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Discorso pronunciato da Umberto Adamoli al Teatro Comunale di Teramo l'8 gennaio 1931 nel corso di una manifestazione mitragliera promossa dal Fascio femminile


Mitraglieri e mitragliatrici

Gli antichi, per eccellenza guerrieri, per elevare a divina bellezza il valore, la forza vittoriosa; per inalzare al sublime la poesia eroica, dotavano i combattenti di spirito e poteri sovrumani. Non si peritavano dal far discendere spesso dall'Olimpo, nelle contese umane, gli stessi Dei potenti e bellicosi. Ma creando con la calda, con la fervida fantasia il trionfatore di ogni forza non potevano mai supporre che un giorno, per effetto, per virtù di un ordigno guerresco di creazione umana, le gesta meravigliose del loro più forte eroe potessero essere nella realtà superate.
Ed invero, quello che ebbero a compiere le mitragliatrici di cui oggi qui si parla, si compie un rito, doveroso, santo rito, supera di molto le splendide e commoventi narrazioni della leggenda.
La storia di queste armi, adunque, non discende dai secoli. Sembra che nella ricerca affannosa di mezzi sempre più distruttivi nella difesa e nell'offesa una intuizione l'avesse già avuta, nella sua vasta mente, il grande Leonardo da Vinci, allorquando designava un archibugio che da solo raggiungesse gli effetti di molti archibugi posti insieme. Ma né dai suoi studi, né da quelli degli altri, nei secoli successivi, con il concetto delle canne riunite, delle canne multiple, s'ottenevano decisivi risultati. Nelle guerre del secolo scorso, come quelle di Secessione d'America e coloniali; come quelle Franco-Prussiana-Anglo-Boera, comparivano armi celeri sì, ma gli svantaggi su i vantaggi erano tali da non consigliarne, da non incoraggiarne la diffusione. Anche l'Italia, nel 1895, nella battaglia di Dogali, in Eritrea, faceva con le Gardner un infelice esperimento. Sul principio del nostro secolo, l'ingegnere Maxim, continuando negli studi iniziati sin dal 1884, rendendo più perfetto il meccanismo, meglio utilizzando la forza di espansione dei gas prodotti nello sparo, dava vita alla vera odierna mitragliatrice, ossia a quell'arma che con poteri davvero diabolici, consentiva ad un solo uomo, se ben temprato, di poter affrontare e sgominare interi reggimenti; a quell'arma che con il getto portentoso dei suoi cinquecento colpi al minuto, riceveva, a giusto titolo, il terribile nome di falciatrice. Nella guerra Russo-Giapponese, ove largamente se ne provavano i micidiali effetti, ricevevano l'altro nome, non meno terribile, di Annaffiatoio della morte.
Ora è da pensare, una volta conosciuta, come quest'arma fosse ovunque accolta e con quanta sollecitudine, nella gara degli armamenti, ogni Stato provvedesse a ben fornirsene. Non solo, ma ogni Stato, per sottrarsi ai pericoli dei rifornimenti stranieri, in caso di bisogno, studiava per crearsi, sullo stesso tipo, un'arma ed una fabbricazione propria, nazionale. Di conseguenza anche l'Italia, dagli studi dei propri ingegneri, poteva avere, con la Fiat, la sua migliore moderna mitragliatrice; vera provvidenza, poiché proprio all'Italia, nel momento del bisogno, nella guerra ultima, mancava il rifornimento delle Maxim, che le doveva essere fatto dall'Inghilterra.
