Si
l'arte Seconda — Alla Italia
Francesco Sforza rinnovò eri accrebbe i privilegi dello Studio pavese ed i suoi successori non solo mantennero quanto egli aveva fatto, ma si prestarono ogni volta che occorse con qualche nuovo provvedimento ad accrescerne il lustro e l'importanza. In quel tempo gli studenti all'Ateneo pavese si calcolavano a circa 3000; e chi sa che fra questi non si trovasse inscritto anche Cristoforo Colombo! Perchè dopo gli studi del comm. Dell'Acqua e di altri, è ormai accertato che Colombo, se non all'Università, certo da giovinetto studiò nelle scuole di Pavia, nò le opposizioni furiose che questa tradizione sollevò sono giunte a diminuirne il valore, sì anzi l'accrebbero.
Gli studenti allora erano divisi in « nazioni », a seconda delle Provincie e paesi da cui venivano; lo nazioni in assemblea riunita eleggevano 1 rettori delle due Università o corporazioni scolastiche già ricordate. Lo Studio aveva un governo pressoché autonomo, con larghe esenzioni ed immunità, siccome appare da una grida di Lodovico Maria Sforza, datata dal gennaio 1496.
Precipitata, sulla line dello stesso secolo, la signoria degli Sforza nei disastri cagionati in gran parte dalla stessa obliqua politica del Moro, allorché, nel 1499, Luigi XII re di Francia, impossessatosi del Ducato di Milano, diventò per conseguenza anche signore di Pavia, assicurò — sull'istanza di quel Comune — l'integrità dello Studio, al quale riconobbe tutti i privilegi e diritti precedentemente goduti.
Nel secolo XV illustrarono lo Studio di Pavia tenendovi cattedra : Antonio Guar-neri da Pavia, celebre medico e tisiologo, che tenne cattedra di medicina intorno al 1455; Gian Matteo Ferrari Da Grado, pure lettore di medicina e di filosofìa tra il 1432 e 1472. Nel giure furono celebrati: Giasone Del Maino (1467-1512) e Filippo Decio (1506). Lettere, retorica, oratoria furono insegnate da Lorenzo Valla (1432-33), Francesco Filelfo (1439) e da Nicolò Scillacio (1490-98) da Messina, il quale tradusse per la prima volta, dallo spaglinolo in latino, la relazione del secondo viaggio di Cristoforo Colombo alle terre da lui scoperte. Pubblicata a Pavia questa traduzione nel 1494, vide di nuovo la luce a New-York nel 1859 in magnifica edizione fatta a spese di Sir James Lerox, da cui uno dei soli due esemplari tirati in-f° fu ceduto per omaggio all'Università di Pavia, nella quale si conservano alcune delle reliquie del grande navigatore, donate, quando le si scoprirono a San Domingo, da mons. Rocco Cocchia, vescovo di Orope, al pavese cornili. Carlo Dell'Acqua, che fu dei primi d'Italia a chiederle e le quali volle fossero depositate rifili'Ateneo patrio (1).
I disastri politici e le continue guerre che proprio nei dintorni di Pavia ebbero uno dei più importanti loro campi d'azione, da cui fu funestata la prima metà del secolo XVI, intralciarono e danneggiarono il buon andamento degli studi, allontanando sovente da Pavia studenti e professori. Ma, ristabilita la pace, lo Studio ben presto ritornò a rifiorire ed a gareggiare cogli altri che erano aperti in Italia e fuori, tanto per la rinomanza dei professori quanto per il numero degli studiosi che da ogni parte vi affluivano.
In quel secolo furono illustrazioni di fama mondiale, imperitura, dello Studio paveso: Gerolamo Cardano, medico, filosofo, matematico e letterato dei più insigni nel suo tempo, che in Pavia insegnava intorno al 1536; Giambattista Leone Carcano (1573), anatomico e fisiologo sperimentalista dei più celebri, le cui osservazioni sul cuore ed altri fenomeni, rievocate ai tempi nostri dal celebre Scarpa, formano una delle glorie scientifiche dell'Università pavese; Gabriele da Cunia (1554-73), che nell'Università pavese precedette il Carcano e fu il primo titolare della cattedra d'anatomia umana; Andrea Alciato, il profondo giurista, proclamato il restauratore degli studi sul Diritto romano e docente in Pavia di Diritto civile dal 1536 al 1550. L'affluenza degli studenti, tanto italiani che stranieri, all'Università di Pavia in questo periodo fu, a quanto
(1j Vedi il libro del Cocchia, Los restos de Crislobal Colon. Santo Domingo, 1879, pag, 709.