GIACOMO LEOPARDI
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Giacomo Leopardi.
1. Vita (lei Leopardi. — 2. Le sue poesie. — 3. Le prose.
1. Come il Manzoni fu il poeta della fede, così un altro sommo intelletto, il Leopardi, fu contemporaneamente il poeta del più doloroso pessimismo, di quella sconsolata filosofìa che, senza alcuna speranza di una seconda vita immortale, non vede nel mondo che il male e il dolore, e giudica la vita nostra inutile e misera sempre.
Giacomo Leopardi 1 nacque a Recanati il 29 giugno 1798 dal conte Monaldo, gentiluomo di principi i più aristocratici e retrivi ma amante degli studi, e da Adelaide de' marchesi Antici, donna austera e freddissima, che nel 1803 prese l'amministrazione del patrimonio mezzo rovinato dal conte Monaldo, riuscendo, dopo un trentacinque anni di severe economie, a rimetterlo nel pristino stato. Giacomo fece i primi studi in casa con i fratelli minori Carlo e Paolina; ma già a dieci anni aveva cominciato a studiare da sé, a tredici scriveva versi, compose fra altre cose una tragedia, Pompeo in Egitto; a quindici prese a studiare senza aiuto di maestro il greco e poi l'ebraico. Sempre chiuso nella biblioteca, che il padre aveva raccolta, si diede ad uno studio indefesso; frutto del quale furono molti scritti in latino e in italiano di erudizione e di filologia, specie intorno a scrittori greci della decadenza, il saggio Begli errori popolari degli antichi (1815) e varie traduzioni: della Batracomiomachia, rifatta poi due volte, degl'Idilli di Mosco, del primo libro dell'Odissea, del secondo libro dell' Eneide, ecc. Nello Spettatore del libraio milanese A. F. Stella uscirono (negli anni 1816 e 1817) alcune di queste traduzioni ed inoltre un Inno a Nettuno, che il Leopardi fingeva d'aver tradotto dal greco, e due odi anacreontiche in lingua greca da lui scritte, e che simulava fosser state ritrovate nel codice ove si conteneva l'inno. 3 L'applicazione continua ed eccessiva rovinava però intanto la sua salute, e di gracile, ma sano e diritto che egli era, divenne infermiccio e gibboso. « Io mi sono rovinato, diceva egli (lett. del 2 marzo 1818 al Giordani), con sette anni di studio matto e disperatissimo in quel tempo che mi s'andava formando e mi si doveva assodare