Umberto Adamoli

La voce delle carceri

Atto unico




A Sua Eccellenza - Professore Guido Gonella
Ministro di Grazia e Giustizia
Che,
Acceso di umano spirito,
CONFIDA
Non nel rigore della legge
Ma nella pietà cristiana
Il ricupero
La redenzione dei perduti
Devotamente
Dedico

Dalla relazione della Commissione esaminatrice dei Concorsi Nazionali Gastaldi 1959:

Umberto Adamoli, "La voce delle carceri", dramma in un atto.
Avvertiamo subito che non ci sono orrori carcerari. Ci troviamo in una "casa" ideale, ci si passi la parola, poiché, evidentemente, rende consapevole un gruppetto di cinque... Ospiti del male commesso, per errore o per crimine. I cinque sono coscienti e rassegnati, al punto di trovare che proprio quegli angeli custodi delle guardie carcerarie non sono malvagi. Anch'essi hanno un dovere da compiere. E infine il penitenziario... è meritato, osserva Francesco, uno dei cinque, nei discorsi in cortile nell'ora "d'aria".
Questi carcerati d'eccezione hanno un modo di esprimersi poetico, che li accomuna: nostalgie, rimpianti, sogni. Non bestemmiano. Una volta tanto ci si può intenerire su piccoli e grandi delinquenti, per quattro dei quali viene , alla fine, l'amnistia. Il quinto, il nonno, che sembra condannato a vita, si rallegra con i più giovani ancora recuperabili, rassegnandosi alla sua sorte.
Ma amnistia di quali errori commessi? Intenzionalmente, pensiamo, l'autore non ha rivelato i motivi per cui ciascuno dei cinque si trova in carcere. Ed è stato, teatralmente, un errore di prospettiva psicologica, poiché l'individuare una colpa commessa da un'altra avrebbe portato alla distinzione dei caratteri, che invece nell'atto unico dell'Adamoli, risultano monocordi.
Francesco, sì, accusa la pubblicità, i giornali d'averlo spinto al male. Paolo (trentacinquenne, indicato come anziano, non è un po' esagerato?) fa dello spirito amaro sulla criminalità, che esercita una funzione sociale, mobilitando al suo servizio avvocati, magistrati, costruttori, agenti di custodia ecc.: sono enunciate teorie non già denunciati caratteri.
Si ha l'impressione che in ogni detenuto abbia parlato una voce diretta del modo di pensare dell'autore; onde ci troviamo ad ascoltare un dialogare statico, compensato tuttavia dalla sua pensosità e dall'interesse che può suscitare il richiamo a certi attuali problemi.
Inoltre un atto unico non ha le esigenze dei tre o dei quattro. Ferma nel dialogo un momento, pochi attimi. Na buona recitazione della "Voce delle carceri", staccata da personaggio a personaggio, ne staccherà allo stesso tempo i caratteri, rafforzandoli.
E se proprio dalle carceri viene una voce di umana e cosciente dolore, può essere confortante udirla a teatro. E' un merito che va messo all'attivo dell'atto unico di Umberto Adamoli.

IL RELATORE
Carmen Scano



PERSONAGGI

(vestiti da detenuti e da agenti carcerari)

CARLO SPIRELLI giovane detenuto
FRANCESCO OLMI idem
MICHELE SUDAS idem
PAOLO CAFARRO anziano detenuto
GIOVANNI RODITI vecchio detenuto
PIETRO SILVANI agente di custodia



In una delle tante carceri d'Italia - Ai nostri tempi



ATTO UNICO



In una delle tante carceri, in un cortile dove i detenuti prendono aria. Nel muro di destra del cortile si vede una finestra dell'abitazione del Direttore, con inferriata. Due detenuti, sui vent'anni, d'aspetto civile, parlano con melanconico accento.


SCENA PRIMA



CARLO - Tante volte, compagno di sventura, viene proprio voglia di maledire, con il Profeta, il giorno in cui si nacque. Non capisco ancora perché si nasca quando, nell'oscuro mistero della creazione, si deve tanto soffrire.

