176 INDULGENZA COL PROSSIMO. [CAP. VI.]
tarli, se vogliamo clie altri rispetti i nostri. Noi non possiamo conoscere le nostre particolari qualità; eppure ne abbiamo. Vi e nell' America meridionale un villaggio, dove 1' avere il gozzo è cosa tanto comune, che si considera per uomo deforme chi non ne ha. Un giorno attraversò quel villaggio una comitiva d'inglesi, e si radunò dietro loro una folla che li scherniva, gridando: « Vedi, vedi, costoro non hanno gozzo di sorta! » Molti si danno gran pensiero di quello che altri possa credere dei fatti loro e delle loro qualità. Taluni poi sono inclinati a sospettar male, e giudicando dall'indole propria, pensano sempre al peggio: ma per lo più avviene, che la malignità altrui, quando veramente ha luogo, non sia che un riverbero dell'avere noi stessi nè carità, ne benignità alcuna. Oltre di che più spesso anche ii crucciarsi che facciamo non ha fondamento che nella nostra immaginazione. Ma se anche altri pensasse di noi sinistramente, non sarebbe coll'istizzirne che potremmo rimediarvi; anzi, così facendo, ognor più ci esporremmo ai morsi della malignità o del capriccio. a II male che esce dalla nostra bocca » dice Giorgio Herbert, « assai volte ricade sul nostro petto. »
Il grande e probo filosofo Faraday, in una lettera al professore Tyndall, suo amico, gli dava i seguenti consigli, improntati da vera sapienza, e frutto di grande esperienza del mondo : — « Io, vecchio oggimai e in dovere di aver imparato a vivere, devo dirti che da giovane mi accadde assai volte di giudicar male delle altrui intenzioni, e di avvedermi poi che non avevano voluto dire o fare quello che a me era sembrato ; e inoltre, per regola generale, è sempre meglio credere di non aver inteso bene, quando una frase ci sembra suonare un po' dispettosa, ed essere invece solleciti a comprendere se ne leggiamo che paiano dettate da gentilezza di cuore. Da ultimo la schietta verità viene sempre a galla; e nella contesa chi ha torto si convincerà molto più facilmente quando gli è risposto con mo-