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il risoiìgimento.
Or guarda vescovaccio maladetto! Che tagliato sia a pezzi chi gli crede! Il Turco che adora Maometto Ha miglior coscienza e miglior fede.
Seguita poi l'intrigo dei frati di S. Miniato. Don Roberto esorta i colleghi e comporre 1'affare all'amichevole nel modo seguente: egli con cento ducati comprerà dal vescovo, che ogni cosa fa per simonia, la dignità d'Abate; uno dei colleglli farà da priore, un' altro da spenditore, un' altro ancora de cassiere, e così il monastero sarà esclusivamente nelle loro mani. In ciò tutti convengono, e si va davanti al vescovo, il quale al capellano che gli domanda se debba farL passare risponde;
Chi mi arreca danar lassalo entrare, E tutti gli altri lascerai abbaiare.
Tra i frati e il vescovo l'affare si combina a meraviglia. Monsignore si prende i ducati, che gli sembrano pochi, ma ch'egli tuttavia accetta, sperando che i frati lo compenseranno po' di questa scarsezza col mandargli ogni anno per la Pasqua e l'Ognissanti dei capponi ben grassi, un'oca bella e grossa e un capretto da latte. Di ritorno a S. Miniato, Don Roberto, ajutato da' suoi tre colleglli, prende ad amministrare i beni del convento. Intima ai fittajuoli di pagare, fa lor rivedere i conti, e minaccia di cercare i libri vecchi ove si mostrino contumaci. I fittajuoli strepitano, imprecano a Don Roberto che ha comperato per danaro la dignità d'Abate, e tutto il convento è sottosopra. Giovanni Gualberto, non potendo patire il disordine materiale e morale portato nel convento dal nuovo Abate, e temendo d'altra parte che continuando a rimanervi invece che a salvare giungerà a dannar l'anima sua, si parte con un suo compagno da S. Miniato e si reca da un buon romito, chiamato Teuggone, a chiedergli consiglio. Il consiglio che gli vien dal romito è questo, che vada in Mercato vecchio quando ci sia gente assai e quivi palesi al popolo come il vescovo abbia venduto S. Miniato, e come Roberto l'abbia comperato. Eccoci dunque in Mercato vecchio pieno di popolo che strepita, grida, urla. Giovanni sale sur un muricciolo, e predica contro il vescovo e contro l'Abate. Le sue parole non fanno però grand'effetto sul popolo. Un cittadino dice agli altri:
Non date fede a questo ladroncello Che per non lavorar si fece frate.
Tuttavia il vescovo, risaputa la cosa, corre in Mercato vecchio, sgrida il predicatore, lo minaccia di fargli tagliar la lingua , di farlo ardere vivo, e intanto colla mazza gli mena addosso furiosi colpi. Il malcapitato Giovanni, strappato dalle mani del furibondo vescovo, torna dall'eremita, che questa volta lo consiglia d'allontanarsi da Firenze. Passano molt' anni. San Giovanni Gualberto fonda il monastero di Vallombrosa, poi scende dall'Appennino nella pianura vicina a Firenze, e diventa Abate di S. Salvi. Il vescovo n'è avvertito, e memore dell'onte fattegli, vuol vendicarsene. A quest'effetto si accorda con un masnadiero spagnuolo disoccupato, ordinandogli di assaltare il convento di S. Salvi e di fare in pezzi tutti i monaci. Il masnadiero ringrazia la fortuna che gli manda un po' di lavoro (1).
Come si vede il San Giovanni Gualberto è una satira della vita clericale del secolo XV, vita che ci apparisce, d'altronde, ritratta in molte sue particolarità e flagellata a sangue anche in molte altre Rappresentazioni di quest' epoca. Così avveniva che le forme esteriori delle Rappresentazioni rimanendo su per giù quelle medesime della S. Uliva, accoglievano un contenuto che da sacro mutava il loro
(1) Abbiamo preso notizia di questa Rappresentazione dall'abbozzo che ne fa Emiliani Giudici nella sua Storia del teatro italiano, cap. IV