Umberto Adamoli
Nel turbinio d'una tempesta
(dalle pagine del mio diario. 1943-1944)

Scintille in fuoco spento

[32] Mentre si svolgevano tali avvenimenti, il prof. Mario Morricone, uomo di onesto sentire e di lettere, sollecitato da Roma, determinava di riattivare, secondo il nuovo concetto, la Federazione dei Fasci di Combattimento. Era per lui, anima semplice e buona, una quistione, forse, di coscienza e d' onore rispondere all'invito, quando, nel generale smarrimento, tutti fuggivano. Le autorità, però, in un momento tanto confuso, non vedevano di buon occhio tale rinascita, ma con i Tedeschi in casa, per ragioni di prudenza, non ne parlavano.
Molte adesioni erano determinate, evidentemente, da sincero generoso impulso; ma altre, più che da ragioni ideologiche, o convinzioni politiche, da calcoli di pratica opportunità. Le insegne del littorio, che si intendevano rialzare, sia pure con molto rischio personale, potevano, ad ogni modo, concorrere a placare, come in verità placavano, e bisogna tenerne conto nella valutazione, la rabbia tedesca, sempre pronta a compiere, specialmente in quel primo momento, atti di sanguinosa violenza.
Poichè a Roma pareva che non si mantenessero gli impegni, consacrati nel nuovo patto, che dovevano condurre verso più libere democratiche istituzioni, non tardava a prodursi, tra gli inscritti, molto malcontento, manifestato pure nelle libere discussioni. Di conseguenza, lo stesso Morricone, offeso nella sua sensibilità e nella sua buona fede, indiceva una assemblea straordinaria, senza chiedere al Prefetto, divenuto, nel frattempo, capo anche politico della provincia, alcuna autorizzazione. Pronunciava, contro il nuovo inganno, una coraggiosa aspra requisitoria, approvata unanimamente dai presenti.
[33] Da quel momento la Federazione repubblicana di Teramo si doveva ritenere virtualmente sciolta. Il tentativo del prefetto Ippoliti di tenerla, per ragioni soprattutto politiche, ancora in vita, con. la nomina di altro commissario, nella persona di Ansaldo Anselmi, credo che non riuscisse. Vi potevano essere ancora i quadri, costituiti dai più fedeli, ma pochi i gregari.
Dagli stessi fascisti non si riteneva, generalmente, di fomentare nuove discordie e nuovi odi, quando più grandi divenivano le sventure della patria. Anzi in qualcuno non era mancata l'idea di giungere ad un accordo con gli stessi partigiani, per concretare, con spirito italiano, un'azione comune contro tutti gli stranieri, che sconquassavano, bagnavano di sangue le nostre belle contrade.
Anche l' esperimento di ricostituire la Milizia non riusciva pienamente. Nella lusinga di sottrarsi ad altri più pericolosi obblighi, ed attratti dalle promesse di buone retribuzioni, vi potevano accorrere, sul principio, molti giovani. Ma su di essi i comandi, sia per l'età, sia per l'affrettata preparazione, non potevano fare sicuro affidamento. Non sostenuti, inoltre, dalla fiamma di un ideale, nè da una forte fede nella loro missione, facilmente si stancavano, si sbandavano, disertavano. Non pochi, qualche volta anche con le armi, raggiungevano in montagna i partigiani. Ma altri, specialmente gli anziani, restavano fedeli all'idea e al giuramento.
Alcuni, anche giovani e pieni di promesse, ebbero a pagare con la vita la colpa d'aver indossata, fuori tempo, la divisa fregiata dei segni del littorio. Essi, in verità, non avevano mai fatto alcuna azione di forza contro i fratelli, che vivevano sulla montagna, ed anche nelle vicinanze della città, con altri ideali.
A mano a mano però che gli Alleati si avvicinavano i diversi tipi di battaglioni, dai nomi sonori, si disfacevano, scomparivano. Negli ultimi giorni di quei battaglioni non erano rimasti che i quadri, abbandonati a se stessi, nelle loro melanconiche riflessioni.

[Capitolo Precedente] - [Indice] - [Capitolo Successivo]