FRANCESCO - Certo, molti sono i tormenti su questa povera terra, molti i tormentati.

CARLO - E per noi più di ogni altro vivente.

FRANCESCO - E spesso mi domando quali forze oscure, pure avendo una buona educazione, mi abbiano spinto al male. Doloroso è il vivere entro questo chiuso recinto, in forzato ozio, quando la vita ferve, fiammeggia con la forza dei suoi giovani anni.

CARLO - E' vero e freddo, sempre freddo, nel desolato isolamento.

FRANCESCO - Non era, certo, questo il nostro sogno. Ma è tutta nostra la colpa della nostra criminalità?

CARLO - Molte anime nobili, con valide ragioni, dicono di no.

CARLO - Ho inteso anch'io parlare di certe teorie, di certe dottrine sulle cause che determinerebbero i delitti. Ma oggi vi sono altre cause non meno gravi, che operano negativamente sullo spirito dei minorenni.

FRANCESCO - Sarebbero?

CARLO - Senza l'incontro con la criminalità diffusa, quasi come una propaganda, dal cinematografo, dalla televisione e dalla stampa senza controllo forse non sarei qui.

FRANCESCO - Anch'io posso affermare che una spinta decisiva verso il male mi fu data dalla pubblicità, fatta dai giornali, delle gesta arditamente criminose compiute, a capo d'una banda di malfattori, da un ragazzo di sedici anni. Come di tanti altri delinquenti, se ne stampava la fotografia e se ne parlava come di un piccolo eroe nazionale.

CARLO - Non capisco perché il governo non prenda al riguardo energici provvedimenti.

FRANCESCO - Quali provvedimenti? Non sai che siamo in tempo di libertà, di democrazia?

CARLO - E' vero, intanto noi ne andiamo di mezzo. E non soltanto noi. Io ritengo che sia uno dei più grandi dolori che si possa dare ai genitori, specialmente alla povera madre, nel vedere in cammino il proprio figlio ammanettato tra i carabinieri.

FRANCESCO - La povera madre! Ma parliamo d'altro. Ieri andasti in casa del Direttore. Beato te.

CARLO - Sì. Vi fui chiamato per l'esame di alcune pitture, di cui, come tu sai, me ne intendo un po'. Ma vi vidi, ciò che allietò il mio spirito, un altro quadro, ma vivente, di perfetta fattura: la figliuola del Direttore. Ci scambiammo, miracolo della giovinezza, uno sguardo di simpatia, vera luce nell'oscurità della notte.

FRANCESCO - Roseo intermezzo, non immune di pericoli.

CARLO - Nessun pericolo, dato il massiccio muro che ci separa.

(S'ode in questo momento suonare, appunto in quella abitazione, il "Sogno" di Schumann).

E' lei, la cara fanciulla, che manda noi derelitti, con quella musica, un po' di conforto.

FRANCESCO - No, no. Quella musica, che mi strazia l'anima, fa sentire più ferocemente la sventurata nostra condizione. Sarebbe più conveniente, per il nostro stordimento, le sperdute, rocciose isole, scosse da urli infernali, flagellate dalle onde del mare in tempesta.

CARLO - E' vero. Anch'io mi sento, dalla divina musica di quel "Sogno", straziare. Ma ecco che viene Paolo a risollevare, con le sue facezie, il nostro spirito.


SCENA SECONDA



FRANCESCO - Oh! Paolo. Vieni, vieni, con il tuo buon umore, a portare un po' di sereno nel nostro cielo nero.

PAOLO - (detenuto sui trentacinque anni, che è di malumore). Non è la mia giornata. Anch'io oggi sono nero.

CARLO - Ma che cosa ti è accaduto...

PAOLO - Che il diavolo se li porti tutti all'inferno, questi angeli maledetti.

FRANCESCO - Calma, calma. Ma di che cosa si tratta.

PAOLO - Sono stato tolto dal laboratorio. Sì, dal laboratorio, dove con il lavoro alleviavo il tedio dell'ozio, la pena della clausura e, con quel po' che guadagnavo, soccorrevo in qualche modo la famiglia. Poveri miei figli! Sventurati anch'essi: senza padre, per lungo tempo, e senza pane.

