Umberto Adamoli

Famiglie Strina - Adamoli
Da Como ad Aquila



Indice

Da Como ad Aquila
Nelle famiglie Strina Adamoli
Negli eventi di Tempera
Gli Adamoli nel loro destino
Il tramonto
La fierezza di una madre
Nella vallata del Picentino



Da Como ad Aquila


Nella primavera del 1843 giungeva ad Aquila, dai monti del comasco, un giovane su i ventitré anni (ne aveva invece 33 poiché era nato nel 1810, n.d.c.), Giuseppe Adamoli, alto, snello, bruno, dall'aspetto nobile, dai tratti gentili. Raramente compariva nelle vie, nei ritrovi cittadini. Non usciva generalmente dalla casa che per recarsi verso la campagna, per ammirarvi le acque, le valli, i monti, che gli ricordavano le acque, le valli, i monti della sua forte provincia. Molto camminava, ma faceva anche, qua e là, sui poggi, ai margini dei boschi, sulle rive del piccolo lago di Vitoio, lunghe soste. Doveva correre, forse, col pensiero afflitto, in quel raccoglimento, ai suoi monti, alla storica Valsassina, alla sua Narro, che, quale cospiratore e perseguitato politico, per sfuggire all'arresto, da parte della brutale polizia austriaca, aveva dovuto, con tutta fretta, lasciare. E doveva pensare alla famiglia, alla mamma, agli altri fratelli, viventi pure essi in esilio, e agli altri compagni di congiura, sventuratamente catturati, alle sciagure della patria schiava, smembrata, torturata di suoi sette tiranni.
Quella vita, tinta di romanticismo, ma priva di operosità, con i fermenti patriottici che gli riscaldavano l'animo, non lo soddisfaceva. Talvolta lo pungeva il rimorso per l'allontanamento da quella lotta, nella quale, nonostante il lugubre minaccioso capestro, erano serenamente rimasti i suoi compagni. Si sentiva umiliato, avvilito, senza una propria personalità, solo nella vita solitaria. Era tenuto, inoltre, in sospetto dalla polizia borbonica, che lo pedinava.
Anche i cittadini lo scansavano. Vi erano già state, per essersi confidati con sornioni forestieri, dolorose sorprese, con arresti, condanne, deportazioni.
Non poteva continuare in quella vita, che viveva tra molte diffidenze e senza scopo. Pensava, quindi, di tornare alle sue montagne, per riprendervi, a qualunque costo, anche della vita, il suo posto di combattimento. Quando, però, sapeva che anche ad Aquila si cospirava per spezzare le catene della schiavitù, per riconquistare l'unità e la libertà, rinunciava alla partenza. E a mano a mano che ne penetrava i segreti, aumentava per quel popolo la sua simpatia, la sua ammirazione, maggiormente quando sapeva che da esso erano state tentate molte insurrezioni, spente nel sangue. L'ultima, che risaliva alla primavera del 1841, era fallita, non per colpa degli Aquilani, ma per il mancato concorso, promesso con solenne impegno, dei congiurati delle vicine province e della stessa Napoli. Vi era caduto, però, il Comandante militare borbonico, degno rappresentante dei tiranni d'Italia.
Dopo di ciò, il lombardo, che aveva ormai rivelato ai nuovi amici la sua vera identità, chiedeva ed otteneva di entrare a far parte del nobile movimento meridionale.


In tali nuove condizioni si giungeva ai primi di luglio. In una di quelle sere, dopo un tramonto, dietro alle montagne, rosso di sangue, molti di quei giovani, tra cui l'Adamoli, per vie diverse, alla spicciolata, dalla città si dirigevano verso il piccolo villaggio di Tempera, situato a cinque chilometri, sulle rive del fiume Vera, breve di corso, ma ricco d'acqua, di verde, di poesia. Vi giungevano quando su l'abitato, in un cielo stellato, sovrastava alta la notte, alto il silenzio. I cospiratori nobilissimi s'andavano a raccogliere, come d'intesa, nei locali di una fonderia, di proprietà dell'industriale Domenico Strina. Tra i convenuti vi era, anzi, un suo figlio, ingegnere Isidoro.
In quella notturna riunione si doveva, tra l'altro, ascoltare un emissario del valoroso bolognese Livio Zambeccari, per determinare il concorso che la patriottica Aquila avrebbe dovuto dare all'insurrezione, fissata, per tutto il territorio nazionale, dalla Sicilia al Piemonte, dal Lazio alla Lombardia, per il prossimo mese di agosto.
Dallo stesso emissario sapevano i particolari dell'insurrezione, che sarebbe stata condotta decisamente sino in fondo, sino alla vittoria.
Sapevano anche che ai nuovi cimenti avrebbero partecipato, oltre l'animatore Zambeccari, il corso Alessandro Cipriani, il modenese Nicola Fabrizi, creatore della legione italiana, il nizzardo Ignazio Ribotti, con molti altri ufficiali, reduci dalla sollevazione di Spagna, i livornesi Michele Palli e Gian Paolo Bartolomei, i bolognesi fratelli Pasquale e Saverio Muratori, il marchese Pietramellara, e i fratelli Attilio ed Emilio Bandiera, irredenti, dell'armata austriaca.
Era da qualche tempo oltrepassata la mezzanotte, quando, concluse le discussioni, decidevano di sciogliersi, elevando il pensiero alla grande patria, che piangeva in schiavitù, per la liberazione della quale essi congiuravano, offrivano la giovane vita.
Fuori si svegliavano già, nella notte debolmente rischiarata dalla luna falcata, sorta da poco, i primi segni di vita. Sul fiume, le acque del quale scorrevano in un lieve mormorio, vi camminavano, con piccoli lumi, i pescatori di trote. Qualche luce appariva qua e là, dalle finestre delle case, che si sovrastavano sul piccolo colle. S'udiva, pure, il calpestio di persone, che, per la raccolta della legna, s'avviavano, con i muli, verso i boschi della montagna. Dal forno usciva un fascio di luce, che si proiettava su la piccola piazza, in fondo al villaggio.
I cospiratori dovevano agire, quindi, con circospezione, per non essere scoperti dai realisti borbonici, sempre in vedetta, numerosi nella contrada. Da una piccola imprudenza potevano essere rovinati. All'alba ognuno rientrava, senza incidenti, nella propria casa.
L'inviato dello Zambeccari partiva soddisfatto della missione così bene compiuta. Era suo convincimento che gli Aquilani, dal sangue sabino, avrebbero scritto un'altra bella pagina, nei prossimi avvenimenti, nella loro storia.
La sua attenzione era stata attirata, in modo particolare, da quel lombardo, che aveva parlato poco, in verità, ma che doveva molto ponderare, meglio operare.



