cadeva muta sul gracidare dei ranocchi nel pantano, su l'urlare dell'allocco nel boschetto, su l'ululato del cane nell'aia la buona famigliuola, nella gioia del lavoro compiuto, si riuniva dinanzi alla casa per il riposo e per le conversazioni sacrali. Beata esistenza!


In questo tempo, precisamente nell'ottobre del 1935, s'iniziava l'altra gloriosa impresa nazionale, che si ricollegava direttamente con le antiche imprese latine. L'Italia aveva sano il clima, chiare le acque, perfetto il verde dei campi e l'azzurro del mare, ma aveva ristretto lo spazio, povero il suolo, numerosa la popolazione, che aumentava di anno in anno, prodigiosamente. I venticinque milioni del precedente secolo erano saliti a quarantacinque milioni e più. Gli italiani, contrari alle dottrine di Malthus, erano di conseguenza costretti, per lavorare e vivere, andare randagi per il mondo. Per toglierli da questa penosa condizione di inferiorità e di schiavitù, per cui quell'inglese un giorno, sul piroscafo del lago di Lugano, mi poteva rivolgere l'insulto di "pezzenti", si rendeva urgente un qualche forte atto. Le acque gonfie, per legge naturale, rompono le dighe e dilagano impetuose nello spazio.
Nell'impero abissino, ricco di beni ma povero di abitanti, che s'apriva dinanzi a noi come una terra promessa, potevano essere risolti tutti i nostri problemi di vita e di progresso. Non essendo stata possibile una pacifica intesa, le nostre armate rompevano gli indugi e le dighe e dilagavano verso i nuovi trionfi. La conquista avveniva con cesariana rapidità, e per essa, in un commovente infiammato slancio patriottico, tutto gli italiani ebbero ad offrire, e le fedi e i gioielli le donne. Con tali manifestazioni, l'Italia, che ritrovava se stessa, dimostrava ancora una volta la saldezza di quelle virtù, che non potevano essere deturpate dalla torva genia barbarica.
Il popolo teramano che ascoltava, nella piazza maggiore, sul tramonto del 9 maggio, la comunicazione ufficiale della vittoria, ne delirava. Strette di mano, abbracci calorosi, grida di gioia incontenibili. E delirava la scolaresca, adunata anch'essa su la piazza.
Care sante ore che forse per l'Italia non si ripeteranno più nei secoli.


Nel luglio del 1939 ebbi il piacere di visitare insieme ad altri combattenti la Germania. Trascrivo, su questo viaggio, alcuni brani del mio diario.
"La Germania appariva alla nostra osservazione perfetta in ogni ordine: nei campi ricchi d'acqua e di vegetazione; nei colli ricchi di ville, di rocche e di boschi; negli abitati ricchi di officine; nei fiumi ricchi di naviglio. Delle città: Norimberga ci appariva, nella notte di luna, mistica come un tempio; Monaco, nelle nuove e antiche costruzioni, nei segni del nuovo spirito, sacra nelle sue arche sante; Mandenburgo, nella dovizia dei fiori e delle case linde, fresca come una fanciulla; Francoforte, poderosa nei grandi empori. Ammirammo Berlino, la città dalle vaste proporzioni, che tutto raccoglieva e tutto possedeva, che per ognuno aveva il suo dono, per ogni canto la sua musica, per ogni desiderio la sua offerta.
Passammo da luogo a luogo in un entusiasmo crescente di tempesta, tra due ali, due fitte serre di mani elevate in aria. Avvenivano qua e là improvvisi straripamenti, festosi mescolamenti. La cordialità degli alleati faceva superare agevolmente le difficoltà della lingua.
Passando di contrada in contrada giungemmo a Coblenza, sul Reno. Credevamo di trovare nella piccola città un po' di tregua nelle feste. Vi trovammo, invece, accoglienze che forse superavano, per calore ed entusiasmo, tutte le altre. A Coblenza i combattenti della grande guerra, i veterani delle cento battaglie e dai molti anni rivivevano la giovinezza di Faust. Francoforte non era lontano. Il prodigio avveniva nei giardini di Weindorf per magia del suo Burgermeister, del simpatico allegro Jupp Florhr. E le ebbrezze che salivano dai profumi dei fiori e del vino, dagli eccitamenti della musica, ponevano tra noi ed il passato gli effetti dell'acqua di Lete. Nessun torto quindi agli affetti lontani. Gli scherzi, i giuochi, le danze si susseguivano, con spensierata gioia, con le tante Margherite della gentile Coblenza. Ma purtroppo il perfido gallo, con il suo canto e la luce bianca dell'alba faceva cadere l'incanto che sosteneva la finta giovinezza.
Lasciammo poco dopo Coblenza con il rammarico di non aver potuto arrestare l'attimo fuggente, ma con il conforto di vedere tutto il suo popolo, in un commovente delirio, a salutarci alla partenza. Ma subito dopo altro mondo di bellezza s'apriva dinanzi a noi. Si percorreva il Reno, colmo di leggende, soffuso di mestizia, con l'animo intenerito. Non vi era casa, non vi era torre sulle due rive su cui non sventolassero fiammanti bandiere. Non vi era abitato, piccolo e grande che non ci inviasse, con sale di bombarde, il festoso saluto.
Quando lungo il cammino la banda della Gioventù italiana, che ci accompagnava, intonava lento e solenne il magico inno tedesco, avveniva qualche cosa che aveva del sovrumano. La vita, toccata dal divino, pareva che s'arrestasse. Fermo era il naviglio sul Reno, fermi gli uomini sulle strade, sulle terrazze, sui colli: fermi e rigidi sull'attenti, nel saluto romano. Fermo ogni movimento, anche d'uccelli, come per magia. Le note ed il canto dell'inno prodigioso mutavano la vita in un sogno magico."