FRANCESCO - Non lieto il caso, ma ne avrai fatto una delle tue.

PAOLO - Ma che! E' la cattiva stella che mi perseguita, ovunque, senza pietà. Ne sono una vittima.

CARLO - Ne siamo un po' tutti vittime. Nessuno certo verrebbe a rinchiudersi qui volontariamente. E' tanto bella la libertà.

FRANCESCO - La libertà! Bella come la donna che esce, con la giovinezza, fresca, dalle onde azzurre del mare. Bella come l'aria che, in un mattino di primavera, agita tenuamente i fiori. Bella come l'aurora vermiglia, che annunzia, musicalmente, il giorno.

CARLO - Bella come la vita serena. Soltanto ora, che siamo qui rinchiusi, lo comprendiamo.

PAOLO - E questa mattina l'ho compreso più che mai. Dall'inferriata della cella, turbato come ero, ammiravo, con insolita melanconia, la strada sottostante, l'ampia vallata, le colline, la campagna imbiancata dal sole. Quanti cari ricordi della vita libera. E tutto quanto vedevo m'inteneriva, riafferrava la mia anima, il mio cuore, non senza produrre in me, col rimpianto, sensi di strana invidia.

CARLO - Invidia?

PAOLO - Sì e invidiavo, nella loro vita libera, gli uccelli, che volavano di frasca in frasca, di albero in albero; lo spazzino, che lavorava sulla strada, faticosamente; la lavandaia che univa il suo canto al canto del fiume, che le dava l'acqua; il contadino sferzato, nella campagna, dai raggio infuocati del sole. Invidiavo financo i matti, nel loro lavoro, nel sottostante orto agrario. Anche il pezzente invidiavo, nella sua vita libera.

FRANCESCO - E così, senza volerlo, abbiamo fatto un po' di poesia. Ma torniamo al tuo infortunio. Non posso credere che tu non abbia fatto proprio niente. E' nostra abitudine, e dobbiamo riconoscerlo, di dichiararci sempre innocenti.

PAOLO - Sì, qualche cosa ho fatto, ma roba da nulla.

FRANCESCO - E sarebbe?

PAOLO - Un litigio un po' chiassoso con un compagno di lavoro; una risposta un po' vivace a uno di questi nostri benemeriti custodi...

FRANCESCO - E ti par poco...

PAOLO - Non è certo un delitto. Poi, poi questi signori che ci seguono come ombre; che ci custodiscono come gioielli, mi potevano perdonare.

CARLO - Chi sa quante volte ti avranno perdonato. Debbono fare, d'altra parte, il loro dovere.

PAOLO - Fare il loro dovere... In tanti modi si può fare questo dovere, anche con un trattamento più umano.

FRANCESCO - Quale trattamento migliore vorresti che facessero a noi, criminali in espiazione di pena?

PAOLO - Criminali! Grossa la parola senza sapere che noi, con la nostra criminalità, esercitiamo una funzione sociale.

CARLO - (che scoppia a ridere) Noi.. Una... Funzione... Sociale...

PAOLO - Sì, una funzione sociale e l'America, con il suo spirito rivoluzionario, l'ha capito, rendendo ai detenuti agiata, allegra, la vita.

FRANCESCO - Lasciamo andare l'America con le sue sedie elettriche, con le sue camere a gas... bri...i...i... Che Iddio ce ne scampi e liberi. Spiegaci, invece, in che cosa consista, secondo te, la nostra funzione sociale!

PAOLO - Intorno a noi, amici, vi è tutto un mondo in movimento. Noi carcerati, noi criminali procuriamo lavoro, procuriamo pane a migliaia, a migliaia di famiglie.

CARLO - Noi lavoro... Noi pane...

PAOLO - Sicuro e non capisco come ciò non si debba capire. Tutti s'accaniscono contro di noi quando dovremmo essere oggetto di particolare cura.

FRANCESCO - Ti confesso che non sci capisco proprio nulla. Ma dimmi: il tuo cervello è ancora a posto?