Nelle famiglie Strina Adamoli


Nei giorni che seguivano s'iniziava, con fede e fervore, il lavoro di preparazione. Lavoro che molto affaticava, dovendosi svolgere, tra le molte difficoltà, con avveduta prudenza. Un piccolo fallo poteva condurre alle più dolorose conseguenze. La polizia, sempre sospettosa, vigilava con occhi bene aperti, specialmente su coloro che erano già segnati, come il giovane ingegnere Strina, nel libro nero dei ribelli. Bisognava, poi, ben guardarsi da coloro che si presentavano in veste di patrioti, non trattandosi, il più delle volte, che di autentiche infami spie.
Questo giovane ingegnere, distinto nei tratti, bello nella persona, il più attivo ed il più coraggioso ed entusiasta dei congiurati, apparteneva a quella famiglia Strina, che era giunta ad Aquila, qualche anno prima, dalla provincia di Ascoli Piceno. Gli antenati erano però, di Capri, ed appartenevano alla nobiltà napoletana, con seggio a corte. Famiglia, quindi, molto antica ed illustre.
Avevano ad Aquila, precisamente a Tempera, ove allora abitavano una parte dell'anno, con cartiere e fonderia di rame, una ricca e ben rimunerativa industria.
Il nostro ingegnere, non appena laureato, nonostante vivesse nei trambusti e nei pericoli politici, s'ammogliava. Sceglieva a compagna un'altra forte italiana, ricca proprietaria di Tempera stessa, donna Angelamaria Bizzoni. L'amore per la patria disgregata e schiava, diveniva talvolta in essi più forte dell'amore per la famiglia, più acceso dell'amore per il godimento degli agi, offerti dalla ricchezza.
Il giovane Strina, infiammato sempre più di nazionale fervore, si era stretto al lombardo con vincoli di fraterna amicizia. Lo ricercava, con affettuosa premura, vi si intratteneva, faceva con lui, quasi coetaneo, lunghe passeggiate, in luoghi solitari, per parlare più liberamente delle loro aspirazioni, dei loro arditi pericolosi progetti. Qualche volta lo conduceva anche in casa, ove conosceva, oltre la giovane moglie, anche i genitori sempre in dolore per le sventure della patria, sempre in ansia per l'audacia del figlio. Vi conosceva un altro fratello, Giacinto, laureato anche lui, ma consacrato, per forte inclinazione, servo di Dio, nell'ordine dei Francescani, con il nome di padre Emidio. Appariva forte nella sua fede, saggio nei suoi giudizi, dignitoso nel suo severo abito. Non disdegnava il movimento nazionale, determinato dal risveglio del passato, nei nuovi più progrediti tempi.
Vi conosceva anche, e con queste il bel quadro si completava, le due sorelle, Febronia e Doralice, quasi bionde, gentili, bene educate, molto belle nella loro elegante, disinvolta semplicità.
La conversazione diveniva, ad ogni nuovo incontro, sempre più intima, sempre più viva e cordiale. Non mancavano mai in essa accenni, come era naturale, alla quistione politica e nazionale, ai soprusi della polizia, alle infamie dei governi di Napoli e di Vienna, e al castigo di Dio, di cui, prima o dopo, sarebbero stati colpiti.
Quando il lombardo si ritirava a notte nella sua stanza, non poteva non ripensare a quelle conversazioni, alle nobili persone di quella famiglia amica, a quelle due gentili giovani, specialmente alla Doralice, che aveva per lui un particolare fascino.
Ripensava anche alla casa lontano, sentendo più vivo, nell'esilio, l'affanno della solitudine, della stanza vuota. Come volentieri, nei palpiti che vibravano sempre per la donna nell'animo umano, avrebbe costituito, nella santità delle leggi, la sua nuova dolce famiglia!
Il pensiero, le facoltà sensibili s'assopivano lentamente nella visione della patria dolorante, della madre in pena, della giovane bionda, che diveniva sempre più dolcemente imperiosa nella sua deserta vita.


Poiché gli erano state rivolte spesso domande, un giorno, anche lui, dava maggiori notizie sul conto suo e della sua famiglia. Diceva che gli Adamoli, secondo i dati desunti dalla storia, d'origine normanna, avevano in quel tempo il loro principale centro a Bellano, bianco villaggio, che si rispecchiava nelle limpide acque del poetico lago di Como. Quel lago colmo di bellezza e di leggende, che aveva offerto le più sensibili scene ed i maggiori personaggi ai due romanzi, da poco pubblicati: - I Promessi Sposi - di Alessandro Manzoni, scrittore e poeta molto amato in Lombardia, e il - Marco Visconti - di Tommaso Grossi, altro gentile poeta, di Bellano, amico, quindi, di famiglia. E' vero che, per ragioni della sua professione di notaio, viveva a Milano, ma d'estate tornava, puntualmente, per un giocondo riposo, alla paterna casa, che usciva, come una deità, quasi dalle acque fresche e chiare del lago.
Ma se la famiglia aveva casa a Bellano, aveva pure casa e possedimenti a Narro, a dieci chilometri, su la montagna. Da lassù la vista spaziava per la vasta Valsassina, popolata da bianchi villaggi, avvolti di boschetti e di silenzio, in fondo alla quale scorreva, tra il verde, il fiume Pioverna. Contrada ricordata dal Manzoni, appunto nel suo romanzo, per la visita festosa fattavi, nel 1600, dal cardinale Federico Borromeo. Ricordata anche per trovarvisi il tenebroso Castello dell'Innominato, i ruderi del quale erano ancora in vista, come a richiamare alla memoria le antiche bricconate, che vi erano state compiute.
Contrada pure benedetta, poiché lassù, nei suoi boschi, nei suoi sperduti casolari, nelle sue caverne, molti perseguitati politici trovavano sicuro esilio. Vi si era rifugiato, prima che lui partisse, lo stesso Tommaso Grossi, ricercato dalla polizia austriaca, per i suoi ideali di unità nazionale e di libertà.
Il ramo degli Adamoli, al quale apparteneva, si trovava in Lombardia da tre secoli circa. Prima viveva nello Stato Pontificio, a Roma, godendovi ricchezze ed onori. Aveva reso con i componenti, importanti servizi civili e militari alla Casa della romana Chiesa ed alla Casa Colonna. Avevano pure i suoi partecipato alle Crociate, per la liberazione del Sacro Sepolcro. Perseguitati, in seguito, per manifestazioni di idee troppo liberali, dal Sacro Ufficio, con la confisca di tutti i loro beni, erano stati costretti, per sottrarsi a provvedimenti più gravi, a rifugiarsi nella Lombardia.
Il ramo della stessa famiglia, rimasto a Roma, si estingueva nel 1810, con Maria Adamoli, Superiora delle Certosine.
Ed altro raccontava, destando sempre più viva simpatia nella famiglia Strina.
Accennava anche, con molta semplicità, alle peripezie incontrate nella fuga di allontanamento dal paese natio, sotto gli occhi quasi della polizia, da cui era ricercato.
In un primo momento, seguendo l'esempio degli altri profughi, voleva dirigersi, attraversando la Svizzera, verso il Piemonte, faro di italianità. Essendo, però, difficile lo sconfinamento, per l'alta neve, che copriva in quell'inverno le montagne, prendeva la via più facile del mezzogiorno.
Il distacco dalla mamma, dagli altri familiari, dalla casa diletta, dalle valli, dai suoi monti, nella notte nera, gli faceva sanguinare il cuore. Non era possibile riprodurre con parole, neppure in parte, i sentimenti tumultuati, in quel momento, in fondo all'animo in tempesta.
Si metteva in cammino, nella buia notte, con pochi oggetti, chiusi in un sacco da viaggio, e con il danaro, in monete d'oro, cucito nella cinghia dei calzoni.
Non era solo, nella dolorosa marcia. Lo accompagnava altro fratello, profugo anche lui, che si era fermato in Toscana. Il viaggio era stato compiuto quasi tutto a piedi, scansando le vie maestre. I fiumi, specialmente quelli di confine, erano stati attraversati su barche, in posti nascosti; qualche volta anche a guado. Aveva dormito nelle campagne, in poveri casolari, tra persone spesso, per la loro diffidenza, pericolose. Si era potuto salvare dall'arresto, dal quale qualche volta si era sentito minacciato, per l'avvedutezza, la prontezza dei suoi atti.
Ed ora era là, senza notizie dei suoi, in attesa dell'adempimento di quegli eventi, che accarezzavano le speranze di tutti i buoni.