Sospendo il diario e riprendo la narrazione. Nello stesso anno 1939 s'affidava a me, per superiore benevolenza, le sorti del comune di Teramo. In tal modo, nello svolgimento delle vicende umane, il ragazzo di Rocciano, che aveva scorazzato per i valloncelli, su per i colli, lungo il Tordino, con i coetanei contadinelli, saliva le scale di quel palazzo che egli aveva rimirato allora e considerato come un santuario, ove ufficiassero misteriosi, austeri, solenni sacerdoti.
Molti, come consuetudine, esprimevano a voce e per iscritto il loro compiacimento. Il giornale "Il Popolo di Roma" tanto per fare qualche citazione, scriveva:
"Con recentissimo decreto del Prefetto della provincia, in attesa della nomina a Podestà, il maggiore Umberto Adamoli è stato nominato Commissario per il comune di Teramo.
La notizia ha prodotto in città profonda impressione di simpatia e di compiacimenti perché tutti conoscono e apprezzano altamente Umberto Adamoli, figura adamantina di soldato, di amministratore pubblico e di cittadino esemplare.
La sua ambizione alle armi lo ha portato a raggiungere il grado di maggiore nella Guardia di Finanza e durante la guerra è stato soldato rude, infaticabile, valoroso. E' decorato di medaglia d'argento al valore militare. In congedo ha consacrato il suo lavoro ad una complessa attività. E' presidente della Confederazione dei Combattenti, del Nastro Azzurro, dei Mitraglieri ed è da qualche anno dirigente dell'Ente comunale d'assistenza.
Come nell'espletamento delle varie attribuzioni inerenti all'attività militare, così in quelle civiche la sua fervida rettilinea azione è stata sempre improntata ad alto spirito di civismo.
E' stato Podestà di Silvi ed ha ricoperto e copre cariche, dimostrando di essere amministratore saggio, preciso, scrupoloso, esperto.
Per il suo ingegno duttile e fecondo e per la passione che egli pone in ogni cosa, il maggiore Adamoli ha dato alle stampe varie interessanti pubblicazioni, dimostrando di essere scrittore garbato e misurato ed un conferenziere agile, disinvolto e convincente.
Animato da spirito costruttivo egli proseguirà nel fervore per compiere quelle opere pubbliche, che accresceranno lustro e decoro alla città di Teramo."
Anche in America, e non so da chi, se ne volle parlare. "Il Popolo Italiano" ad esempio scriveva:
"E' qui giunta la notizia che il cav. Umberto Adamoli, valoroso reduce della guerra di redenzione e brillante giornalista, del quale abbiamo spesso pubblicato articoli nel nostro giornale, è stato nominato Podestà del comune di Teramo.
I nativi di Teramo, qui residenti, che costituiscono uno dei nuclei più importanti della comunità abruzzese residente in questa città, che ricordano con affetto il cav. Adamoli, hanno appreso la notizia della nomina con vero compiacimento.
Anche noi ci associamo alla gioia legittima dei suoi concittadini, formulando auguri di nuova feconda operosità e di nuovi successi."
Non ne trascrivo altre di queste lettere. La troppa fiducia e le troppe lodi potrebbero finire di diminuire il modesto valore dei miei meriti. S'iniziava così il nuovo lavoro, e per natura e per impegno, con i più forti propositi. Lavoro non lieve davvero per i soprusi da eliminare, per il disordine, anche amministrativo, da sanare, per gli abusi ben radicati da estirpare.
In un anno, con i provvedimenti molto severi, ogni cosa era messa a posto: sanato il bilancio nel suo grave disavanzo; disciplinata nelle funzioni la vita degli impiegati; restituito ordine alla confusa vita cittadina; iniziati in conformità del programma i lavori, dai quali Teramo, arricchendosi di nuove opere, ne sarebbe dovuta risultare trasformata nelle strade, nelle piazze, negli edifici.
La città vi aveva guadagnato, senza dubbio, ma vi aveva scapitato la tranquillità della famiglia. Uscivo di casa, ogni giorno, poco dopo il levare del sole e vi tornavo soltanto per consumarvi i pasti. Volevo essere sempre presente a tutti gli impegni, di ogni ordine. Di largo conforto erano le ore che trascorrevo all'Ente d'assistenza ad ascoltare, a lenire le pene del popolo misero, malato, sofferente; le ore che trascorrevo tra la purezza, la gaiezza dei bambini dell'Asilo, che si stringevano a me come alle loro madri, festosamente. Asilo da me creato quasi dal nulla. Cari bambini, gioiosi e innocenti ora, quale sarebbe stato nel crescere il loro avvenire? Molti sarebbero caduti, forse, sulla via della vita, innanzi tempo; altri, nelle alterne vicende, non avrebbero superato la comune sorte di poche gioie e di molti dolori; altri, crescendo, non sarebbero sfuggiti, come fatalità, agli oscuri atavici istinti; qualche altro, magari per propri meriti, si sarebbe elevato molto in alto. Formulavo per essi ad ogni modo, nel carezzarli, i migliori auguri.