PAOLO - Meglio del tuo.

CARLO - Ma anch'io ci capisco poco.

PAOLO - Mi spiego meglio: state attenti. Non ignorate, certo, che vi sono preture, tribunali, corte d'assise, cassazione con una moltitudine di alti e bassi magistrati. Non ignorate che vi sono avvocati innumerevoli. Non ignorate ancora che vi sono carabinieri, guardie di pubblica sicurezza in grandissimo numero, con alti e bassi comandi e comandanti. Non potete ignorare finalmente i nostri angeli custodi. Non parlo poi di tutte le imprese, d'ogni maniera, che lavorano per noi.

FRANCESCO - Dunque?

PAOLO - Dunque, se non ci fossimo noi, con i nostri crimini, tutta questa brava gente andrebbe a spasso, con tutte le dolorose conseguenze politiche, economiche, sociali.

CARLO - A questo, te lo confesso, non avevo mai pensato.

PAOLO - La società, inoltre, che noi potremmo chiamare pure associazione a... basta, basta. Voglio dire che questa società, per conservare i propri privilegi, si serve di noi come spauracchio.

FRANCESCO - Non sei privo di fantasia e di buoni argomenti. Congratulazioni. Ma che dovrebbero concedere a noi oltre quel che ci concedono per farci vivere?

CARLO - (con un po' d'ironia) Te lo dico io. Piena libertà nell'interno dell'istituto; vitto scelto, come in famiglia; campo di giuochi; cinematografo, teatro; libera uscita.

FRANCESCO - E, per completare, un assegno giornaliero...

PAOLO - (interrompendo) Vi credevo più seri. Mi fate pena. D'altra parte a voi, che siete qui quasi di passaggio, non può interessare il problema delle carceri, come a noi, che ne siamo i veterani.

CARLO - Ma come intenderesti che si risolvesse questo problema?

PAOLO - Con lo spirito dei tempi nuovi. Siete proprio contenti del modo come qui ci trattano?

CARLO - Contenti! Contento, secondo la natura umana, non è mai nessuno, né qui, né fuori di qui, né povero, né ricco. Ma i penitenziari, con le loro severe leggi, sono penitenziari.

PAOLO - Leggi che appunto bisogna riformare, aggiornare.

FRANCESCO - E se non lo facessero?

PAOLO - Sciopero.

CARLO - (facendo un'altra risata). Sciopero?...

PAOLO - Sì, sciopero. Oggi, come sappiamo, tutte le quistioni si risolvono con lo sciopero.

FRANCESCO - E' vero. Ma noi, poveri reclusi, dalle unghie tagliate, che sciopero possiamo fare, lo sciopero della fame, forse?

PAOLO - Appunto: lo sciopero della fame e i grandi penitenziari ce ne danno il buon esempio.

FRANCESCO - Con letizia dell'erario? No, no. Neppure su questo argomento andiamo d'accordo.

PAOLO - (rivolto a Carlo) E tu?

CARLO - La penso come Francesco.

PAOLO - Sicché, in caso d'un movimento, in questo senso, su di voi non ci possiamo contare?

FRANCESCO - No. Non vogliamo andare a finire a Portolongone.

PAOLO - Troverò altrove chi mi saprà capire.

CARLO - Va pure.

(Paolo, indispettito, si alza e se ne va brontolando)

FRANCESCO - Matti ce ne sono dappertutto.

CARLO - Tutto il mondo è paese. Toccate l'uomo negli interessi e avrete un nemico.

FRANCESCO - Giusta la tua osservazione. Ed invero, mentre Paolo lavorava non pensava alla ribellione.

CARLO - Uno strano uomo questo Paolo. Altre, senza dubbio, sarebbero le sue condizioni se avesse applicata la sua intelligenza a cose buone. Invece la sua attività fu sempre rivolta, come sappiamo, a falsificare cambiali, a portar via portafogli dalle tasche; oro dalle orificierie; casse forti dalle banche, perché, come egli diceva con gli economisti, il danaro deve circolare.

FRANCESCO - Con il bel risultato di vedere se stesso tolto dalla circolazione.