Vera provvidenza, ma allorquando nel maggio del 1915, quel maggio di vivi fremiti passato alla storia col nome di radioso, con nuovo spirito, si riprendevano le armi lasciate nel 1866, in un giorno non di fortuna, sui campi di Custoza e nelle acque di Lissa, purtroppo, non ve ne erano molte di queste armi. Alle migliaia degli altri eserciti l'Italia non ne poteva contrapporre che poche centinaia: una Sezione di due armi per ogni battaglione; molti battaglioni, anzi molti reggimenti ne erano anche senza. Forse non era ancora ben penetrato in tutti il convincimento della loro necessità, della loro utilità, della loro potenza nei combattimenti; o forse il ricordo non favorevole degli inconvenienti, degli inceppamenti nelle sabbie Libiche, non ne aveva incoraggiato una larga dotazione. Non solo, ma molti le riguardavano ancora con diffidenza, quasi con dispregio, come oggetti ingombranti, da non servire ad altro che ad attirare le mire delle artiglierie avversarie. Ma nella dura prova del fuoco, nella guerra che si combatteva, anche per le lezioni che ci giungevano dagli avversari, non si tardava a comprenderne il vero, grande valore. I disegni audaci dei nostri migliori reparti dallo spirito Garibaldino di quel primo periodo, come i combattenti ben rammenteranno, spesso urtavano, si infrangevano contro questi durissimi scogli, nidi invisibili ma terribili di proiettili, di cui, nella deficienza degli uomini, era ben munita la difesa nemica. E di quel tempo mi sia consentito che io ricordi, anche per onorare i caduti, poiché ogni cerimonia, ogni festa patriottica deve essere anche una esaltazione degli eroi, dei benigni della patria, tra i tanti, un episodio di valore e di dolore. Era stato determinato nel Trentino, mi riferisco al Trentino per parlare soltanto di cose viste, e propriamente sul fronte dell'Altipiano dei Sette Comuni, uno sbalzo in avanti, uno sbalzo verso la dolente, la martoriata Trento. I cannoni, i nostri cannoni, che per cinque giorni si erano nobilmente adoperati, affaticati a colpire, a sconvolgere i forti campi trincerati degli avversari, ritenendo di aver compiuto l'opera già tacevano. Dovevano ora entrare in azione le fanterie. Nella notte del 15 agosto del 1915 prescelta per l'attacco, serena, chiara notte di luna, in apparenza tutto dormiva, ma all'orecchio teso nella solennità del momento giungevano bisbigli, voci misteriose, come di tomba. Lo spazio stesso, nell'attesa e nella accesa fantasia, si popolava di vive immagini, di strane visioni. Nell'imminenza dell'attacco e della lotta cruenta bagliori strani pareva che avvolgessero gli animi attoniti dei combattenti, come già vaganti sulla soglia del mistero, sulla soglia della morte. Scoccava l'ora. Il bel reggimento del valoroso colonnello Rivera, il 115, rompendo l'indugio, moveva per primo risoluto e compatto all'attacco. Nessuna fanteria, di certo, ne avrebbe potuto spezzare la foga assalitrice. E conquistata la prima, si slanciava con irresistibile, con entusiastico impeto sulla seconda trincea, sull'agguato, sull'insidia oscura e terribile. Al 'Savoia' di vita e di vittoria dei nostri, riecheggiante per le valli, rispondeva d'improvviso lugubremente il rauco canto di morte delle micidiali armi... Nonostante lo sforzo eroico per un altro sbalzo in avanti, per un altro sbalzo sull'insidia, per superare l'insuperabile, in pochi minuti l'intrepido reggimento cadeva quasi per intero falciato. Il nuovo giorno illuminava bagnato di sangue la strada di Trento. Onore ai prodi caduti!