Non è che non si trascorressero in casa con la buona compagna, ore liete. Trovavamo sempre il modo di dedicare al santuario degli umani affetti i canti tenerissimi del nostro cuore. Ripetevamo nelle limpide sere di stelle, nel giardino in fiore, i discorsi colmi di gentilezza e di poesia. La nostra casa continuava ad essere visitata dai pochi amici, che vi trovavano sempre serena cordialità. La mia cara sposa pareva divenuta, nella nuova condizione, più mite, più modesta. Nelle pubbliche cerimonie mentre le altre signore, ne avessero o non ne avessero diritto, andavano a occupare, nella loro vanità, i posti di prima fila, lei, quando vi interveniva, non per disdegno ma per spontaneo impulso del suo animo, si metteva tra la comunità. A teatro, nonostante le mie sollecitazioni, voleva rimanere in fondo al palco, quasi non vista. Occupava il primo posto, ma senza ostentazione, nelle opere di bontà, di carità. A simiglianza di mia madre, accorreva su la strada a rialzare il caduto; nessun bussava invano alla porta di casa.
Ma la buona podestessa se nulla ambiva per sé amava, però, di vedere esaltata l'opera dello sposo, per il quale solo viveva. E gli era con la sua intelligenza svegliatissima, con la sua cultura, con la sua saggezza, provvida di consigli.
Qualche lavoro era stato condotto avanti o completato, come l'isolamento del Duomo, sogno secolare dei teramani, essendo stato liberato da tutte le casupole che ne nascondevano la monumentale bellezza. Ed era stato scoperto in parte l'importante teatro romano ed erano state demolite molte case vecchie e cadenti, che pesavano come un peccato sulla città. Nelle frazioni erano stati costruiti nuovi edifici scolastici, nuovi cimiteri, aperte nuove strade quando la nuova guerra, che sconvolgeva il mondo, giungeva a limitare prima e far sospendere dopo tanta fortunata proficua operosità. Intanto, a riconoscimento di quel poco che avevo fatto in una anno, di Motu Proprio Sovrano, ero insignito dell'onorificenza di commendatore dell'Ordine della Corona d'Italia.
La guerra che nel frattempo s'allargava, che coinvolgeva nei suoi vortici pure l'Italia, mi chiamava al disimpegno di altre opere, specialmente a favore degli sfollati, che giungevano a migliaia, con la loro miseria e i loro dolori, dalle città sconvolte dagli inumani bombardamenti.
Anche dopo la caduta del fascismo, il 25 luglio 1943, per dovere civico, per desiderio delle autorità, per concorde volere della cittadinanza tutta, rimanevo al mio posto. Non nascondo però che la caduta di quel regime m'aveva molto turbato.
Durante il tempo trascorso alle armi, scrupoloso osservatore delle leggi, non mi ero interessato di partiti. Quando tornavo alla vita civile, padrone di me e delle mie azioni, sceglievo nell'ordine politico la mia via, e sceglievo il fascismo. Sceglievo il fascismo perché il fascismo, nello spirito di Roma e nella luce di Vittorio Veneto, aveva osato coraggiosamente di elevare la sua sdegnosa protesta contro coloro che, in un perfido egoismo, mettevano l'Italia in un ingiusto stato di umiliante inferiorità.
Sceglievo il fascismo, e con ciò non intendo farne l'apologia ma riconoscere soltanto una verità, perché il fascismo era sorto e insorto, generosamente, contro la livida marea, come quella di Genova, che saliva a travolgere, nella sua abiezione, i prodi tornati dagli insanguinati campi di battaglia, carichi di cicatrici, di mutilazioni, di gloria.
Non potevo, quindi, dinanzi al suo crollo non restare pensoso. Prima di fascista però ero italiano. Quando i tedeschi, per effetto dell'armistizio, concordato dal nuovo governo, presieduto dall'ambiguo Pietro Badoglio, occupavano la città non più da amici, assecondando ancora il generale desiderio, rimanevo a quel posto divenuto, con i nuovi eventi, colmo di gravi pericoli.
I tedeschi giungevano a Teramo feroci, non soltanto per l'armistizio, ma anche per le bande che vi si erano costituite e rifugiate sulla montagna.
Non ripeterò qui le vicende di quel periodo molto nero, essendo state esse narrate, nei particolari, nel mio libro "Nel turbinio d'una tempesta".
Dalle bande della montagna, ad esempio, tanto per citare un solo caso, era stato ucciso un maggiore medico, caduto nelle loro mani. I tedeschi, come loro costume e come leggi di guerra, chiedevano, per la rappresaglia, cento cittadini. Chiedevano inoltre l'immediato scioglimento di quelle bande, se si voleva evitare la distruzione della città. Momento tragico da vincere, da deprimere la più forte tempra. Quando, dopo tre ore di discussione, che avevo nel mio gabinetto con tre ufficiali, m'accorgevo, con sgomento, che i tedeschi rimanevano irremovibili nelle loro richieste e nei loro propositi, giungevo all'offerta ultima: offrivo, per tutti, al sacrificio di sangue, la mia vita.
Gesto da leggenda, senza dubbio, ma non ne avevo considerato tutte le dolorose conseguenze che ne potevano derivare se l'evento, come era probabile, si fosse avverato.
Ero tornato a casa quella stessa sera tranquilla, sereno, scherzoso; ma nel trovarmi dinanzi alla buona compagna, ignara di tutto, un senso di profonda tenerezza m'invadeva. Le leggi di guerra, specialmente per i tedeschi, erano inesorabili. La montagna, con l'uccisione a tradimento del maggiore medico, già aveva compiuto un atto insensato, stupido, vile. Non sapevo come la quistione sarebbe stata definita dai tedeschi anche nei miei riguardi. Poi, con gli istinti sanguinari dei nuovi eroi del bosco Martese, altri simili fatti si dovevano attendere. Quindi, se mi salvavo per quella volta, non mi sarei potuto in seguito più salvare. Comunque, in quel frangente, la mia vita si doveva ritenere attaccata ad un filo sottilissimo che da un momento all'altro, spezzandosi, mi poteva far precipitare nel baratro della notte, non più rischiarata dalla luce del giorno. Un senso di pietà m'invadeva, non per me, ché bello mi pareva morire per un fine che m'avvicinava ai martiri delle più pure umane idealità; ma pietà per la mia compagna che sarebbe rimasta sola, senza protezione, in uno dei momenti più difficili della terribile bufera. Un qualche mattino sarei uscito di casa, sereno come sempre, e non vi avrei fatto più ritorno. Per qualche altro atto sciagurato, dopo un giudizio sommario, i tedeschi m'avrebbero senza dubbio condotto dietro qualche muro, per l'ultima festa. A casa cosa sarebbe accaduto? Potevo pensarlo anche per ciò che poco dopo ebbe a succedere.
Un usciere del comune, in uno di quei giorni, si presentava erroneamente a casa per chiedere la mia divisa d'ufficiale. La divisa, perché? Dopo una certa reticenza faceva capire che la divisa serviva per vestire il colonnello, che era morto. Morto! Dopo non molto vedevo precipitare nel mio ufficio, così come stava per la casa, con i capelli sciolti, senza lagrime, senza parola, senza fiato la cara sposa. Rimaneva a lungo, quasi svenuta, tra le mie braccia. Ritenni allora d'unire, ad ogni buon fine, alle mie ultime volontà, la seguente lettera:
"Carissima, a te sono note anche nei particolari le vicende della mia vita, circonfusa, nel suo corso, di luci e d'ombre. Più d'una volta, nel mio cammino faticoso, sono giunto, ancora fresco d'anni e di speranze, su i limiti del misterioso regno dell'eternità e ne ho sentito, ne ho visto quasi con lo spirito i punti oscuri, ma anche i punti illuminati da divina luce. Non ho mai tremato, non mi sono mai turbato dinanzi al fatal ultimo passo. Anche il morire è un dovere, al quale bisogna ubbidire serenamente.
Tu lo ignori poiché, per il senso di pietà, nessuno ha osato parlartene, me in questo momento, quasi per la mia volontà, per tener fede ai miei principi, per rimanere al mio posto d'onore e di lotta, la voragine senza fondo è di nuovo aperta sul mio cammino. Io volendo potrei scansarla, ma allora non sarei più io, non sarei più degno di te e dei fieri avi.
Neppure io te ne ho parlato per non aumentare le tue pene. Non ti ho mai detto che in questo turbinoso periodo mi potevi vedere uscire di casa, allegro come sempre e scherzoso, senza vedere il mio ritorno. Tante volte m'hai colto pensieroso, mi hai sorpreso a guardarti con occhi umidi. Tu preoccupata ne volevi sapere le ragioni.
- E' perché ti voglio bene, tanto bene - pronto ti rispondevo.
Ero mesto, è vero, perché ti volevo, ti voglio tanto bene, mio angelo. Nel considerare il mio caso mi attraversava penosamente l'anima la tua soave figura, colpita con la mia eventuale scomparsa dalla più grande delle sventure. Può darsi, e lo spero, che il destino non sia tanto feroce con noi; ma può anche darsi che, con il precipitare degli eventi, il dramma si sciolga in tragedia di sangue. Allora? Per l'amore che ha fuso armoniosamente le nostre anime penso, se ciò avvenisse, quel che in te potrebbe accadere. Ma penso pure che forte è la tua fede. Penso, e ciò molto mi conforta, che questa fede, i consigli della religione, la dolcezza della preghiera, la luminosa speranza del futuro godimento, dopo l'aspro terreno cammino, ti potrebbero indurre a chinare rassegnato il capo.
Dovresti, comunque, considerare i ventiquattro anni di felice unione come un'infiorata oasi, nel cammino non sempre lieto della vita. Resteresti nel tuo solitario eremo di nuovo con la sola compagnia della fedele amica, ma con la visione cara di colui che ebbe ad illuminare, con la luce del più profondo affetto, la tua casa silenziosa. Io non dico, se saresti di me orbata, di far festa. No. Ma ti dovresti creare quel nuovo mondo morale e spirituale che ti consentirebbe di vivere con una certa serenità, nelle memorie sante del passato.
Per quanto l'uomo si sia affaticato, non è stato possibile ancora a lui di svelare il mistero, dal quale è circondato. Può darsi, come è comune credenza, che lo spirito possa tornare, non visto tra le domestiche pareti. In questo caso io sarei sempre a te dolcemente vicino. Non dovresti, quindi, molto piangere sulla mia perdita, per non tenermi in una continua afflizione. Anzi dovresti continuare nelle serene abitudini e mi dovresti parlare come se io stessi, come potrei stare, ad ascoltarti. Dovresti ancora suonare, ripetere quelle melodie che tanto mi intenerivano: melodie che mi potrebbero ancora una volta far sentire le bellezze del paradiso.
Ma nulla mi capiterà, lo sento. Dopo la bufera torneranno a rifiorire, nel nostro giardino assolato, i fiori più belli, dal profumo più delicato. Ma se non fosse così non disperare. Io sarei a te vicino nella memoria e nel cuore, per ripetere nella notte senza astri, il canto melodioso della nostra vita bella. Dopo, come è comune destino, anche tu un giorno mi verresti a raggiungere nella pace della tomba santa, nel silenzio eterno del tempo."