CARLO - E a dire che deve rimanere qui ancora per dieci anni. E' da impazzire.

FRANCESCO - E' da impazzire davvero il vedere, per così lungo tempo, sempre le stesse facce; l'udire sempre le stesse rauche voci; il mangiare sempre gli stessi cibi, a base di patate; il respirare sempre la stessa chiusa aria.

CARLO - Ed egli, come se nulla fosse, vi è tornato, con le sue recidività, per ben quattro volte.

FRANCESCO - Io, certo, non ci tornerò più.

CARLO - Anche Pietro diceva così. Invece l'abbiamo visto tornare a soli dieci giorni dalla scarcerazione.

FRANCESCO - Perché i propositi erano deboli.

(In questo momento giunge altro detenuto, pure giovane: Michele).


SCENA TERZA



CARLO - Michele! Il santo guerriero, vincitore del drago. Dicci un po': come vanno i tuoi amori?

MICHELE - Quali amori!...

CARLO - Non fare lo gnorri.

MICHELE - Da per tutto mettete il naso?

FRANCESCO - Allora qualche cosa c'è davvero. Di che si tratta?

MICHELE - Tempo fa riuscii di fare giungere nelle mani d'una nostra collega del padiglione di sinistra, durante la messa, un biglietto, messaggio d'amore, senza però averne avuto risposta. Ecco tutto.

CARLO - Non per ciò sono cessate, appunto durante la messa, scambi di tenere occhiate.

FRANCESCO - Magro conforto. Appunto di detenute, ve ne sono due o tre davvero simpatiche. Accidenti ai pregiudizi!...

MICHELE - (per cambiar discorso) Avete saputo l'ultima novità?

CARLO - No. Di che cosa si tratta?

MICHELE - Il Ministro di Grazia e Giustizia, il nostro Ministro, ha istituito gli assistenti carcerari.

FRANCESCO - Assistenti carcerari?

MICHELE - Sì e da scegliersi tra le migliori persone del luogo.

CARLO - Dobbiamo proprio dire che i tempi cambiano. Quali compiti sono stati assegnati a questi assistenti?

MICHELE - Di portare a noi, dall'esterno, con la voce del mondo, ogni conforto; di assisterci in ogni nostra necessità.

FRANCESCO - Vita nuova, adunque.

MICHELE - Vita nuova e piena di promesse.

CARLO - La più bella promessa sarebbe la concessione di una generale amnistia.

MICHELE - Ma non potendo avere l'amnistia accontentiamoci di quanto concorre ad attenuare le nostre pene.

(S'ode a questo punto chiamare da un agente).

AGENTE - Michele Cataldo. Michele Cataldo.
(appare da un lato e poiché non ha avuto risposta, rivolto al Cataldo, un po' irritato). Siete sordo?

MICHELE - (prendendo un atteggiamento premuroso) Comandate...

AGENTE - Andiamo. Vi aspettano in parlatorio.

MICHELE - (andandosene) Ah! E' mia madre.

FRANCESCO - Povero ragazzo anche lui.

CARLO - Io direi: povera madre anche lei. Quante cose brutte si eviterebbero se la madre fosse sempre presente ai nostri atti.

(Al ricordo della madre i due si commuovono sino alle lagrime).

FRANCESCO - Dobbiamo andare. E' quasi ora di rientrare in cella.

CARLO - (guardando da un lato) Viene il venerando veterano. Rimaniamo un po' con lui.

(Poco dopo appare da un lato altro detenuto, avanti negli anni, con barba e capelli bianchi: Giovanni).


SCENA QUARTA



GIOVANNI - (quando giunge vicino) Sono qui per attingere da voi un po' di forza. E' sempre caro avvicinarsi alla giovinezza.

FRANCESCO - E per raccontarci, nonno, qualche altro episodio del vostro passato, non è vero?