Negli eventi di Tempera


Mentre i rapporti, tra l'Adamoli e la famiglia Strina, divenivano sempre più cordiali, s'avvicinava il giorno fissato per l'insurrezione armata, che doveva iniziarsi, appunto, il 31 luglio, nello Stato napoletano, per quindi estendersi, nei giorni successivi, nel territorio degli altri Stati. Ma le vedette aquilane, collocate in punti elevati, nella notte dal 31 luglio al primo agosto, guardavano invano le cime dei monti, che, come segnale dell'inizio della lotta, si sarebbero dovute illuminare, con grandi fuochi, come per la notte di S. Giovanni. Non si illuminarono quelle cime né quella notte, né nelle notti successive. L'Austria, sempre maleficamente attiva, che aveva scoperto le file della congiura, si era affrettata di darne avviso agli altri governi, impedendo così, con atti ferocemente repressivi, ogni altra azione.
I nostri, che stavano a Tempera, pur avendo avuto perquisizioni in casa, si erano potuti salvare dai consueti provvedimenti di polizia.
Si trovava in quel tempo a Tempera la famiglia Vicentini, della quale faceva parte il giovane Ascanio, altro fervido patriota e cospiratore, capo del Comitato della morte, costituitosi a Paganica "per distruggere" come si leggeva in un rapporto della polizia "il governo, il Re, l'ordine".
Come avviene sempre tra giovani, che s'incontrano in piccoli centri, anche l'Ascanio, che si distingueva per prestanza fisica e per i nobili lineamenti, s'avvicinava e si legava d'amicizia con il lombardo, che sempre esercitava su gli altri, per la compostezza, la serietà, la vigoria ed il maschio accento comasco, molto ascendente.
La piccola brigata, spesso aumentata con i giovani della vicina Paganica, sede del comune, passavano molte ore sulle rive del Vera; più spesso spingevano le gite verso i colli, verso i monti, coperti di boschi, colmi di canti, tenendo molto in orgasmo la sospettosa polizia, che sapeva in ognuno di essi un attivo congiurato. In verità appartenevano a quella setta irrequieta, di cui il Vicentini, il più acceso, era capo.
In quelle riunioni, apparentemente innocenti, vi si discutevano proposte, vi si esaminavano progetti, tendenti a creare, con una estesa rivoluzione in ogni parte d'Italia, l'ordine nuovo.
Vi erano anche ore, in cui ognuno si raccoglieva nei propri pensieri. L'Adamoli, anche se circondato da così buone amicizie, non poteva non considerare melanconicamente la sua condizione; la lontananza dalla sua terra, calpestata dal barbaro piede austriaco; la lontananza dalla famiglia, della quale, per ragioni appunto politiche, non poteva avere notizie.
Pensava anche a quell'evento, circoscritto entro la sua esistenza, nel quale doveva sciogliere i voti segreti del proprio animo, per condurre la vita al principale suo scopo. Appariva nella sua mente, in tali fantasticherie, sempre più chiara la figura di quella bionda, già cara al suo cuore. Volentieri l'avrebbe condotta dinanzi all'altare, se altre fossero state le sue condizioni, tanto più che anche lei manifestava per lui una aperta viva simpatia.
Più fortunato appariva l'Ascanio, già fidanzato alla Febronia, anch'essa bella nella sua semplice disinvolta grazia, nel suo fresco gioviale carattere.
Su i sentimenti della Doralice aveva modo di meglio assicurarsene quando una sera tornavano, in comitiva, dalla campagna. La notte aveva già disteso le sue ombre nel piano, su i colli, su i monti. Il ruscello, che fiancheggiava la strada, entro il quale si riflettevano le stelle, mormorava flebilmente nel suo corso. L'ora d'intenerimento, in cui vibravano le gentili anime innamorate, li incoraggiava alle dolci confidenze, ai cari sogni. E sognarono. Ma l'amore, confermato in quella dolce sera, doveva rimanere, ancora per qualche tempo, nel segreto del loro cuore.


Intanto l'autunno scendeva dai monti con il suo freddo, la sua melanconia. Dopo la vendemmia, in ottobre, mentre le foglie ingiallite cadevano, la famiglia Vicentini tornava ad Aquila. L'Adamoli rimaneva a Tempera, essendo entrato a far parte, in qualità di socio di quell'industria, che gli Strina colà avevano.
Questo accordo, davvero provvidenziale, gli procurava quell'impiego, che lo toglieva dalle preoccupazioni economiche; che legittimava, in qualche modo, di fronte alla polizia borbonica, la sua dimora nel regno di Napoli; che gli agevolava quella domanda, che egli intendeva presentare alla famiglia Strina.
Nella primavera del 1844 si celebravano ad Aquila le nozze Vicentini-Strina. In quell'occasione l'Adamoli, incoraggiato dai consigli di autorevoli amici, chiedeva ufficialmente in isposa la sua Doralice. I genitori, che avevano già intuito quell'amore, si riservavano di dare più tardi una risposa definitiva.
La quistione nazionale subiva, nel frattempo, un altro rinvio, anche per il doloroso episodio dei fratelli Bandiera e dei loro eroici compagni, che, nel giugno, sbarcati a Crotone per accendervi il fuoco dell'insurrezione, erano stati traditi, sopraffatti, arrestati e fucilati.
Nel luglio seguente, ad ogni modo, le nostre famiglie, strette ormai da vincoli di parentela, si ritrovarono a Tempera, per trascorrervi l'estate.
Nel settembre, nel giorno della festa della Madonna, gli Strina davano il consenso per il fidanzamento della signorina Doralice, con il signor Giuseppe Adamoli, loro socio in quell'industria, bene sviluppata. In conseguenza, i due promessi sposi, avendo maggiore libertà, potevano intrattenersi più a lungo, nelle loro conversazioni, e potevano fare anche solitarie passeggiate lungo il Vera, alberato di salici e di pioppi, tra i quali s'aggiravano le libellule e cantavano i fringuelli e le capinere. Talvolta si spingevano ad una delle sorgenti, la maggiore, che, ad un chilometro, scaturiva dal fianco di una collina rocciosa, spumosamente rumorosa, bianca come neve, unendo al canto dell'acqua, il canto intimo dei loro animi, vaganti nei sogni.
Nel dicembre, prima delle feste, rompendo ogni altro indugio, nell'intimità familiare, si celebravano le nozze Adamoli-Strina. Non consentivano i tempi un qualche lontano viaggio. Gli sposi felici, quindi, dopo una visita alla storica Sulmona, rientravano a Tempera, per iniziarvi una nuova vita.
Egli, l'Adamoli, riprendeva, nell'azienda, con maggiore fervore, il suo posto di lavoro; lei, la Doralice, si metteva coraggiosamente a capo della casa, ponendo nel miglior modo in atto quelle cognizioni apprese dalla buona mamma.
Potevano essere felici, pienamente, se altri fossero stati i tempi.
Fedele alle sue idee, viveva, invece, il lombardo, come vivevano i cognati Isidoro ed Ascanio, in uno stato di particolare turbamento. Uno stesso spirito di ribellione e di lotta continuava ad infiammare i tre cognati, ferventi seguaci di Garibaldi e del mistico Mazzini.
Amavano i tre la famiglia, nel significato più nobile, ma anch'essi non sentivano, nelle agitazioni del tempo, che la voce accorata che saliva, come invocazione, dalle torture della patria schiava. Spesso si riunivano, con altri fedeli amici, tra cui i signori Rodrigo de Paulis, Gioacchino Volpi, Giovanni Antonelli, Luigi Cirilli, Camillo Nicola Vespa e Raffaele de Vecchi, per esaminare i messaggi segreti, che giungevano dagli altri Comitati rivoluzionari nazionali. Si riunivano anche per provvedere alla propria difesa, contro le insidie e le minacce del molto attivo partito realista borbonico, diretto a Paganica, principalmente, dai signori Giocondo Vivio, Giacinto Centi, Daniele Masciovecchio, Giovan Battista Centi, Raffaele Berardi, Girolamo Giusti, Mattia Pompilio, Luigi Vivio e Andrea Biordi.
Non mancavano con essi zuffe, contenute, però, dai nostri per ragioni di prudenza.
In tal modo, tra congiure, contro congiure, perquisizioni, fermi, interrogatori ed altre aspre forme di persecuzione politica, trascorreva il 1845. Prima che si chiudesse l'anno, quando le campagne, le valli, i monti erano coperti di neve e di silenzio, precisamente il 25 dicembre, giungeva ad allietare la casa Adamoli a Tempera un bel maschietto, al quale si dava il nome lombardo di Gelasio.