 

Sopravvivevo, ma quante peripezie, quante trepidazioni per la mia città, per i miei concittadini. La mia compagna restava pure lei al suo posto, come un soldato, e concorreva a lenire, con la sua bontà, le sofferenze altrui. Più volte, nei bombardamenti, la morte aveva sfiorato la nostra vita. Memorabile la incursione del 4 ottobre, giorno di S. Francesco. Da poco il sole aveva superato il mezzogiorno quando s'udiva d'improvviso rumore d'aeroplani. Giungevano su di noi dalla Specola, come fulmini, facendo cadere qua e là una pioggia di bombe. La nostra casa non era colpita, ma aveva, con rotture di vetri e larghe lesioni, sussulti di terremoto.
Anche dopo di ciò la cara compagna non si volle muovere, non volle accettare un rifugio lontano e sicuro. Anzi volle venire entro la città per meglio dividere con me le ansie, i disagi, i pericoli della tragica ora.
La notizia della mia offerta, che non tardava a diffondersi, produceva ovunque commossa ammirazione. Si capiva che con un simile Podestà la città poteva vivere tranquilla. Molte furono, nel sentimento caldo di gratitudine, le promesse di riconoscimenti, di adeguate ricompense. Io non vi facevo caso. Ma mi turbava il pensiero, se riuscivo a salvare la vita, di quelle future pubbliche manifestazioni. Un senso di commosso sgomento m'invadeva nel fantasticare l'adunata e i discorsi alati e gli applausi che si sarebbero sollevati, come uragano, dal popolo intenerito.
Quanta pietà, quanta gratitudine, quanto amore mi avrebbero dimostrato i miei generosi concittadini!
Povero ingenuo fanciullone! Nonostante le dure traversie, gli amari disinganni, le amarissime esperienze non avevo ancora capito, non avevo ancora penetrato gli oscuri meandri del torbido umano animo.
Il giorno della così detta liberazione, che trovava integra la città, giungeva; ma giungevano pure, dopo le promesse, i perfidi rinnegamenti. Tranne rare nobili eccezioni, nessuno più ricordava la mia persona e la mia opera. Per carità del luogo natio è meglio non parlarne. Non posso però non rammentare che mentre i banditi occupavano impunemente la mia casa, io non riuscivo, una volta in strada, a trovare un qualsiasi rifugio. Tutti mi negavano, anche una sola stanza, inesorabilmente. Il buon fratello Federico mi aveva offerto ospitalità, ma essendo la sua casa piccola, grave era il disagio per tutti. Gli altri parenti, rientrati dallo sfollamento, nulla erano disposti a dare. Chi poteva concedere qualche cosa, con un egoismo imperdonabile, duro aveva il cuore. Passammo il Natale, come su le Alpi, in un soffitto, sotto un tetto coperto di neve. Da lassù udivamo sotto, nel fervore della festa, nello sfolgorio delle luci, nelle sale bene riscaldate, nelle tavole bene imbandite, il chiasso del godimento. Udivamo sotto far festa, mentre noi guardavamo, nel freddo, il caminetto senza fuoco; nella fame, la tavola senza pane.
La benevolenza altrui cade, ed è sacrosanto assioma, con il cadere della fortuna.
Ma quella momentanea miseria, che poteva ricordare qualche momento del tempo lontano, non ci deprimeva, anzi infondeva a noi, nella luce dello spirito, nuovo vigore, nuove speranze.



