116 CAPO III.
esanime si accoscia. Ora quest'odio profondo di ogni assoluto governo e questo indomito furore di libertà cbe in altri tempi armarono di pugnale la mano di Armodio, ed infiammarono la parola dei tribuni di Roma, fecero calzare il coturno all'Alfieri c muover guerra a' tiranni sulle scene, come ben disse il Leopardi. Un uomo, dice in un sonetto, a cui ferva nel petto irresistibil brama di gloria, nato in terra che serva ad un solo, come può acquistarsi fama eterna e giovare al suo paeseì
Liberarlo col brando non gli è dato;
Con penna dunque, e in un se stesso onora
E a' suoi conoscer fa lor servo stato.
Più che artistica ispirazione fu l'ira dunque chc mosse l'Alfieri a scrivere; l'ira che s'impose, come tiranno, alla sua volontà, e gli prescrisse il genero di poesia da coltivare, il numero de' componimenti, il rifiuto di ogni esteriore ornamento e la forma aspra e rigida del verso ; apparve come gli antichi catafratti senza cotta e pennacchi, tutto vestito di ferro. L'uomo è meraviglioso, ma va di pari passo l'artista?
L'Italia non aveva teatro tragico; mancando di una capitale, in cui si accogliesse il fiore della nazione, come sono Londra, Parigi e Madrid, la tragedia ¦on era cercata ne amata dal popolo; le nostre compagnie comiche, raccolte davarn paesi d'Italia, ov'è tanta la varietà de' dialetti, se alcuna volta recitarono qualche tragedia, mossero il riso per l'accento ora veneziano, ora bolognese, ora napoletano, in bocca degli Agamennone, delle Meropi e delle Rosmunde. Per questo la tragedia fra noi non ebbe teatro che nelle corti di qualche principe, o nei palazzi o nelle ville dei signori, ove dame c cavalieri per piacevole trattenimento qualche volta indossavano la porpora di Mitridate o di Semiramide. L'Alfieri stesso non ebbe per molto tempo altra scena che la stanza di qualche nobile famiglia romana e senese. Ma quando tornò l'ultima volta da Parigi nel 1792, trovò le sue tragedie applaudite sopra tutti i teatri d'Italia; scaduto d'onore il dramma metastasiano, e quel che più gli premeva, rotto il sonno della nazione già sollevata a magnanimi intendimenti di libertà, di patria c di onore.
La gloria di Alfieri è pertanto più gloria di uomo che di scrittore. In ogni sua tragedia ha messo il fuoco della sua passione politica, ha versato nella foUa i suoi odii, le sue speranze, i suoi sogni; predicando una libertà vaga, indeterminata, che ognuno poteva foggiarsi a suo senno, si conquistò l'amore di tutU i partiti, sia che aspirassero alle forme repubblicane di Atene e eli Roma, o a,l pi temperato ordinamento della costituzione britannica. Libertà, fonte in me di caldi accenti, grida in un sonetto; c niuno scrittore al mondo fece per la libertà del suo paese quel che ha fatto l'Alfieri. Ora, con questa tempra d'ingegno e con questo scopo prefisso al suo scrivere, era naturale che l'Alfieri cadesse in moli! difetti. Quando il Grervinus lo accusa di troppo classicismo, accusa più il seco' che lui; doveva invece accusarlo di poca intelligenza del classico, quando agli antichi eroi della favola o della storia dona la veste ed il linguaggio de' tempi, moderni. Se ha tolto dalla tragedia i confidenti e i racconti, che tanto annojano nelle tragedie francesi; se ha ristretta l'azione a quattro o cinque personaggi, non è per questo che egli abbia raggiunta l'austera dignità dell'antica tragpdia. Troppo tardi, cioè quando aveva giurato di più non comporre tragedie, giuramento inconcepibile in vero poeta, egli lesse Eschilo e Sofocle; e chi conosce la franca sincerità del suo spirito deve meravigliarsi che dopo quella ^ lettura non gittasse al fuoco - il suo Agamennone, l'Oreste e l'Antigone. La Clitlniestra di Eschilo, che nella sua cupa simulazione muove incontro al cocchio del _ vmcitorc marito; che gli dice di discendere, ma non già per porre in terra il piede conculcatore di Troja; e rivolta alle ancelle le sgrida, perchè come ha già coman-