Nel 1846 gli eventi, nell'ordine politico e religioso, culminavano con l'elevazione al soglio pontificio, dopo la morte di Gregorio XVI, del cardinale Giovanni Mastai Ferretti, bello della persona, affabile, di tendenze liberali. Molti ne gioivano. I neo-guelfi, partito sorto in contrapposto a quello rivoluzionario mazziniano, ne erano entusiasti, sperando di raggiungere la meta, conformemente al loro programma, attraverso l'opera del papa, in via pacifica. L'entusiasmo aumentava quando il 16 luglio, come primo atto, Pio IX, con l'editto del perdono, nuovo negli annali della Chiesa, concedeva una generale amnistia a favore dei detenuti politici.
Ma le belle promesse e le tante speranze di popolari riforme naufragavano in seguito, per le mene degli Stati reazionari, tra cui la perfida Austria.
Nel 16 gennaio del 1847, nell'anno degli inutili moti, la casa degli Adamoli era allietata dalla nascita di altro maschietto, al quale si dava il nome di Luigi. Anche le case di Isidoro Strina e di Ascanio Vicentini, i più irrequieti tra i cospiratori, erano messe lietamente a rumore da una bella nidiata di sani vispi bambini.
Si giungeva, in tal modo, al 1848, all'anno in cui si iniziavano tutte quelle insurrezioni e quelle guerre, che dovevano rendere sempre più sacro, con il fiume del sangue versato, il diritto del riscatto nazionale.
Attorno ai nostri, segnati nei registri neri, si esercitava dalla polizia, ed anche dagli zelanti realisti, la più oculata vigilanza. Non se ne scoraggiavano, né si preoccupavano dei provvedimenti che, da un momento all'altro, potevano essere adottati ai loro danni.
Nel seguente 1849, tanto glorioso quanto sfortunato nei nuovi moti e nella nuova guerra contro l'Austria, la vendetta dei tiranni colpiva inesorabilmente coloro, che non avevano desiderato che l'unità, la libertà, la grandezza d'Italia.
Nel 28 ottobre, mentre il cerchio della polizia si stringeva sempre più attorno a Tempera, nella casa Adamoli, come determinate tappe di un fiorito cammino, nasceva Giovanni Maria, biondo come la mamma, vispo e bello come gli altri fratelli.
Il 20 dicembre dello stesso 1849, la polizia borbonica, irrompeva, con la sua violenza, a Tempera. Molti, avvertiti in tempo, tra questi il Vicentini e l'Adamoli, riuscivano a sottrarsi all'arresto con la fuga verso la montagna; non riusciva, invece, lo Strina a sottrarsi alla cattura.
Dalla istruttoria, che si iniziava subito contro di loro, risultava:
1. che i cospiratori erano stati spesso visti riunirsi anche nel caffè di Giacinto Pietrangeli, nel forno di Camillo Visca, nella farmacia di Giandomenico Tascione, nella casa di D. Andrea Rossi e nel Giudicato regio;
2. che scopo di tali riunioni era di tenere accesa, quali appartenenti al Comitato segreto della morte, di cui era capo il Vicentini, l'agitazione, tendente ad atterrire i realisti, a distruggere la sacra persona del Re e della reale famiglia, di rovesciare il governo e di stabilire la repubblica;
3. che in periodi diversi dagli stessi agitatori erano stati commessi atti di violenza, anche contro la Gendarmeria reale, assalendo la loro caserma e portando via le loro armi.
Vi erano, inoltre, le accuse secondarie che i realisti, per odio di parte, presentavano numerose.
Tutto ciò, quantunque fosse nelle previsioni, pur non mancava di gettare un certo turbamento nelle tre famiglie, le quali, per sottrarsi ad altre violenze, pure da parte della soldatesca borbonica, che aveva occupato militarmente Tempera, si ritiravano ad Aquila. Anzi, una compagnia di quella soldataglia si collocava nella casa degli Strina, saccheggiandovi quanto vi si trovava. Gli stabilimenti, per l'allontanamento dei dirigenti e di molti operai, anch'essi compromessi, dovevano sospendere ogni attività.
Ma quella bufera, presentatasi così fosca, non toccava, non deprimeva gli animi forti dei generosi colpiti. Non emettevano un lamento quando lo speciale tribunale condannava l'ingegnere Isidoro Strina, già padre di cinque figli, a sette anni di relegazione, da espiarsi nell'isola di Ponza, ove era subito trasferito.
Tutti gli ideali, tutti i sogni di progresso, di felicità familiare, di unità e di libertà, cadevano ancora una volta sotto i colpi dell'umana malvagità. Ma non cadeva la speranza, che fiammeggiava sempre viva nel cuore, della riscossa e del trionfo della causa santa.


Gli Adamoli nel loro destino


Il lombardo e patriota Giuseppe Adamoli, distaccandosi, in quel frangente, dai suoceri e dai cognati, nella primavera del 1850, si rifugiava, con tutta la famiglia, nelle montagne del teramano, precisamente a Tossicia. Apriva successivamente, sul vicino fiume Mavone, con gli operai profughi anch'essi da Tempera, altra fonderia di rame. Idea ottima, poiché quell'attività lo liberava non soltanto dai morsi del bisogno, ma anche dai sospetti, di cui erano sempre circondati i forestieri.
Nella nuova dimora, alle falde del Gran Sasso, dalle valli fresche di acque limpide, dai boschi folti e musicali, vi era molta poesia, ma anche molta solitudine. Non vi erano strade, né mezzi di trasporto, e Teramo era molto lontano. Appariva un vero posto per esiliati.
Ciò nonostante, confortati dalla bella stagione e dai tre vispi bambini, che tenevano allegra la casa, gli Adamoli non se ne affliggevano, non disperavano. Quell'industria, d'altra parte, essendovi a Tossicia, e nei villaggi vicini, molti lavoratori di rame, già clienti di Tempera, vi si ebbe subito ad affermare, a prosperare.
Rendeva disagiata e dura quella vita, in primo tempo, l'inverno eccezionalmente cattivo: cattivo con le abbondanti nevicate; con il freddo intenso, che ghiacciava le acque dei torrenti e dei fiumi; con le bufere, che scendevano violente dai monti, seminando rovina, ove passava. Non mancava il pericolo dei lupi, cacciati dalla neve e dalla fame dalle loro tane, e il pericolo dei briganti, che si aggiravano, feroci come i lupi, per la contrada.
Ma anche quell'inverno, che aveva maggiormente segregato la montagna dalla pianura, passava. Con la primavera, con l'azzurro del cielo ed il verde dei boschi canori, la natura ritrionfava nella rinnovata divina giovinezza.
Anche i nostri, in quel santo risveglio, rinascevano alla vita ed alla speranza.