Pellegrinaggio mistico


Con il mio ritiro, in forza dei nuovi sciagurati eventi, cessava quel nome di Podestà storicamente italiano, sostituito dall'altro nome, senza significato e senza prestigio, di Sindaco, già in altri tempi in uso, preso in prestito da altri popoli. Anche nei nomi, armoniosamente italiani, i piccoli cervelli facevano entrare la politica e il piccolo loro animo.
Nella quiete del mio ritiro, adunque, nel silenzio della mia casa, quando potei rioccuparla, negli affetti della mia cara compagna, m'abbandonavo alle or meste, or liete ricordanze, con vicende di romanzo.
Mi rivedevo bambino, sulle rive del Tordino, quando muovevo nella vita, in una tenue rosea nebbia, i primi passi, e non vedevo intorno a me che gli altri fratellini e la mamma, che, felice, accompagnava con il canto il disbrigo delle domestiche faccende.
Un giorno, spinto dalla nostalgia, volli rivedere l'antica dimora. Condussi con me, nel mistico pellegrinaggio, come omaggio alla memoria degli avi, due figli laureati di Federico: Giovanni e Concetta.-
Partimmo da Teramo, quasi per umiltà, a piedi, in una fresca mattinata di maggio. A mano a mano che mi avvicinavo al luogo a me caro un intenerimento, che i nipoti non potevano comprendere, s'impossessava del mio animo. Al termine della Gattiglia, sul confine di quel ch'era stato il nostro piccolo mondo, una gradita sorpresa ci attendeva. Da un valloncello, con mormorio d'acqua, ci giungeva, come saluto, da una boscaglia, il canto d'un usignuolo. Ci sedemmo per ascoltarlo sul ponticello, che traversava il fosso, sotto il quale scorreva l'acqua. L'usignuolo, sempre cantando, a mano a mano scendeva verso il basso, si avvicinava a noi, senza paura, come si ci volesse raccontare la sua storia d'amore. I gorgheggi, che divenivano sempre più armoniosamente modulati, pareva che uscissero da un'anima in pena. Restammo lungo tempo ad ascoltarlo, in raccoglimento. Poi riprendemmo il cammino.
Salimmo alla Forchetta, dinanzi alla quale s'apriva un magnifico panorama. Teramo si vedeva laggiù, in fondo alla vallata, dove si perdeva, nel suo corso, il Tordino tortuoso. Si vedeva la città tranquilla nelle sue case bianche, nelle nuove costruzioni, nelle chiese monumentali, nel bel campanile del Duomo. E si vedevano le case, i paeselli sparsi dal piano alla montagna, che emergevano, nel loro silenzio, dai campi verdi, tinti qua e là da fiorellini azzurri del lino, nella primavera in festa. E si vedeva la cupola bianca della Specola, rivolta a scrutare, infaticabilmente, i regni misteriosi del cielo.
Nel valloncello vicino, anch'esso fitto d'arbusti, gorgheggiava, in amorose pene, altro usignuolo, pure da me udito quando, nel mese delle rose, salivo quell'erta in cammino per la scuola di Rocciano. Tutto mi pareva come allora. Rivedevo sparse per la contrada le annose querce, entro le quali svolazzavano, gracchiando, le gazze. Rivedevo gli ulivi, i vigneti, i capanneti pampinosi. Rivedevo, con le pecore al pascolo, la pastorella, su quel terreno ove io passavo, con la quale spesso mi fermavo, senza ombra di malizia, a parlare. Ma erano passati davvero tanti anni, o non erano state, piuttosto, le tante vicende uno smarrimento, in un lungo sogno?
Andando oltre arrivammo al villaggio, a quella chiesuola, meta principale del nostro viaggio. Viva l'emozione. In essa, nella sua antica sepoltura, ermeticamente chiusa, dormiva l'eterno sonno il saggio nonno Giuseppe. Ci inginocchiammo su quella sepoltura, in devoto raccoglimento. Dopo visitammo l'abitato. Nulla vi era mutato. I bambini di allora, miei piccoli amici, avanti negli anni, non avevano la forza di presentarsi. Si facevano avanti, invece, le donne anziane per rievocare quel passato lieto di cari episodi. Quanta semplicità nei racconti, quanta grazia ed anche quanta dolce mestizia. Il ricordo dei genitori, e mi inorgogliva, nella bontà e nella bellezza, vi era tuttavia vivo. Andammo sul terrapieno. La casa bianca era ancora sulla strada, ma non vi era più la mamma.
A sera scendemmo nel basso, per ascoltare da vicino la voce del Tordino, anch'esso, per i ricordi che raccoglieva, per noi sacro. A notte, con qualche cosa d'indefinibile nel cuore, rientrammo a Teramo.
Ma altro pellegrinaggio, sotto la spinta della nostalgia, volli compiere più tardi a Tempera, che doveva considerarsi la vera culla degli Adamoli del ramo abruzzese. Là il nonno si rifugiava, da Como, nella sua odissea politica; là si era incontrato con colei che doveva essere la sua fedele compagna. A Temera nasceva il babbo, dove noi stessi eravamo vissuti, in serenità, per qualche anno.
Anche in questo viaggio m'accompagnavano due figli di Federico: Giovanni e Fernanda.
Vi andammo dall'Aquila a piedi quasi per godere, per abbeverarci di quell'aria che alitava intorno, un tempo respirata dai nostri cari. Vi andammo passo passo, quasi per argomentare su ogni sasso, su ogni poggio, su ogni boschetto, dove i nostri potevano esser passati, potevano aver sostato, riposato. Prima che si giungesse vedemmo il bianco villaggio ancora lontano, come nascosto in una verde oasi. Ogni qualvolta si voleva sostare, essendo molestati dal caldo di agosto, una forza ignota ci spingeva oltre. Nelle vicinanze un uomo dei campi ci consigliava di raggiungere, per la fermata, la sorgente a me ben nota.
Era un luogo davvero di fate. Acqua scaturiva, zampillava da ogni parte, nel basso e nell'alto. Non era agevole penetrare nella boscaglia, piena del suono d'una cascata dall'esterno invisibile. Ma sospinti dall'ansia vi penetrammo e, arrampicandoci per un terreno scosceso, giungemmo alla sorgente voluminosa d'acqua, uscente ghiacciata da una grotta, anch'essa avvolta dalla freschezza della boscaglia. Nulla si scorgeva intorno se non cespugli, frasche, alberi frondosi, in modo che da lassù pareva come se si fosse sospesi in aria, in una nube verde, con scroscio di pioggia.
Vi restammo qualche ora, in beatitudine. Vi mangiammo. Nel villaggio che non rivedevo da bambino, visitammo per prima la casa della nonna. Visitammo la chiesa che a me tante cose affettuose ricordava; ci avvicinammo al battistero che aveva inteso, fornendo l'acqua lustrare, i vagiti dei nostri cari. Ci recammo sulle rive del Vera che scorreva, con le sue acque limpide, come in un sogno, tra le sponde ornate di pioppi e di salici.
Anche i nipoti, molto sensibili, erano colpiti da quella bellezza. Ma non so se essi, che tutto osservavano, riuscissero a penetrare nei sentimenti che quei luoghi risvegliavano nel mio animo commosso.
Gli abitanti, per i quali eravamo gente nuova, ci seguivano con curiosità nelle nostre visite, nei nostri discorsi. Non ravvisavo in essi nessuno dei miei antichi piccoli amici. A qualche mia domanda, sulle quali non insistevo, mi si rispondeva vagamente. Le Vicentini, mie compagne di scuola, non erano più a Tempera. La piccola Candida, che io immaginavo ancora sul Vera, sotto i salici, al mio fianco di bambino, fresca nei suoi nove anni, viveva maritata nella vicina Paganica. Non mi punse il desiderio di rivederla per non guastare la dolce visione di bambina, che ne conservavo.
Nella sera tornammo all'Aquila senza incontrarvi nessuno dei parenti delle famiglie Strina e Vicentini. Con la morte di Vittorio, l'ultimo figlio di Ascanio, il quale con Giuseppe Adamoli e Isidoro Strina aveva costituito la triade dei cognati componente il Comitato insurrezionale di Paganica, la casa dell'Aquila si poteva dire chiusa. Il figlio Ascanio, che aveva il nome del nonno, avvocato pure lui, viveva con la madre Aurora a Roma.
Degli Strina, con la morte dell'ingegnere Massimo marito di Settimia Vicentini, non vi era più nessuno. Questa nobile famiglia, come quella dei Marotta a Salerno, si doveva ritenere estinta. Le donne superstiti vivevano a Roma, con altro nome, con i propri mariti.
In tal modo anche le famiglia, come i singoli, come tutte le cose, dall'atomo ai continenti, nascono, prosperano, decadono, muoiono, si disperdono senza più nome, nell'eternità dei secoli. Per ora non morirà, non scomparirà il nome degli Adamoli, forti anche in Abruzzo di nuovi robusti virgulti.