Le dure lezioni non rimanevano, però, senza insegnamenti, e prima di un anno con le stesse armi e su quegli stessi posti l'ardimentoso reggimento poteva essere vendicato. Gli Austro-Tedeschi, nel maggio del 1916, trovavano appunto nelle mitragliatrici la causa prima del fallimento dei loro pazzi, minacciosi disegni della loro grandiosa spedizione cosiddetta punitiva. Chi era in quel periodo su quel fronte può ben rammentare la pioggia di proiettili di ogni calibro, compreso i 420, che per intere giornate cadeva spaventosa sulle nostre posizioni. Dopo la tregua della notte, tregua di cannoni, in ogni nuova alba, fresca, rosea alba di maggio, risvegli di vita in contrapposto con inesorabile ed esasperante puntualità, con crescente veemenza, si riprendeva l'opera infernale di distruzione e di morte. Con le trincee, con le opere fortificatorie, cadevano anche i prodi difensori, che per verità, per sciagurato caso, non erano molti, in quel momento, su quel fronte. Pareva che non vi dovesse essere salvezza. Se avessero superato senza molti contrasti le prime linee, forse ai barbari, in forza del numero e dei mezzi, non sarebbe stato difficile di continuare, prima dell'arrivo dei rinforzi, nella loro marcia maledetta, verso le agognate, doviziose pianure venete. Al più prodo degli uomini, al più eroico dei manipoli, in quelle condizioni, con le comuni armi, non sarebbe rimasto che compiere il divino sacrificio dell'estrema difesa, soltanto per un'eroica affermazione, soltanto per ubbidienza alle sacre leggi del dovere, dell'onore, della patria. Ma mentre qua e là avvenivano inevitabili crolli; mentre, nella furia di ferro e di fuoco, nel terreno sconvolto, si aprivano larghi varchi, elevandosi ad alta potenza, ebre di vendetta e di sangue, le micidiali armi rimanevano spesso da sole a fronteggiare, ad arginare le torbide onde invaditrici, a sfidare il destino. Non s'udiva allora nel cozzo, nella mischia feroce e sanguinosa, che gli urli delle furie, degli energumeni colpiti a morte, ed il canto che accompagnava le erinni tremende nella spietata ma santa opera sterminatrice.
Pareva che quelle armi infondessero ai combattenti, con la loro potenza, un sovrumano vigore, una pazza esaltazione. Stringendole all'impugnatura sembrava che mitraglieri e mitragliatrici, nella viva volontà di lotta e di vittoria, formassero un solo bronzeo corpo con una stessa anima, avido di colpire, di abbattere, di uccidere. Molti di quei nuclei, così tenacemente, ferreamente costituiti, compiuto, nel supremo cimento, lo sforzo massimo, superiore sempre alle possibilità umane, scomparivano negli incendi delle battaglie, come spiriti magni, gloriosamente, dovendo spesso generosamente sacrificarsi, perché tale era il comandamento, per la salvezza degli altri; dovevano spesso sacrificarsi per far superare, per far vincere una crisi. E le truppe in crisi trovavano sicurezza e tranquillità, nei loro non facili movimenti, in questi minuscoli nuclei, che sparsi qua e là pel campo di battaglia, non cedevano mentre tutto intorno crollava; non cedevano e non tacevano, mentre dai boschi abbattuti ed in fiamme, dal terreno sconvolto, dalle case diroccate, dai campi devastati saliva, si distendevano a mano a mano lugubre e il silenzio e la morte; non cedevano e non tacevano finché nella mischia restasse intatta una mitragliatrice ed in vita un mitragliere. E ben lo dimostravano, in quelle tragiche giornate del Trentino, i Mitraglieri del Costesin, dal generale Murari Brà chiamati, nel suo libro di ricordi, pugno di eroi leggendari, per avere resistito vittoriosamente ai furiosi e ripetuti attacchi delle migliori truppe nemiche, lanciate pazzamente in ordine