L'Italia, intanto, dopo le fiammate gloriose, ma sfortunate del 1848-49, con le restaurazioni assolutistiche, si trovava nel 1851 di nuovo prostrata sotto la sanguinosa reazione, capitanata dalla spietata Austria. L'Adamoli, quando poteva rimettersi in comunicazione con L'Aquila, sapeva i nomi di altri amici, mandati, come il cognato Isidoro, nelle sofferenze delle Isole del Mediterraneo. Tra essi figuravano il barone Cappa e due dei sette fratelli Castrucci, altra famiglia di eroi nazionali.
Ma sapeva anche, dolorosamente, la morte del suocero, avvenuta nell'agosto, ucciso dalle ansie, dalle sventure domestiche e nazionali.
Scompariva con Domenico Strina, prematuramente, un uomo di eccezionale attività, che era stato cittadino integerrimo, marito e padre esemplare, creatore di quell'industria ricca, per la contrada di Paganica e per i lavoratori, di tanti benefici.
Scompariva quell'uomo, tanto stimato ed amato, ma le sue virtù si trasmettevano, vive, nei figli. Si trasmettevano in padre Emidio, religioso di singolari doti, di vasta cultura, di infiammata penetrativa parola, di alto spirito di carità, santo nelle opere e nei costumi. Si trasmettevano in Isidoro, ingegnere di grandi qualità, che, seguendo le orme paterne, scriveva nella storia del patrio riscatto, con il proprio ardimento ed il proprio sacrificio, una luminosa pagina, di cui la discendenza doveva essere fiera, onorata. Si trasmettevano nelle figlie Sempronia e Doralice, di alto nobile sentire, mogli e madri esemplari, dal forte spirito religioso e patriottico.
Ma quella scomparsa procurava alla famiglia Strina, vivente ora ad Aquila, oltre l'acerbo lutto, preoccupazioni anche di carattere economico, avendo la proprietà non libera, gli stabilimenti chiusi, il capo relegato nelle isole maledette.
Non trovava conforto, pel momento, che nella bontà degli altri parente, e nella speranza di giorni migliori.


Con il tramonto dell'estate, nel pieno melanconico autunno, precisamente il 23 novembre dello stesso 1851, altro bambino, Aldobrando, si aggiungeva alla schiera, che teneva già allegramente in iscompiglio, a Tossicia, la famiglia degli Adamoli.
L'invernata, che seguiva, era, nel complesso, meno cattiva per i nostri, abituati ormai a quei luoghi, ed agli usi di quegli abitanti, sempre con essi rispettosamente ospitali.
Nel 1852, con il ritorno sul trono di Francia di Napoleone III, andava a capo del governo del Piemonte, faro sempre acceso di italianità, con grandi speranze, il saggio e scaltro Camillo Benso, conte di Cavour.
L'Adamoli, che seguiva attentamente gli eventi, sperava sempre che un qualche miracolo giungesse a modificare le sorti nazionali, e a metterlo in condizione di poter tornare, almeno per una volta, a rivedere la sua Valsassina, il magnifico lago, i parenti, l'adorata mamma. Aveva ricevuto qualche notizia, ma non sufficiente per soddisfare il suo desiderio, per calmare la sua ansia.
In quello stesso anno, il 12 agosto, un raggio di luce giungeva ad illuminare la desolata casa Strina, con il ritorno in essa, dopo tre anni circa di duro carcere, di Isidoro, per grazia ottenuta, per intercessione della regina, alla quale si era rivolta la buona moglie Angelamaria. Tornava in quella casa in cui, come si legge in uno scritto del tempo "...estintosi il signor Domenico, la superstite famiglia, allora composta dalla di lui vedova, della nuora, moglie del figlio Isidoro, già padre di cinque viventi figliuoli, con esemplare virtù ed abnegazione, seppe dignitosamente mantenersi all'altezza della sua sociale condizione".
Era stata la scarcerazione sempre un bene, quantunque vincolata da una rigorosa sorveglianza di polizia e dall'interdizione dell'esercizio professionale, ciò che durava sino alla liberazione d'Italia.
"Nonostante un tale incubo politico e morale" come si legge in un altro scritto del tempo "che durò sino al 1860, egli, colla sua intemerata condotta, seppe riscuotere l'ammirazione ed il plauso dei suoi conterranei, e nell'esercizio professionale d'ingegnere, a cui si dedicò con capacità e probità esperimentata, si creò, mercé il proprio onorato lavoro, dopo le tante perdite, la nuova agiata condizione".
Nel febbraio del 1853, nel decimo anno dalla partenza dalla sua Lombardia, l'Adamoli vedeva cadere ancora una volta un nuovo tentativo di riscossa nazionale. L'insurrezione, infatti, promossa dai repubblicani, con a capo Giuseppe Mazzini, a Milano, nella città sempre generosamente pronta a compiere disperati atti, era brutalmente spenta nel sangue ed in nuove dure condanne.
Nondimeno le speranze, sostenute da una forte fede, non diminuivano, né s'affievolivano.
Nel frattempo, il 22 settembre, il primo giorno di autunno, mite e dolce in quelle valli, giungeva ad ingrossare ancora la schiera dei piccoli, con molta gioia per i genitori, la graziosa Maria Cristina.
Nel considerare il loro stato gli Adamoli capivano, però, che per un migliore loro avvenire e dei loro figli, dovevano uscire da quell'isolamento, tanto più che la persecuzione politica era stata rallentata nei loro confronti.

Nella primavera del 1854, mentre a Parma lo squilibrato Carlo III cadeva sotto il pugnale dell'operaio Antonio Carrara, l'Adamoli, sollecitato anche da amici, tra cui un lombardo, si recava a Teramo, per esaminare sul posto un eventuale trasferimento nelle sue vicinanze. Pensava di aprirvi altra fonderia, in conseguenza di ciò s'incontrava con un tal Giandomenico Spinozzi, stabilendo, di comune accordo, che essa fonderia sarebbe sorta su un suo terreno, nel territorio di Rocciano, sul fiume Tordino, ove esisteva già un mulino.
La costruzione, sotto la direzione tecnica del lombardo, non tardava ad iniziarsi.
Durava quel lavoro, per le tante difficoltà da superare, due anni. Finiva nel 1856, anno in cui nasceva in quella famiglia altra bella bambina, Marta, ma che, procurando un forte dolore, non sopravviveva a lungo alla nascita.
Prima che l'inverno giungesse a chiuderli a Tossicia, i nostri si trasferivano nella nuova residenza. In un primo tempo avevano determinato di conservare anche la fonderia della montagna; ma essendo stata depredata, negli ultimi giorni, dai briganti, che infestavano la zona, mutavano parere.
Nella primavera del 1857, poco prima che Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera, sbarcassero, per farsi gloriosamente massacrare, con i loro eroici compagni, nel nome santo d'Italia e della libertà, nella funesta Sapri, nella vallata superiore del Tordino si rompeva quel silenzio, che vi regnava solenne da secoli. Il rimbombo improvviso dei magli, voce viva del lavoro, gettava nella contrada un non so che di briosa festività e di scompiglio. Gli uccelli, all'insolito rumore, svolazzavano, spaventati, di ramo in ramo; i cani ululavano, mentre il contadino, appoggiandosi alla zappa, si toglieva il cappello, ed il viandante, arrestando il cammino, benediva la voce, che saliva da quel nuovo lavoro: lavoro, festa della vita, sempre fecondo di prosperità, di serenità, di pace.
La contrada, che usciva dal sonno, si animava anche per le molte famiglie degli operai della fonderia, che vi erano giunte da paesi diversi.
Gli Adamoli, alla loro volta, sentivano di starvi meglio, con una maggiore fede in sé e nell'avvenire. Potevano provvedere, inoltre, per la vicinanza della città, ad una migliore educazione dei loro figli, che intanto crescevano robusti e vispi.
Il primo, Gelasio, molto vivace ed intelligente, contava già dodici anni. Il secondo, Luigi, piuttosto mite, non dava segno di speciali doti. Giovanni, che era il terzo, appariva il più delicato ed il più serio. L'ultimo, Aldobrando, si dimostrava, con i suoi sei anni, il più irrequieto, il più discolo. Della piccola Maria Cristina, profumato fiore di quel giardino, nulla ancora si poteva dire. Ma dagli occhi luminosi e belli, sin d'allora s'intuiva la gentilezza, la dolce bontà, che germogliava in fondo del tenero animo.