Ma un altro pellegrinaggio volli fare dopo quello dell'Aquila alla tomba della mamma, laggiù a Giffoni Vallepiana, nella silenziosa vallata degli ulivi. Ripercorrevo, per giungervi, la strada già tante volte percorsa, nelle diverse età e nelle diverse condizioni, da solo o con la famiglia. Vi giungevo in un pomeriggio d'ottobre mentre il sole, per accrescerne la religiosità, pareva che attenuasse i suoi raggi luminosi. Nessuno in quel momento, nel silenzio che vi dominava, era nel sacro recinto. Chinato in raccoglimento dinanzi all'arca santa, vivevo in quello stato in cui sembra che si perda la cognizione del tempo e delle cose. Il mio spirito entrava e rimaneva a colloquio in quella tomba con lo spirito della mamma. Uscivano insieme poi per elevarsi come in festa, nella serenità del cielo.
Io vedevo quasi la mamma come l'avevo veduta nell'alba mistica di Firenze, nella sua ideale bellezza; ne sentivo la voce e la morbida carezza. Non era sola. Facevano ad essa corona le care sorelle Maria Concetta e Maria Gesù. Non vi era il babbo. Ma forse vi era anche lui anche se lontano con i resti mortali. Lo spirito, non più legato alla materia, la libero nello spazio.
Quanto durasse il mistico colloquio non so precisarlo. Allorché mi mossi il sole piegava al tramonto. Qualche altro visitatore, giunto nel frattempo, aveva rivolta la sua attenzione su di me. Doveva meravigliarlo la presenza in quel recinto d'un forestiero. Nell'uscire una signora vestita di nero mi seguiva, mestamente, con lo sguardo. Chi era?
Nel ripassare da Giffoni rivedevo lassù, sul poggio vestito di verde, il convento di Sant'Antonio, considerato un giorno senza luce come un possibile mio rifugio. Rivedevo la chiesa di San Lorenzo, cara nei ricordi della mamma. Rivedevo ai Vassi la casa ducale della estinta famiglia dei Marotta, e lo stagno dove, in una lontana sera illuminata dalla luna, cantavano i ranocchi, mentre adolescente mi dolevo con il fratello Ciriaco del presente e fantasticando su l'avvenire.
Nel lasciare Giffoni, ove avevo vissuto con la mamma qualcuno dei teneri anni, dove forse non sarei più tornato, mi sentivo stringere penosamente il cuore. La storia degli Adamoli, nelle alterne vicende, era pur legata a quella contrada.


Rientravo a Teramo per continuare la vita di serenità, accanto alla buona compagna, santa come la mamma. Vi rientravo con molta malinconia, ma illuminato, per la gita, per la visita fatta, di nuova religiosa luce. In pellegrinaggio d'amore, verso la tomba della mamma, che tanto mi pungeva, era stato compiuto e potevo essere pago.
Ma nel raccoglimento della casa solitaria, accanto a colei che era ora tutta la mia vita, mentre il mondo era ancora in delirio, volli fare un'altra corsa, ma questa volta soltanto con la fantasia, come un riepilogo, nelle tappe del vivere. E nella fuga inesorabile del tempo, di vicenda in vicenda, andavo dalle rive tranquille del Vera alle rive del Tordino, spesso in furia per grosse piene. Andavo dalla strada calda di sole, alla strada aspra di scogli, livida di fredde ombre. Avanti ancora, dalla incosciente fanciullezza all'angustiata giovinezza; dalle veglie care di Rocciano alle veglie penose della casa di Giffoni Vallepiana; dal bimbo di Oria al giovane che si consumava sui libri nella reggia di Caserta; dall'imberbe ragazzo di Maddaloni all'ardito ufficiale di quota 1528 del Costesin, strenuo difensore dei diritti sacri della patria in armi.
E avanti avanti, nella velocità del tempo, nella marcia senza sosta, dalla italianissima città di San Giusto alla città antica dei Marrucini, dall'infuocato Mongibello al maestoso bruno Gransasso.
La vetta, nelle alterne vicende, quasi raggiunta, l'avverso destino, in una forza superiore, vinto, piegato alla nostra volontà. Molti laureati già nella famiglia discendenti dal saggio di Narro, prospere condizioni economiche, chiaro nome.
Tutti avevano la via aperta verso altre mete.
Ma che vuoto in quella schiera festosa che per quindici giorni s'adunava, ogni sera, sulla terrazza della casa di Rocciano, mentre dai campi avvolti di ombre solenne saliva dalla valle il lamento del Tordino, che con le sue acque fluiva verso il mare. Lamento che pareva ammonisse che pure la vita, nelle ansie e nelle speranze, nella gioia e nei dolori, nelle cadute e nei trionfi, fluiva inesorabilmente verso il mare dell'eterno silenzio. Silenzio nel quale erano entrati, innanzi tempo, il nobile padre, la dolce madre e molti di quella schiera, che allietava un tempo la casa. Qualcuno, come la serafica Maria Gesù, era partito alle prime luci dell'alba; qualche altro, come la mite Maria Concetta, appena dopo il mattino, ai primi caldi raggi del godimento delle liete promesse.
Anche voi partiste fratelli come fiaccati dalla dura lotta, innanzi tempo. Anche tu partisti giovane ancora, mio buon Federico, a me più vicino, ultimo dei caduti, forse intatto ancora nella tomba mentre scrivo. Partisti quando la vita nuove luci aveva per te, nella serena tua bontà, nella squisita tua educazione, nelle tue nuove speranze. Partisti lasciando nel nostro animo un grande vuoto.
Ma anche noi un giorno scompariremo, fratelli, come è sorte comune di tutti gli uomini, dalla commedia, dalla variopinta scena del mondo. Ma a noi, come a voi, sopravviveranno altri del nostro casato, per andare si spera più oltre, per salire più alto, per penetrare più addentro nella selva ora squallida ed ora luminosa, ora gelida ed ora calda, ora muta ed ora musicale, del terreno cammino.
Poi anch'essi nella corsa veloce del tempo, nella inesorabilità dell'umano destino, scompariranno nella notte che non ha più alba, che non ha più giorno. Poi seguiranno altre generazioni. Esse non potranno non ricercare nel passato le memorie degli antenati. Memorie dalle quali dovrebbero attingere sicure norme di vita, che dovrebbero ad esse ricordare che nessun valore ha la vita stessa se non riscaldata dal cuore, illuminata dalle virtù; se non commossa dalle divine armonie delle stelle, che si muovono nel mistero del cielo profondo, nello spazio senza confine, nell'eternità del tempo.