chiuso ed ubriache all'assalto; per avere vittoriosamente resistito, in ultimo con una sola arma e largamente falciato le furie assalitrici, mentre le proprie truppe ripiegavano e si riordinavano con tranquillità nelle linee di resistenza arretrate. Lo provavano i mitraglieri del Monte Lèmerle che con due sole mitragliatrici affrontavano e sgominavano un intero reggimento sceltissimo ungherese ed altre truppe, salvando e mantenendo VALOROSAMENTE l'importantissima posizione attaccata con particolare furia. Lo provavano i mitraglieri del monte Zovetto, che cadevano gloriosamente sulle proprie armi e sui cumuli di cadaveri nemici da essi stessi falciati in una lunga, titanica, disperata lotta. Lo provavano le mitragliatrici non meno gloriose del Sisèmol, e le mitragliatrici della Vallarsa e di tanti altri posti, che fiaccavano sanguinosamente e con gloria l'imbaldanzito nemico. Azioni gloriose, d'altra parte, compiute anche prima e che, dopo il trentino, si ripetevano, come possono far fede i combattenti, su tutta la linea di battaglia, e in Albania, e sul Piave, e sui monti, e sugli altipiani ancora, per tutta la durata della guerra, nei momenti più pericolosi e tragici. Azioni gloriose che culminavano nella gloriosa cifra di 150.000 mitraglieri caduti sulla propria arma e nella concessione al loro valore di ben ventitré medaglie d'oro e nelle motivazioni che costituiscono oggi il più bel poema eroico che si sia mai scritto: poema non di bizzarra, esaltata fantasia, ma di superba, luminosa verità. Gloria del resto divinata, riconosciuta, consacrata dall'augusta Signora d'Italia, quando sullo scorcio del 1916, commossa ed ammirata per i sacrifici, i prodigi già compiuti, con sicura fede, con poetica significazione, come Dea benefica e protettrice, poneva i singolari combattenti sotto l'alto suo patronato, conferendo loro il superbo e fatidico nome di 'Mitraglieri della Regina'. Fatidico e superbo nome, in onore del quale i mitraglieri, come cavalieri antichi, orgogliosi e fieri rialzavano ordinati la loro insegna, e strenuamente combattevano ancora per renderla, con nuovi prodigi e con nuovo vermiglio sangue, più luminosa e santa.
Quando, finalmente, sotto i potenti colpi di un esercito rinnovato, cadevano l'ultima speranza e l'ultima difesa avversaria, e nelle fiamme di Vittorio Veneto si concludevano vittoriosamente duri sforzi di quattro anni di titanica, sanguinosa lotta, l'ordine di disarmo procurava ai mitraglieri superstiti melanconia. I luoghi delle loro gesta, dei loro fasti, arrossati ancora di caldo sangue e cosparsi, coperti di eroi s'illuminavano, nel distacco, di sacra luce, inducendo al mistico raccoglimento, alla venerazione. E l'addio alla loro arma, all'arma fedele, fatata e benedetta suonava, alla loro anima, pur tra la festa del trionfo, mesto come l'addio rivolto ad un oggetto santo, ad una persona cara che si lascia per sempre. E nel congedo, nel volgere degli anni, come per gli affetti forti che non tramontano, non si affievoliva nello spirito il loro ricordo; né nello spirito s'affievoliva l'eco del loro caratteristico canto. E se per ventura nella tranquilla vita della pace, nella vita degli uffici, delle officine, dei campi riudivano quel canto, ne fremevano, se ne entusiasmavano, come nei giorni di battaglia, di fiammate generose e bellicose.
Forse questi vivi risvegli, queste vive generose nostalgie del passato guerriero, determinavano, inducevano i mitraglieri nella pace a ritrovarsi, ad unirsi come in una forte famiglia, in una grande associazione nazionale: mitraglieri di ogni arma e di ogni corpo, non essendo mancato a nessun'arma e a nessun corpo il vanto, la gloria dei loro eroismi.