Tutto nel complesso andava bene, e non era trascorso un anno che già avvenivano nell'azienda, che prosperava, notevoli mutamenti. Per agevolare i clienti s'apriva in città un deposito di quei prodotti, che uscivano dalla fonderia. S'istituiva, impiegandovi altri operai, un laboratorio, per l'ulteriore lavorazione del rame, in modo da venderlo direttamente al pubblico, a prezzi più favorevoli.
Tutto ciò era notato e favorevolmente commentato dalla cittadinanza, che vedeva in questo laborioso, probo, onestissimo lombardo, una sicura promessa per l'avvenire industriale di Teramo.
Di molto rispetto era circondata donna Doralice, della quale i teramani conoscevano la bella storia di famiglia, e ne conoscevano il fratello, l'austero e dotto padre Emidio, che tante volte, applauditissimo, era stato a predicare, nei quaresimali, nel loro Duomo.
Uno di questi figli, in questo tempo, il Gelasio, che si dimostrava, nella sua esuberante adolescenza, sempre più vivacemente irrequieto, a cura, appunto, dello zio padre Emidio, era rinchiuso in un istituto di educazione dell'Aquila.


Il tramonto


La benedizione del cielo pareva che sovrastasse quella famiglia, illuminata, nella sua bontà, dalle più belle virtù. Ma il destino, spesso cieco, quasi sempre beffardo, continuava nel suo fatale andare. Sul principio del 1859, mentre i loro animi s'aprivano fidenti alle più liete speranze, anche per l'avvenire della patria, già avvolta dai canti e dalle fiamme del riscatto, il mite Giuseppe, l'uomo giusto e generoso, ammalava. Una polmonite metteva in pericolo, con la sua vita, la vita della nascente sua industria, della sua famiglia, appena in formazione. I medici lusingavano, i familiari s'illudevano, ma egli sentiva, con accoramento, la gravità del male, la brutalità del suo destino, e fantasticava.
Nel letto del dolore, mentre fuori la natura ringiovaniva nella primavera, non poteva non risalire, melanconicamente, alle vicende della sua vita movimentata. Non poteva non risalire alla fanciullezza, quando, dopo la scuola, nella calda stagione, correva spensierato, con piccoli amici, di poggio in poggio, di boschetto in boschetto, nella vasta pittoresca Valsassina. Non poteva non risalire al tempo in cui, disceso con la famiglia a Bellano, si tuffava d'estate nelle acque di quel lago di Como, sogno sempre degli innamorati e dei posti. Nel crescere negli anni e nel vigore, acceso dai più generosi fremiti, si rivedeva inscritto tra coloro, che, come Tommaso Grossi, tramavano coraggiosamente contro i tiranni, oppressori della patria. E ricordava la notte angosciosa, nella quale, giovane ormai, riusciva, come per miracolo, con altri, a sottrarsi al cerchio, che i Croati stavano stringendo attorno ad essi, in solenne riunione, per allargare i limiti della congiura; notte in cui, per evitare la cattura, doveva prendere la via del duro esilio. Ricordava, con viva tenerezza, l'addio, nella notte fredda, serena e vivida di stelle, alla cara madre, al buon padre, alla famiglia tutta; l'addio mesto ai suoi monti, alle sue valli, al bel lago, con il vago nero presentimento che non vi sarebbe più tornato. Le peripezie del lungo viaggio attraverso la Lombardia, l'Emilia, la Toscana e le Marche, l'arrivo nella terra, dalla quale si sentiva fatalmente attratto, rivivevano, con tutti i particolari, nel suo animo, acceso dalla febbre. E vivi gli sfilavano, nella mente turbata, gli episodi, gli eventi svoltisi nella nuova terra.
Si rivedeva a Tempera, sulle rive del poetico Vera, dalle acque chiare e tranquille, sorvolata dalle tenue libellule, e riviveva nell'incontro, con la gentile donna, fata benefica e conforto della sua vita solitaria, gioia e luce della sua nuova famiglia. Ma riviveva anche nella nuova pericolosa operosità, nelle nuove angustie politiche, verso le quali si era sentito irresistibilmente attratto dall'amore verso la tormentata spezzettata patria.
Gli si rifaceva alla mente la nuova fuga, resa difficile dalla neve, che copriva i monti, e il soggiorno, quasi tranquillo, di Tossicia, e il trasferimento sulle rive del Tordino, ove contava di dare nuova agiatezza alla famiglia, uno stato più elevato ai cari figli.
Se ne andava, invece, quando non era che a metà, nel suo cammino terreno, e non erano stati compiuti che in parte i santi doveri verso la famiglia, la società, la patria. Quella patria sempre bella, maggiormente amata nelle sue sventure, che proprio in quei giorni, con eroiche gesta, stava per spezzare le catene della sua lunga, penosa schiavitù; stava per sciogliere le campane al suono della conquistata libertà ed unità.
Se ne andava senza aver potuto rivedere, almeno ancora per una volta ancora, i suoi monti, la verde vallata, il lago, il dolce luogo natio; senza aver potuto riabbracciare, per una sola volta ancora, gli amici di lassù, i parenti, la cara dolce madre.
Se ne andava davvero il nobile mite Giuseppe, in una serena giornata di giugno, dopo aver confortato, con elevate affettuose parole, colei che gli era stata sempre vicina, che aveva con lui diviso le ansie più vive, le gioie più pure. Tramontava dopo aver parlato agli addolorati figliuoli, che ne circondavano il letto, sull'adempimento di quei doveri, che rendono, anche nelle vicissitudini e nella sua brevità, bella e benedetta la vita.
Mentre le armate latine, liberata la Lombardia, avanzavano verso il Mincio, Giuseppe Adamoli, il credente sincero, il profugo di Narro, il cospiratore dell'Aquila, l'iniziatore a Teramo di una fiorente industria, il marito e il cittadino dalle non comuni virtù, saliva a dormire l'eterno sonno, lassù, nella piccola silenziosa chiesa di Rocciano.
Saliva lassù, al bianco villaggio, attraverso i valloncelli, nei cui cespugli di biancospino cantavano gli usignuoli. Saliva per la collina coperta di ginestre e di ulivi, accompagnato dal piano del popolo, dalla pietà, dall'affetto, dal dolore degli amici e dei parenti.
Per qualche giorno la vallata del Tordino, con l'arresto dei magli, ricadeva nel silenzio. Poi tornavano i rumori, la vita, le speranze.