Vita spezzata


Clarice mia santa, non credevo, quando la vita sorrideva a noi ancora bella, che dovessi riaprire questo scritto, per aggiungervi la pagina più luttuosamente dolorosa. Quando nel piccolo studio mettevo su la carta le vicende della mia esistenza tu mi confortavi, nel lavoro, con il consiglio che muoveva dalla tua squisita grazia. Rileggemmo poi insieme, nella lirica e nelle passioni, nella festa e nei dolori, il piccolo romanzo. Talvolta sostavamo, quasi con diletto, su gli episodi, su le piccole avventure, che io completavo a voce, che allietavano, come fiori, la primavera dei miei anni; tal'altra su le mie ansie, sulle avversità che tormentavano il mio innocente cammino. Spesso qualche lagrima, qualche nodo alla gola ci costringevano a sospendere le letture. Si sospendeva la lettura ma si popolavano di fantasmi e la mente e il cuore.
Ci pungeva spesso il rammarico per non esserci incontrati quando la nostra vita, uscita dall'adolescenza, aveva ancora la freschezza dell'aurora. La nostra tenerezza, per il ritardo dell'incontro, era più viva, più forte il nostro affetto. Giustificavamo quasi la tempesta, che aveva infuriata sulla nostra adolescenza, necessaria per raggiungere lo stato, colmo di armonia, in cui vivevamo. E in questo nostro stato di grazia non avvertivamo quasi più la cattiveria degli uomini. La luce che sfolgora dal sereno nasconde quasi sempre i miasmi che salgono dalle paludi corrotte. La festa di luci che ferveva attorno a noi copriva le maligne ombre.
Gli anni passavano, dolcissima, ma nulla in noi si affievoliva. Anzi sembrava che nel sereno perfetto le tinte aumentassero il colore azzurro. E tornava, con particolare vivezza, il ricordo del nostro incontro, in un giorno estivo caldo di luce, in un Santuario in festa.
E nella gioia del nostro canto, nella vigoria del nostro fisico, nella freschezza dei nostri sentimenti pareva che si dovessero superare le leggi del tempo. Invece... invece ora sono qui solo, dolce compagna, disperatamente solo, a consumarmi nel mio dolore. Oggi si compie il primo anno del giorno nefasto. Il sole cadeva mestamente dietro i colli di Silvi. Il mare, nell'ora fredda e melanconica, elevava il suo lamento sul giorno che moriva. Sulla strada si udiva il movimento, i richiami, le voci della sera. In una stanza, fredda anch'essa e nera, si viveva in angosciosa ansia. Io non mi ero reso ancora conto di quanto stava per accadere. I medici, forse per un senso di pietà, tacevano. Tu, mia santa, senza che io lo sapessi, stavi per abbandonare questa sciagurata valle di pianto. Nessun lamento partiva da te. Tu cercavi di reprimere, forse per non accrescere la mia pena, ogni segno di sofferenza. A una mia domanda e a una mia carezza rispondevi: - Si, ti voglio tanto bene. - dopo non dicesti più parola, ma mi guardavi ancora con occhi mesti e con una espressione con cui rivelavi la tua pena. Parevi che dicessi: - Povero maritino chi più allieterà, conforterà la tua vita? - Forse nessun altro pensiero ti dovette turbare, mentre le facoltà vitali si spegnevano, se non per il tuo maritino, che tanto amavi.
Dei giorni felici ricordo il tuo rammarico per non avermi incontrato quando, giovanetto, non ero nel mondo che uno sperduto. Con quanta tenerezza me ne parlavi. Mi dicevi che saresti stata, in quella fiorente età, a me madre, sposa, consigliera lungo la via delle mie aspirazioni.
La tua bontà ti faceva vedere in me doti che io sentivo di non possedere. Ma anche se giunta con un po' di ritardo, riuscisti ugualmente, mia dolcissima, a infiorare con i fiori più belli la mia vita operosa.
Oggi è un anno in cui la bufera sconvolgeva, per sempre, la casa santa. Un anno! Ma tu sei viva come mai, con tutta la tua fresca vitalità, nel mio cuore, nel mio sangue, in tutta la mia anima. Un anno da che sono tornato solo, nella piccola camera, dai pochi mobili, dal piccolo letto, sul quale sognai, nelle notti ansiose, i sogni belli della giovinezza.
Non più sogni di vita faccio in questa nuova solitudine senza luce, ma sogni di morte.
Tutto quanto in questo primo anno di lutto ho pensato, ho fatto, ho sofferto, l'ho scritto in "Vita spezzata" inviata, per la pietà, a persone elette.
Trascrivo qualche pensiero di risposta:
"Il Suo buon ricordo è riuscito particolarmente gradito a mia moglie e a me, soprattutto perché conserviamo per Lei, che ci fu così vicino in giorni di grande tormento e di gravi responsabilità, la più affettuosa amicizia e ci è lieto vederla così cordialmente ricambiata.
Avemmo il piacere di conoscere la Sua eletta consorte e di apprezzare le grandi virtù e l'infinita bontà, così come conoscemmo la Sua nobiltà, la Sua generosità, l'elevatezza dell'animo.
Il vederci perciò ricordati in questo periodo della Sua vita, divenuta così dolorosa per la perdita della diletta ed eletta compagna della Sua vita, ci ha profondamente toccati e commossi.
Comprendiamo il suo infinito dolore e di fronte ad esso ci inchiniamo riverenti."
Elmo Bracali, già Prefetto di Teramo

"Ho letto con profondo raccoglimento, intensa commozione e desolato rimpianto le pagine in cui è rievocata l'indimenticabile Signora Clarice. In esse è ritratta in modo mirabile la Sua figura, il Suo cuore largo a ogni sentimento di affetto, compreso quello dell'ospitalità, la Sua grande bontà d'animo, la Sua vita buona e pia e comprendo come Le sia sempre vicina con l'elettissimo Suo spirito.
Dio, con i suoi imperscrutabili voleri, ha voluto toglierle l'affetto grande, le tenerezze e le cure della Sua Consorte, ma solo materialmente, perché, sono certa, che Ella con cuore vigile ancora dall'Alto continua ad amarlo e lo segue nel doloroso cammino terreno."
Signore Ginetta Rayneri di Torino

"Io e mia moglie abbiamo letto con viva commozione il libro - Vita Spezzata - che Ella con gentile pensiero ci ha inviato, ed abbiamo seguito Lei, trepidando e mesto, attraverso l'espressione viva, sincera ed efficace nella via dolorosa che sta attraversando...
La pietà cui Ella fa appello per amore della sua Santa è in noi tanto profonda, e vorremmo trovare parole adatte ad esprimergliela, che le dessero qualche conforto, ma qualunque cosa diciamo sarà sempre inadeguata allo scopo per lo stato tanto penoso dell'animo Suo...
Dovrà trarre conforto e speranza per la vita d'oltre tomba che deve seguire e completare la vita terrena. In essa Ella ritroverà allora trasumanata la Sua dolce compagna, in quello stato che l'anima dovrà assumere nella sua nuova fase, per non separarsene più, ed essere felice di nuovo nella nuova e definitiva esistenza."
Professore Alessandro Nottaro e Signora di Roma

"Ti siamo molto grati per l'invio di - Vita Spezzata - libro inviato in memoria della carissima Clarice. Sin dalle prime pagine la figura angelica della scomparsa balza viva e parlante, come appieno si rivela tutto il dolore e la profonda amarezza che ha prodotto in te, anima buona, la prematura scomparsa della tua compagna...
I tuoi ricordi, i tuoi lamenti sono esposti in quella forma così commovente come quella che sola poteva provenire dall'animo depresso per la perdita di persona così cara, adorna di tutte le virtù."
Cugini Salvatore e Vincenzina Rizzacasa Roma.

