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Storia della Letteratura Italiana
Dalla metà del 700 ai giorni nostri
Giacomo Zanella
Francesco Vallardi Milano, 1880, pagine 192

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a cura di Federico Adamoli

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   gg capo in.
   cuni secoli prima che uscisse d'infanzia e si giovasse della facoltà di ragionare ? Come si può credere che le idee del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto tardassero tanto a farsi sentire nell'anima umana? Perchè perdersi in queste strane immaginazioni, quando il racconto mosaico porta tanta luce di evidenza sulle origini dell'uomo e della umana società? Ma dopo che lo Stellini brancolò alquanto nel buio, stabiliti i costumi, qualunque siasi la loro origine, procede con passo sicuro nelle sue ricerche, c mostra in essi 1' origine delle opinioni che governano il vivere umano. Meritano di essere riportate alcune sue considerazioni. I giudizi, egli dice, divengono più saldi e tenaci quanto è ^ maggi ore _ il^ numero degli uomini che si veggono concorrere in essi. Niuno per giudicare di sè c delle cose esteriori riccrca sè stesso ; giudica degli altri sulle apparenze, che non sono chc larve; e giudica di sè stesso dai giudizi che gli altri portano sulle sue larve. Reputano gli uomini più eccellenti le cose che più vivamente li commovono; più grandi quelle che rigonfiate da un cieco ardore dell'animo, occupano, psicosi dire, un più vasto spazio del cuore. L'autore nell'ultimo capo dimostra, come , le opinioni intorno ai beni che o il senso commendò, o l'immaginazione abbellì, o l'intelletto produsse, generassero le varie sette degli antichi filosofi. Da questa analisi egli conchiudc come circa le regole del buon vivere s'ingannassero, nonché il volgo, i così detti sapienti; in modo che Seneca a torto non si lagna che la filosofia fosse inventata non a rimedio dell' anima, ma ad esercizio d'ingegno, e che sia stata causa di pericoli a molti.
   Il Tommaseo ne' suoi Studi critici fu poco giusto collo Stellini. Egli non avvertì l'obbligo chc correva al professore di insegnare non un'etica qualunque, ila l'etica di Aristotele. Migliori giudici ebbe lo Stellini nel Romagnosi e nel Giordani; per cui se l'egregio Averardo Micheli, confratello di religione ^ all' illustre Friulano, darà l'intera versione delle opere stellinianc, della quale già si videro bellissimi saggi, l'Italia gli avrà quella riconoscenza che si deve all' autore di un'opera classica.
   Quanto lo Stellini fu amico di Aristotele, altrettanto fu nemico a quel filosofo Melchior Cesarotti (1730-1808), padovano, vero Encclado, che scosse l'Olimpo della vecchia letteratura; ma non seppe con pari fortuna edificare qualche cosa di stabile su quelle rovine. Da Padova il Cesarotti noi 1762 era passato a Venezia. Avea trentadue anni, e quantunque educato nel Seminario e pieno di tutta l'erudizione greca e latina di quel tempo, egli avea già dato qualche segno di uno spirito franco ed indipendente in fatto di lettere. Maestro di rettorica nel seminario, egli avea tradotto la Semiramide, il Maometto e la morte di Cesare di Voltaire, che fece rappresentare da' suoi alunni nelle feste di carnevale. Porre sulle sceno di un seminario uno straniero, un francese, un Voltaire era certo non piccola audacia, per quanto vi fiorisse allora certa tolleranza di opinioni che forse ora invano vi si desidera. In Venezia Cesarotti diede alle stampe quella sua traduzione. Così non fece del Prometeo di Eschilo, ch'era stato il suo primo lavoro di questo genere, ch'egli avea fatto per assecondare l'invito di Paolo Brazolo. Era costui un solenne grecista ricco, c d'ingegno oltremodo bizzarro; ma si faceva agevolmente perdonare le sue strane fantasie di grecista c di poeta colle laute mense che imbandiva a uno scelto crocchio di letterati nostrali. Era tra questi il Cesarotti. Tradusse il Prometeo per ire a' versi del Brazolo, ma forse rideva ini cuc r suo della pedantesca grecità del mecenate. Io credo che le accuse che più tardi Cesarotti mosse ad Omero; il deprimerlo che fece in quel continuato paragone coli'Ossian, abbia avuto un segreto motivo nel ticchio chc gli venne di dare .a berta al malaugurato Brazolo, che avea spesa la sua vita nel volgarizzare l'Iliade e l'Odissea, e non era riuscito a cosa che gli piacesse. Abbruciò più volte i suoi scritti; e fu trovato morto sotto un albero in una campagna suburbana. Prusso al cadavere e alla gola segata fu trovato un temperino insanguinato e un Omero. Chi vuol ridere, dice Foscolo, crede ch'egli abbia voluto sagrificarsi all' om-