La fierezza di una madre


Mentre l'Italia, con la forza del diritto e delle armi, correva verso la nuova gloriosa sua storia, all'Aquila, presso la famiglia Strina, presieduto dal buon padre Emidio, sempre presente nelle sventure, si adunava una specie di consiglio, per esaminare e per provvedere sul luttuoso caso di Teramo. Le determinazioni che ne seguivano, suggerite, certo, dal buon religioso, risultavano umanamente fraterne, ma non erano accettate dalla dolorante fiera madre. Ognuno, presa la sua via, la doveva percorrere in armonia dei decreti del proprio destino. Non si sarebbe, ad ogni modo, mai allontanata, qualunque gli eventi, dal luogo, nel quale il suo nobile compagno dormiva il suo eterno sonno.
Anche i figli sarebbero rimasti presso di sé, nella propria casa, nella loro libertà. Cedeva soltanto per la piccola Maria Cristina, che il fratello Cappuccino collocava ad Aquila, in uno istituto, retto da Suore.
Quella madre si trovava, in tal modo, sola dinanzi all'avvenire suo e dei quattro figli, avendo ritirato dall'Aquila anche Gelasio, che vi studiava.
Determinazione lodevole, da forte donna, ma quella madre s'assumeva, con quell'atto, una penosa responsabilità. I mezzi finanziari, per il sostegno della famiglia, derivavano principalmente da quell'industria: industri che richiedeva, perché rendesse e prosperasse, continua oculata vigilanza, capacità, molta attività.
Essa, invece, per la sua nascita e per la sua educazione, nessuna pratica aveva per gli affari, forse nessuna attitudine. Piccoli erano i figli. Prima di addivenire, ad ogni modo, a modificazioni, voleva trarre consiglio da un pratico esperimento. Sperava di trovare adeguata cooperazione nel figlio Gelasio, ormai di quindici anni, bene sviluppato, intelligente, e nei capi operai.
Vane speranze. Non tardava ad accorgersi che per l'egoismo, che sempre guasta l'umana natura, ognuno cercava di trarre, dalla sua inesperienza, i migliori profitti.
Anche il figlio Gelasio deludeva. Non dimostrava, certo anche per l'età, soverchia comprensione e serietà. Spesso, come insofferente di quella vita, s'allontanava. Spesso, mentre i magli battevano, con un berrettino rosso in testa, lo si vedeva saltare i fossi, attraverso il fiume, arrampicarsi su per i dirupi. Ricercava per la verde valle, per i poggi, per le campagne, le belle ragazze, prendendo parte alle loro feste, ai loro canti, ai loro balli. Era un ragazzo simpaticissimo, ovunque bene accetto e vezzeggiato.
Nell'anno seguente, 1860, particolarmente colpito dall'entusiasmo patriottico, che scuoteva l'Italia insorta vittoriosamente, tentava, con altri ragazzi, una fuga, per raggiungere Garibaldi, già in gloriosa marcia, per la conquista del regno borbonico. Il sangue non mentiva. Nelle vicinanze di Napoli, però, per la giovane età, era fermato e ricondotto a casa.
L'esperimento, dovendosi ritenere ormai concluso, ed in modo sfavorevole, consigliava quella madre a modificare, anche se a malincuore, i suoi progetti. Rinunciava, di conseguenza, alla gestione della fonderia a favore degli Spinozzi, che l'avevano, con insistenza, richiesta. Conservava solo per sé, nella contrada della Cona, nei pressi della città, ove si trasferiva, il laboratorio di rameria ed il magazzino di vendita.
Nuova vita, quindi, che se era ancora avvolta di mestizia e di pianto, pur faceva trapelare, tra le nubi nere, una qualche luce di speranza, per il prossimo avvenire.
Quale poteva essere questo avvenire? La sfinge, nel suo mistero, non rispondeva. La buona mamma s'abbandonava, talvolta, con spirito profetico, alle previsioni dell'avvenire. Ma vedeva che doveva fare molto cammino, sulla strada dolorosa, prima d'incontrare sprazzi di sereno.
Intanto la patria, a favore della quale gli Adamoli e gli Strina avevano dato il loro entusiastico contributo, concludeva la prima più importante parte del suo programma nazionale su i colli insanguinati di Solferino e san Martino, gloriosamente.
Con i cinquecento, che, con Garibaldi, conquistavano all'Italia il regno delle due Sicilie, vi erano stati della famiglia ben due Adamoli, studenti universitari: Giulio e Carlo. Vi sarebbe stato anche Gelasio, se maggiore fosse stata la sua età.


Nella vallata del Picentino


Si giungeva, così, senza notevoli mutamenti, al 1865, quando Gelasio, giovane ormai di venti anni, tendente alle avventure, s'arruolava nelle milizie, che operavano contro il brigantaggio, infestanti il meridionale.
Di contrada in contrada, come dal destino sospinto, arrivava su le montagne, fitte di boscaglie, del salernitano. A Giffoni Vallepiana, nella vallata del Picentino, ove era una specie di presidio militare, si incontrava con un altro lombardo, cugino del padre, Antonio Adamoli, che vi esercitava una complessa ricca industria. Dopo la festa dell'inaspettato incontro e dopo i racconti, lo invitava a congedarsi e a rimanere con lui, offrendo fraterne condizioni.
Il nostro Gelasio accettava si per porre fine alla movimentata vita, sia per la bellezza della contrada, ricca di acque, di verde, di aranci.
Nella Pasqua del 1868, che cadeva d'aprile, mese sempre caro ai poeti e agli innamorati, aveva un incontro gentile. Nella chiesa di San Lorenzo, ove si era recato per ascoltarvi la messa della resurrezione, lo colpiva la vista d'una giovane alta, snella, dagli occhi e dai capelli nerissimi, raccolta nella sua preghiera aristocraticamente bella. Ve la rivedeva nelle domeniche successive, sempre più bella nella sua serietà ed elegante semplicità.
Anche lui non era sfuggito a quella giovane, che, nei suoi diciassette anni, schiudeva allora il suo animo, come un fiore di maggio, ai palpiti, ai sogni della vita.
La dea benefica, alla quale, nonostante la gioiosa spensieratezza, aveva pure pensato, era comparsa luminosa, sulla sua via, ma accompagnata da molte difficoltà. Apparteneva essa a quella famiglia Marotta, che discendente, con superbi titoli da forti feudatari, viveva, anche se decaduta, nel tradizionale orgoglio. Pareva che non si potesse ad essa avvicinare chi non avesse una storia, non possedesse un feudo ed un blasone.
Né era possibile avvicinare la bella Maria Carolina. Non usciva di casa che accompagnata dalla madre, o, come gendarmi, da due severe zie, Maria Gesù e Maria Concetta, rimaste zitelle per debolezza, appunto, di casta.
Quando le poteva far giungere un biglietto, era consigliato di rivolgersi ai genitori, ciò che egli faceva a mezzo del parente Antonio, che godeva nella contrada molta riputazione e rispetto.


Quando il nostro giovane era ammesso in quella casa, poteva osservare da vicino i segni davvero superbi dell'antico casato. La storia dei Marotta, che risaliva ai secoli, pur attraverso le vicende tumultuose del regno delle Due Sicilie, non si era mai offuscata. I protagonisti avevano sempre conservato, con l'autorità ed il censo, alte cariche di responsabilità e di comando. Ed avevano conservato il titolo di duca di Castelnuovo, del quale era stato insignito don Pasquale Maria Marotta, trasmissibile ai suoi discendenti.
Molti e vasti possedimenti avevano avuto a Giffoni, a Montecorvino Rovella, a Castelnuovo e in altre contrade della feconda Campania e della montagnosa Calabria: possedimenti, dei quali non rimaneva, però, dei Marotta, che soltanto il nome, un tempo tanto temuto e rispettato.
Tra i feudi perduti, figurava, in provincia di Avellino, il monte Partenio, sotto la vetta del quale era fiorito, nell'antichità, il Tempio di Cibele, molto famoso, visitato anche dal mistico Virgilio, che vi si intratteneva a lungo, in filosofiche conversazioni, con i suoi austeri sacerdoti. Quel Tempio che, avvolto da un paesaggio incomparabilmente bello, era in seguito trasformato, con una ricca Abazia, nel celebre Santuario di Monte Vergine.
Di quel feudo, però, ricevuto in legittima eredità dal consanguineo barone Scarpa, non risultando chiare le ragioni della perdita, era in atto, per il ricupero, una vertenza giudiziaria: vertenza che si disperava di condurre avanti, per le ingenti spese che richiedeva.
Sapeva anche, nel doloroso racconto, specialmente dalle vecchie zie, accese di santo sdegno, che la perdita dei beni avveniva non molto prima, determinata dal loro padre, don Donato, nell'ostinatezza di un pericoloso giuoco d'azzardo. Una notte, quella stessa in cui esse nascevano, circuito da disonesti amici, che ricorrevano per vincere anche alla frode, perdeva una somma così elevata da pregiudicare notevolmente il loro patrimonio.
Con la fatale caduta dei Borboni, verso i quali i Marotta si erano sempre conservati fedeli e devotamente affezionati, era pure caduta, e per sempre, ogni loro speranza di un risorgimento.
Questi racconti non potevano non scuotere, nell'ascoltarli, il sensibile Gelasio, il quale pensava anche che senza quelle vicende, per la sua qualità di forestiero, non sarebbe stato, forse, mai ammesso in quella casa. Casa che con le sue mura massicce munite di fortini e di feritoie, come castelli medievali, con i pavimenti di granito, con le soffitte dorate, con l'austerità che spirava da ogni cosa, da ogni oggetto, da ogni persona, stava bene a ricordare il tradizionale orgoglio, la possanza, i diritti non violabili del sangue di quella rigida antica famiglia.
Anche lui, con un certo patriziato, poteva vantare sangue non comune, ma era sempre forestiero. Nel rimirare la gentile bellezza della donna che stava per far sua, non poteva non benedire, nel suo segreto, quel don Donato, che, con il suo cervello balzano, aveva reso possibile, nella decadenza, l'accoglimento della sua domanda.