Ma come fatto nuovo, riconosciuto dallo stesso Duce, non in uso nelle altre associazioni combattentistiche, s'associavano non soltanto per un ideale raggruppamento di spiriti, per l'esaltazione delle glorie del passato, ma anche e più ancora per aumentare, per potenziare le capacità, lo spirito mitraglieresco, accordando, con appositi corsi d'istruzione, all'esperienza sicura della guerra combattuta, gli insegnamenti tecnici e tattici nuovi; insegnando ai mitraglieri delle nuove generazioni, ammessi, anzi desiderati nell'associazione, non soltanto le astuzie del combattimento, i segreti meccanici dell'arma, ma anche e più ancora i segreti e la forza dello spirito che sorreggono nella lotta e che conducono alla vittoria; insegnando ai nuovi mitraglieri gli accordi del canto dell'arma prodigiosa, che infiammava nella mischia, quell'arma che costituisce oggi, per la sua potenza di fuoco universalmente riconosciuta, la base dei nuovi ordinamenti, dei nuovi apprestamenti militari, non albeggiando ancora la pace, nonostante le ipocrite chiacchiere degli ipocriti signori di Ginevra, nonostante i pii desideri di pie anime, sull'umanità agitata ed eternamente in movimento.
Se le ragioni, adunque, la dignità, i diritti di vita e di sviluppo di un popolo, destinato, come quello italiano, alla riconquista del suo primato e della sua missione imperiale romana e di civiltà, debbono essere ancora sostenuti con le armi, si benedicano queste giovani armi e la loro potenza di fuoco, e si benedicano questi riti di forte e squisita poesia. Si benedicano questi riti, in cui, tra l'altro, le donne gentili dimostrano ancora una volta che se nate per le opere belle naturalmente simpatizzano, desiderano la gioia, l'amore, la famiglia, sanno pure, nella fierezza di razza e negli ideali della patria, umani, elevare inni al valore, alla forza, alla bellezza guerriera; si benedicano questi riti in cui, tra l'altro, le donne gentili dimostrano ancora una volta che se nei teneri affetti, nella gioia, nella dolcezza del vivere e della vita, amano la tranquilla pace, sanno pure riconoscere e rendere omaggio alle ragioni della guerra; sanno pure, come ebbero a provare in tutti i cimenti nazionali e nell'ultima grande guerra prendere le armi e combattere per la libertà e per la patria. E molte donne contano oggi gli azzurri.
I mitraglieri di Teramo sono commossi ed orgogliosi di questa manifestazione mitragliera promossa, con vivo sentire, dal Fascio femminile della loro città, formato da nobili dame, e retto con tanto giovanile fervore dalla benemerita gentile signorina Galluppi; dame della loro città a nessun'altra seconda e nelle opere di pietà, e nelle opere di fierezza, e nello spirito patriottico. Rendono loro vive grazie. Ma rendono anche vive grazie alla nobile compagna del Capo della provincia, signora Witzel, sostenitrice ed animatrice della bella cerimonia, squisita madrina nel mistico rito della benedizione. E nel prendere in consegna il bel gagliardetto loro offerto ed or ora benedetto dalla Chiesa, e che la gentile Madrina un giorno potrebbe rivedere fieramente spiegato al vento attraversare la sua nobile, forte, guerriera ragione, diretto in altri campi di rivendicazione ed altri cimenti, i mitraglieri ne sentono tutto il valore, tutto il profondo significato. E' ben consapevoli dei nostri destini verso cui, con la saggezza del suo Re marcia il popolo italiano, checché ne dicano e ne pensino gli ottusi, i pusillanimi, gli unni in veste di italiani, promettono e giurano che non se ne renderanno indegni; non si renderanno indegni, non si renderanno degeneri delle eroiche loro tradizioni, delle loro purissime glorie. E se gli eventi lo dovessero ancora richiedere, se la santa Diana dovesse ancora una volta suonare, presto o tardi, ovunque e dovunque, saprebbero ancora far vibrare, far cantare, far operare come al Costesin, come al Lèmerle, come al Piave, come su tutto il fronte di battaglia, pel trionfo della giustizia e dei santi ideali della patria, con la loro anima, la divina falciatrice.
Ed ora, a santificare maggiormente il rito, si elevi con il gagliardetto il pensiero, devoto e riverente, per la Sua festa, che è anche nostra festa e festa della nazione, alla magnifica ed augusta Patrona dei mitraglieri, Fata benefica e luminosa della Patria risorta.



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