CAPO III
Giacomo Stellini. —'Melchior Cesarotti. — Poeti e prosatori minori. — Girolamo Tiraboschi. — Luigi Lanzi. — Lodovico Savioli. — Alfonso Varano. — Lorenzo Mascheroni. — Giuseppe Pabini. — I sermoni di Gaspare Gozzi. — Vittorio Alfieri.
L'Italia è nascosta agli occhi degli Italiani. Questo rimprovero, che qualche nostro scrittore ci ha fatto, è giustissimo; ma credo non tanto per la noncuranza che abbiamo delle cose nostre, quanto per colpa degli stessi nostri scrittori. Io non so dire come avvenga che la prosa italiana sia così lungi dalla bellezza della prosa inglese e francese. Opere mediocri di erudizione o di astrusa scienza scritte in quelle due lingue hanno numerosi lettori; molti libri italiani di merito incomparabile, come sono i libri del Vico e del Éomagnosi, sono appena letti da qualche solitario filosofo. Pedanteria da una parte é barbarie dall' altra guastano lo stile de' nostri prosatori; e le vane questioni intorno ai fonti della lingua ed ai modelli da seguitarsi accrescono l'incertezza e la confusione. A mettere il colmo al disordine è venuta ultimamente la Germania col suo vocabolario di metafisiche astrazioni, di mondi ideali, oggettivi e soggettivi, di contenenti e di contenuti, di realtà nel suo divenire} e di realtà cristallizzata ; esotici sterpi che imboscano la bella lingua di Dante. Nel cinquecento le faticose trasposizioni all'uso del Boccaccio offendono nello stesso Machiavelli; e nell'ottocento lo smaccato dolciume dello stile gesuitico, tutto fronzoli e cadenze melodrammatiche, annoia grandemente i lettori, se pure colui che scrive non professi un aperto disprezzo della lingua d'Italia ed infarcisca il suo libro di neologismi e di francesismi. Si aggiunga che le scienze fra noi più che altrove continuarono a vestirsi della vecchia lingua del Lazio con danno grave della figlia. Nel tempo, di cui parliamo, fiorirono il Fabbroni, il Lagomarsini, il Corderà, i due Bonamici, che scrissero opere d' argomento moderno con purissima latinità; e Giovanni Costa, professore nel Seminario di Padova, che non contento di avere tradotto ne' metri oraziani Pindaro, tentò la stessa fatica con Thomson, Pope, Gray ed altri poet. stranieri. Nobili monumenti dell'ingegno italiano son questi; ma con discapito della nostra lingua; ne l'Italia può molto gloriarsi di alcune opere che, colpa della lingua in cui sono scritte, sono appena note agli studiosi, come sono i libri di Giacomo Stellini (1699-1110\ di Cividale del Friuli, che in un latino di elegante oscurità nascose pensieri altissimi di filosofia.
Lo Stellini fu Somasco e per alcuni anni maestro nella patrizia casa Emo di Venezia, ove formò la grande anima di Angelo Emo, l'ultimo de' Veneziani. Passato quindi alla Università di Padova per trenta anni v'insegnò l'exica di Aristotele con istraordinario concorso di uditori. Mingherlino della persona; brutto come Socrate; con un filo di voce nasale, ma vivacissimi occhi, teneva por due ore sospeso l'affollato uditorio, il quale non so dire quanto capisse di quel linguaggio sibillino. Le sue lezioni furono a grande stento cavate dagli scombiccherati manoscritti dopo la sua morte. Lo Stellini dovea esporre la filosofia morale secondo! la dottrina prescritta comunemente nelle Università, cioè la dottrina di Aristotele,