Comunicava, con gioia, quell'evento a Teramo. Ma la madre non se ne commuoveva di molto, né interveniva alle nozze, celebrate, con austera semplicità, nell'estate del 1869, in quella stessa chiesa di San Lorenzo, ove era avvenuto il primo incontro.
Gli sposi, dopo il rito, spiccato il tradizionale volo, s'andavano a posare, nella loro giovinezza e felicità, su i colli profumati dell'incantevole Napoli. Dall'alto di quei colli, nel mitico Vomero, tuffavano, i loro animi, quasi smarriti, nell'azzurro del mare, che spumeggiava di sotto; nell'azzurro di quel golfo che pareva splendesse, con le delicate tinte, in una sola manifestazione di divina poesia.
Ma scendevano anche lungo l'infiorato Posillipo, alla Tomba sacra di Virgilio; ai ruderi delle città sepolte; ai tesori, che la città raccoglieva e custodiva gelosamente nei suoi musei, nei suoi segreti scrigni.
Tornavano, poi, nei doveri della vita, a Giffoni Vallepiana. Nei giorni festivi, come continuando nel sogno, si isolavano ancora andando per i poggi, per le valli folte di ulivi, di aranci, di castani. Visitavano, commossi, le contrade, che avevano ancora il nome dei Marotta; visitavano i villaggi, disseminati lungo la vallata, discendente dai monti Mai; visitavano l'antico Castello di Terravecchia, ricco di storia e di leggenda. Andavano alla casa della mamma, donna Maria Concetta Curci, a Montecorvino Rovella, grandiosa anch'essa ed antica; andavano a Castelnuovo, a San Cipriano, a Salerno, ovunque fosse ancora un ricordo della grandezza della decaduta famiglia.
Dopo un anno, poco prima che i bersaglieri conquistassero Roma all'Italia, il 14 magglio del 1870, giungeva un figlio. Questa nascita, che poneva la casa in festa, offriva l'occasione di ricordare, con il nome di Giuseppe, il nobile padre, che dormiva nella piccola chiesa di Rocciano.


A Giffoni, senza dubbio, stava bene. Ma la nascita di quel bambino, al quale ne sarebbero seguiti altri, richiamava il Gelasio a nuovo doveri. Doveva battere, per l'avvenire della famiglia, altra via, tentare, altrove, altra fortuna. Ricordava certe condizioni poste dalla madre agli Spinozzi, quando cedeva loro la fonderia di Rocciano. Pensava, quindi, ora che ne aveva i mezzi e le capacità, di far valere a suo vantaggio quelle condizioni, di tornare a gestire, per suo conto, quella fonderia.
Le pratiche, iniziate subito, potevano essere condotte a termine, per le difficoltà da superare, dopo circa due anni. Partiva per Teramo, la nostra famiglia, quando un altro bambino, Antonio, era giunto ad allietare la casa.
Il distacco da Giffoni non poteva non essere, per la Maria Carolina, doloroso. Lasciava i parenti, i fratelli, la mamma, che, con lei, era stata sempre buona ed affettuosa, e i cari luoghi della sua nascita e della sua giovinezza. Prima di partire aveva voluto visitare il convento dei Cappuccini, lassù in alto; la chiesa dell'Annunziata, ove si conservava una delle spine del martirio di Gesù; la chiesa di San Lorenzo, ove aveva partecipato, sin da bambina, a tutte le funzioni, cantando nei cori con la sua chiara bella voce.
Nel momento di partire non poteva non avere dinanzi a sé, con l'animo in tumulto, che la visione di un paese sconosciuto, di gente nuova, in una nuova vita.
La nostra famiglia, in cammino con molte speranze, giungeva da Foggia in vista dell'Adriatico, mentre sorgeva dall'acqua, che palpitava, scintillante e maestoso, il sole, regolatore del tempo, confortatore delle anime in pena. Quell'Adriatico, su i fremiti del quale correvano, vicino e lontano, vaghe come farfalle, le vele ardite dei pescatori.
Da Giulianova proseguivano il viaggio per Teramo in carrozza, non essendovi ancora il treno. L'incontro con i familiari non era molto festoso. La madre, donna Doralice, che pur si trovava dinanzi ad una bella nuora e nobile, e a due vispi nipotini, uno dei quali portava il nome dello scomparso compagno, conservava un contegno riservato, se non freddo.
L'inizio non era lieto, ma non aveva importanza. I nostri proseguivano, per vivervi soli, verso la fonderia di Rocciano. Là, donna Maria Carolina dei duchi di Castelnuovo, aveva un'altra delusione. Non vi erano attorno all'abitazione occupata da lei, modesta essa stessa, che poche case rustiche; non vi si vedevano che i contadini, che lavoravano nelle vicine campagne; non vi si udiva che il rumore uguale, monotono dei magli della fonderia, che era nel basso, nella valle, sulle rive del Tordino. Non poteva scambiare parole, in un dialetto che non capiva, che con la famiglia di Candeloro Broccolini, la più vicina e la più civile.
Intanto la notizia dell'arrivo dalla Campania di questa signora correva nella contrada. Giungevano, a mano a mano a visitarla, dai vicini villaggi, molte famiglie. La visitavano: da Rocciano alto donna Francesca Spinozzi, signora anch'essa, bella e simpatica, nata Sciarrone, di Mosciano San'Angelo; da Frondarola la signora D'Antona e la signora del farmacista Tobia Mattucci; da Villa Ripa le signore Guerrieri di Di Bartolomeo.
Col passare del tempo andava, in tal modo, adattandosi, affezionandosi a quella vita, a quelle persone non prive di cortesia e di bontà; a quei posti, che erano, nei paesaggi pittoreschi, pur belli; a quella vita, molto movimentata.
Rientravano, nell'attività della casa, oltre l'importante fonderia, ove lavoravano molti operai, anche un mulino ed un podere, esteso e produttivo. A carico della casa vivevano, inoltre, molte altre persone, addette ai diversi servizi.
La fortuna, non favorevole a Giuseppe Adamoli, pareva che, in una diversa forma, fosse benigna al figlio Gelasio.
Così era stato superato l'inverno, in verità molto rigido, molto diverso, certo, dagli inverni, a clima primaverile, del salernitano. Non aveva mai visto, la Maria Carolina, tanta neve coprire, quasi festosamente, strade, alberi, campagne.
Sopraggiungeva, con il verde e con i fiori, la dolce primavera, ma la suocera, che non poteva non ammirare in segreto le virtù della nobile nuora, non mutava con lei contegno. Degli altri non si poteva lagnare. Molto educato appariva Giovanni, e molto buona la moglie Annunziata De Marco, che aveva, per la cognata venuta di lontano, molta simpatia, molto affetto. Non scortese si mostrava Aldobrando, da poco tornato dal servizio militare. Anche Luigi, sposato in campagna, a Maria Grazia Falcone, appariva rispettoso. Nulla poteva dire di Maria Cristina, passata due anni prima, per profonda fede, dal collegio di Aquila, a monaca di clausura, in un convento di Firenze.
La casa, in cui vi era tanta abbondanza, e vi viveva attorno tanta gente, pareva che corresse sicura, verso il suo migliore avvenire.
La buona figliuola, lieta, lo scriveva alla madre, laggiù, nel salernitano.
Nella certezza di quell'avvenire, nella gioia di quella prosperità, negli anni che appena seguivano, quella madre regalava alla famiglia altri due bambini: Ciriaco e Maria Concetta, sani e belli, come i primi, che intanto crescevano.
Dopo nasceva Umberto, il quale continua, per suo conto, queste or meste or liete memorie.


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