Stai consultando: 'Storia Letteraria d'Italia Il Risorgimento', Giosia Invernizzi

   

Pagina (97/380)       Pagina_Precedente Pagina_Successiva Indice Copertina      Pagina


Pagina (97/380)       Pagina_Precedente Pagina_Successiva Indice Copertina




Storia Letteraria d'Italia
Il Risorgimento
Giosia Invernizzi
Francesco Vallardi Milano, 1878, pagine 368

Digitalizzazione OCR e Pubblicazione
a cura di Federico Adamoli

Aderisci al progetto!

   
[Progetto OCR]




[ Testo della pagina elaborato con OCR ]

   capitolo secondo. — l'erudizione.
   <'>5
   dava al teatro più per godere dello spettacolo della scena, che per capire i versi dei poeti, epperò era chiamato spettatore e non uditore. La favola veniva rappresentata con molto apparato scenico e accompagnata da gesti e da suoni, e gl'indotti accorrevano allora al teatro, come vi accorrono adesso, per godere di queste cose. Una prova di ciò 1' abbiamo nei prologhi delle Commedie di Plauto e di Terenzio. Da essi apparisce che la moltitudine si recava al teatro per vedere i giuochi scenici e le persone degli attori, per godere dei suoni e di tutte quelle altre cose che colpiscono i sensi esterni ; gli attori stessi non capivano i versi del poeta, se prima non venivano loro spiegati. — Gli oratori ed i poeti adunque lungi dal servire di fondamento all'induzione di Flavio Biondo, servono invece all' induzione contraria dell'Aretino. Come ammettere che le nutrici e le donnicciuole potessero parlare una lingua tanto difficile ad essere degnamente appresa dai dotti stessi? Credere questo è credere una cosa impossibile. In Roma c' era il latino dotto di Cicerone e di Terenzio parlato dalle persone colte ed adoperato dagli scrittori, e e' era il sermone volgare che sentiamo parlare tuttodì dalle plebi italiane.
   Questa opinione del vecchio latinista del quattrocento, riproduceva in una forma speciale il sentimento dell'immortalità di Roma antica, che aveva operato spontaneamente ed inconsapevolmente nella coscienza degli italiani del Medio Evo, e che dal Petrarca in poi s'era fatto ognor più vivo e riflesso. Roma antica, per gli eruditi, era diventata l'ideale della politica e del pensiero; era fatale ch'essa dovesse rivivere e dominare per un' altra volta il mondo; Roma era eterna. Il latino, la lingua di quella grande società di dominatori, non poteva adunque perir mai. Essa sola pareva degna di esprimere i grandi e solenni concetti del pensiero, essa sola pareva riavvicinare le intelligenze e formare la grande repubblica, rispondente all'ideale di universalità che balenava d'innanzi al loro pensiero. Anche il volgare ha per 1' Aretino un suo valore proprio, e Dante ne è una prova (1); ma le grandi cose non si possono esprimere con esso. — Dal punto di vista della nostra coltura attuale, noi possiamo cercare nello spirito dell' epoca la ragion d' essere di questa opinione, ma non possiamo discuterla. Gli eruditi italiani del secolo XV cancellarono quindici secoli di storia, e diventarono fratelli degli antichi. In quale nuova forma entrasse lo spirito umano per questa fusione di due età, noi lo vedremo in seguito. Intanto torniamo al proposito nostro. Il Bruni contempla questo gran mondo greco-latino, ma accanto alle discussioni di grammatica e di filologia nulla troviamo che indichi in lui la formazione di uno spirito nuovo. L' antichità gli dischiude i tesori della sua sapienza; con Platone studiato nel testo originale, coli'Aristotile vero, sostituito a quello della scolastica, a quello alterato dalle fantastiche speculazioni degli Arabi, con Cicerone, coi Neoplatonici, con tutti i saggi e poeti della Grecia e di Roma, il suo pensiero entra in un nuovo mondo scientifico e poetico; egli passa dall'uno all'altro scrittore, accoglie tutte le opinioni che v'incontra, le commenta, le esalta, le diffonde co'suoi scritti, si sforza di pareggiare il latino di Tito Livio e di Cicerone, e se non vi riesce del tutto, supera almeno di gran lunga i suoi predecessori ; ma infine egli non esce da uno stato di passiva contemplazione dell'antichità. Quelle idee, quelle imagini, quelle parole si pongono astratte, senz'anima d'innanzi al suo pensiero, non si fondono, non si svolgono colla vita del sentimento e del pensiero, non vi suscitano nè contrasti, nè lotte, non vi determinano un moto nuovo di idee e di sentimenti.
   E nondimeno considerando in generale le opere originali del Bruni, si scorge che lo studio dell'antichità ha esercitato una decisiva influenza sulla sua direzione intellettuale. In mezzo all' erudizione, all' imitazione, alle discussioni grammaticali e filologiche, noi vediamo cancellarsi ognor più le traccie della trascendenza propria del Medio Evo, e riapparire i fondamenti ed i fini della vita antica, come fini e fondamenti della vita dell'umanità. Non vogliam dire con ciò che l'Aretino, a furia di studiare e d'esaltar greci e latini, sia diventato incredulo o pagano, e meno ancora
   (1) Epistola citata.