"Ho ricevuto il suo libro, testimonianza commovente della Sua sensibilità, storia vissuta nel tepore degli affetti più intimi ma che, per la sua poesia, varca le soglie di una casa per suonare ammonimento e segnare una via - quella, quella sola che può condurre ad assaporare le vere gioie della vita..."
Vice Prefetto Carlo Capasso Firenze

 

"Ti ringrazio del bel libro sgorgato così spontaneo e sincero dalla tua fertile penna.
Nel leggerlo ho sofferto e pianto con te.
Attraverso le tue pagine elette fai rivivere la figura della cara Comare in tutta la sua bontà e dolcezza.
Grazie ancora: terrò il tuo libro a Suo perenne ricordo.
Non oso parlarti di conforto: ti auguro fraternamente che dal cielo la tua adorata compagna interceda affinché il Signore dia al tuo animo infranto un po' di rassegnazione..."
Colonnello Raffaele Alvino Roma

"Ho letto con immensa commozione tutto lo sfogo del vostro animo dolente e del vostro cuore sconsolato. Non oso tentare la minima parola di conforto. Anch'io, a distanza di un anno, ho pianto ancora e piangerò sempre Colei che fu compagna tenerissima a voi e amica sensibile e comprensiva per la mia anima fanciulla. Fu a Lei che il mio cuore diciottenne confidò i primi dolci palpiti e che dalla meravigliosa sua ingenuità trovò sempre conforto nei turbamenti giovanili. Sono ben diciotto anni ch'io più non toccai la dolce terra di Silvi e penso che non potrei più rivederla ora che il dolce angiolo della vostra casa non abita più la romantica villetta meta di tutta le nostre passeggiate... Più fortunata è stata Augusta che ha potuto per più d'una volta rivederla e viverle accanto e farle conoscere tutti i suoi affetti piccoli e grandi..."
Nipote Menina Montecchi Roma

"Tanto gradito mi è giunto il tuo libro, pieno di tanta tristezza e dolorosi ricordi. Sono rimasta tanto commossa alla lettura delle pagine in cui descrivi con tanto sentimento le sofferenze, l'amore santo sentito verso la più buona, la più angelica fra le creature. Non so dirti poi quel che ho provato nel rivedere l'immagine della tua Clarice, così bella come era in vita, che pare voglia parlare, voglia dire anche a me una parola buona, una parola di conforto. Ho baciato tanto il suo bel volto, gli occhi luminosi, dolci. Io la pregherò sempre e la invocherò come una santa, come invoco il mio angelo, anche lui volato innanzi tempo al cielo..."
Cugina Maria Rizzacasa Strina Orsogna.

"Con ammirazione profondamente commossa ho letto la pagina che tu hai dedicato alla tua adorata. Rarissime sono le donne che sanno inspirare tanto amore e tanto rimpianto; e del tutto eccezionali quelle che lasciano tanto vuoto nel cuore degli uomini. Tu hai scritto per Lei il monumento "aere perennis" che vale molto di più della casa di pietra che ne custodisce le spoglie mortali...
Comprendo il tuo stato d'animo e ti dico una sola parola: coraggio.
In altri campi ne hai avuto tanto e ciò mi fa sperare che saprai superare anche questa durissima prova, con la certezza di poter ritrovare un giorno, nella santità della luce ultraterrena, la tua adorata."
Dott. Riccardo Ghivarello Torino

Potrei continuare, poiché tutti esaltano, con i pensieri, con i sentimenti più teneri, le tue rare virtù. Il mio canto di dolore, sgorgato dalla profondità del mio animo colpito a morte, farà rivivere nel tempo, dolcissima, il tuo passaggio luminoso su questa terra di piano. - Aere perennis. - Così sia.


Questa mattina, di buonora, sono tornato al tempio per assistere alla ripetizione del rito con il quale, nel decorso anno, si intese di accompagnare pietosamente, mia diletta, la tua bell'anima al cielo. La chiesa, con le tinte nere, pareva anch'essa in lutto. Il suono e il canto scendevano in me come lame taglienti. Sentivo che il cuore non di lagrime si bagnava, ma di sangue vivo e copioso. E ho riguardato, mentre l'anima si lacerava, il posto che tu occupavi, raccolta in preghiera, nelle messe domenicali. Dopo sono venuto a te, nel campo dei cipressi, e ora sono qui, in questo piccolo studio, che doveva ancora offrire a noi, secondo i nostri disegni, giorni di intellettuale beatitudine. E rifaccio, nel penoso raccoglimento, la storia dei nostri anni di vita. E di pensiero in pensiero finisco, nello sconforto, di domandare: perché si viene al mondo quando la procella è sempre pronta a sconvolgere il sereno e a travolgere inesorabilmente ogni cosa?
Quanta rovina si presenta alla mia fantasia se mi fermo per un momento a considerare il passato! Tutti quei collegiali che io da bambino vedevo freschi d'età, eleganti nella loro divisa nera, ricchi di sogni e di speranze; tutti quei bersaglieri che incontravo, con le piume al vento, baldi nella robusta giovinezza; tutto quel popolo che vedevo muovere, colmo di passioni e di desideri, non erano più riscaldati dalla luce del sole. Tutti giacevano orami, per l'eternità, nel silenzio del sepolcro.


Nel decorso settembre, carissima, come sospinto da te, partii per rivedere, accompagnato dal nipote Giovanni, la Valsassina, da dove mosse, per il suo pellegrinaggio, il nonno Giuseppe. Si saliva da Bellano la bella vallata. A Coderino si lasciava la corriera. Il rimanente cammino, per raggiungere il nido degli Adamoli, nostra meta, si dovette fare a piedi. La pioggia che ci accompagnava nel bosco di castagni, fitto di ombre, scrosciava come un pianto. Pareva che dal monte dei vivi si salisse verso il mondo del mistero. Si raggiunse il nido, messo come quello delle aquile, a oltre mille metri, a notte inoltrata. Dalle case del piccolo abitato, umido di pioggia, trapelavano qua e là deboli luci. Piccolo solitario abitato, ma che portava bene impresso, come vedemmo il giorno dopo, il dominio secolare degli Adamoli. Non vi erano case, strade, tabernacoli, lapidi che non ne ricordassero, con i nomi, la nobiltà dei propositi, l'umanità degli atti, la santità dei costumi. E leggemmo nei registri dei secoli le nascite, i battesimi, i matrimoni; leggemmo il tramonto e dei singoli e delle generazioni.
Ancora una volta, dolcissima, ebbi a considerare, mestamente, la caducità, la vanità della povera vita. Come l'ebbi a considerare nel visitare quel piccolo mondo antico della Valsolda, dove io ero stato adolescente e dove il mite Fogazzaro aveva creato, nel silenzio della sua villa, i poemi di dolore e di passioni, di gentilezza e d'amore. Quella villa che posava ora muta, come una nave inghiottita, con tutto il suo carico delizioso, dalle onde del mare. E anche la buona Anita, che io avevo conosciuta piena di sogni, nella freschezza della sua età, dormiva nel piccolo cimitero, che udiva frangersi, ai suoi piedi, come un lamento, le acque del melanconico lago.
Come i lamenti del mondo, oggi e sempre, scendono nel mio spirito, avvolto dalle fredde ombre della notte. Qualche luce risplende di là dai confini terreni, nel sonno senza risveglio, nella pace del sepolcro.

FINE

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