(segue) Settimo anniversario dei Fasci, a Villa Glori
(28 marzo 1926)
[Inizio scritto]

      Quando per una affermazione del nostro movimento partecipammo alle elezioni generali, pur vincendo la nausea che questi ludi cartacei suscitano in me ed in voi, io fui battuto, battutissimo. Raccolsi poche migliaia di voti: quegli elettori dimostrarono in quella occasione una intelligenza straordinaria. Gli avversari mi credettero spacciato. Viceversa dopo pochi mesi, il Fascismo, che aveva già tenuto a Firenze un memorabile congresso, continuamente interrotto e punteggiato dal crepitio delizioso di rivoltellate, il Fascismo si riorganizzava pronto pur sempre ad impegnare la battaglia. Intanto il processo di decomposizione, di putrefazione delle vecchie caste politiche italiane, ingiolittate, incagoiate, con una mentalità tremebonda ed ancillare, pronte sempre ad avere paura di avere avuto un poco di coraggio, dicevo questo processo di decadenza continuava mentre attorno ai Fasci di Combattimento già si schieravano le folle italiane, non solo delle grandi città, ma anche delle plaghe rurali.
      Decomponendosi lo Stato che ormai non resisteva più in alcun modo all'azione di sfruttamento e di parassitismo dei vecchi partiti, bisognava avere il coraggio di fare la rivoluzione per sommergere, rovesciare, distruggere queste caste politiche che noi avevamo spinto alla guerra attraverso ad un atto rivoluzionario. Queste caste politiche che durante la guerra più volte avevano tremato di viltà; queste caste politiche che alle truppe di Vittorio Veneto non avevano dato né il trionfo in terra straniera, né il trionfo nella Nazione; queste caste politiche che sciupavano indegnamente i meravigliosi tesori della Vittoria italiana, dovevano essere disperse e distrutte. Questo noi abbiamo fatto organizzando ed attuando quella Marcia su Roma che ha già, dopo pochi anni, gli aspetti di una grande leggenda.
      Vennero allora le fatiche, i doveri, le dure responsabilità del governo. Noi avevamo voluto governare la Nazione, avevamo voluto prendere nel nostro pugno i destini della Nazione ma, la fatica era ardua, il compito grave, perché attorno a noi c'era un mucchio di rovine, non soltanto materiali, ma anche morali, e decine e decine di problemi aspettavano da decenni la loro soluzione. C'era dell'attesa; l'attesa del miracolo, poiché ad ogni uomo nuovo, ad ogni regime nuovo si chiede sempre qualche cosa di più. C'era da sentirsi tremare le vene e i polsi.

(segue...)