GIOVANNI - (con mestizia, dopo di essersi seduto) Nonno! Dolce è il nome che racchiude tutto un mondo di poesia e di cari ricordi, ma non per me. Vidi il nonno l'ultima volta alla Corte di Assise, dopo la mia condanna. Mi ebbe a fissare, quando lasciavo l'aula ammanettato, con uno sguardo di così penetrante significazione, che mai dimenticherò. Come mai dimenticherò la maledizione lanciata contro di me, in quello stesso momento, da una madre vestita di nero, orbata del suo unico figlio: maledizione che ho sentita sempre pesare, fortemente, sulla mia vita.
Tale il primo atto della terribile tragedia, che ha sempre avvelenata la mia esistenza. Passano i giorni, passano i mesi, passano gli anni, ma non passa lo spettro insanguinato, che mi vive a fianco.

CARLO - Non si direbbe, guardandovi in viso.

GIOVANNI - Calma fittizia, calma apparente come per tutti gli ergastolani. Poco poco che si frughi nel loro animo si sente tutta la tempesta furiosa, che spesso li conduce al manicomio.
Quante tragedie di anime uscirebbero dai penitenziari se gli ergastolani ne avessero la capacità o la volontà di scrivere: tragedie che commuoverebbero il mondo.
In nessun posto, certo, si sente vibrare la vita, specialmente in giovinezza, come la si sente vibrare qui. Talvolta, nell'assopimento, par di sentire la carezza morbida della buona mamma. Talvolta, nella gioia del vivere, par di vedere il sorriso tenerissimo della donna amata, nella santità della famiglia. Ma è come un lampo, che sfolgora nella notte, nell'oscurità della tempesta, ed angoscioso ne è il risveglio.
Non è così per voi, che siete qui, come dire, di passaggio.

FRANCESCO - Nonostante, nonno, abbiamo intuito le tragedie che si possono svolgere nei penitenziari delle pene perpetue, da voi con vivezza rappresentate. E' una lezione che ci sarà di molto giovamento, nel ritorno alla vita dei viventi.

GIOVANNI - Vita dei viventi! Proprio così, ché morta è la nostra vita.

CARLO - questa confessione aumenta la nostra simpatia, il nostro affetto per voi, nonno. Ci potresti raccontare un qualche altro episodio, inerente a questa vita di sofferenza?

GIOVANNI - Uno ve ne vorrei raccontare, il più vivo, anche a mio sollievo.

CARLO - Vi ascoltiamo, con le migliori disposizioni di spirito. Le confessioni, fatte a persone degne di riceverle, arrecano sempre conforto.

GIOVANNI - E sia. Se oggi mi dicessero: "Andate. Siete libero". Risponderei, senza un attimo di titubanza: "Grazie, ma resto". Così risponderei, che questo è ormai il mio mondo, fuori del quale non saprei più vivere, né di conforto mi sarebbe la pietà che potrei destare con la mia età cadente, tinta di sofferenze.

FRANCESCO - Senza dubbio, penoso sarebbe il vivere nella tumultuosa vita di oggi per chi ne fosse rimasto lontano per tanti anni. Ma non era questo che noi chiedevamo.

GIOVANNI - Ho detto ciò per dire che oggi non penserei più ad una evasione. Non era così quando fresche erano ancora la memoria, le attrattive, le lusinghe del mondo, dal quale ero stato tolto. Allora, appunto, mentre mi trovavo nell'isola di Procida, mi venne in mente di tentare una fuga.

CARLO - Evadere dal penitenziario di Procida! Idea pazzesca.

GIOVANNI - Senza dubbio. Eppure una notte io ed altro compagno, da me istigato, tentammo di attuare il folle progetto. Usciti, con diabolica astuzia, dalle ferree sbarre della cella, iniziammo il fatale cammino. Lugubri, nell'oscurità, risuonavano i passi e i richiami delle sentinelle, che vigilavano sugli spalti. Giunti, con il cuore in tumulto, sul ciglio ultimo del massiccio baluardo, con le lenzuola ridotte a funi, tentammo la discesa verso il mare, che mormorava di sotto, con voce di pianto.

(Pausa. Sul viso del narratore è visibile l'angoscia che scuote il suo animo)

FRANCESCO - Dopo?

GIOVANNI - Dopo accadde ciò che doveva accadere.

CARLO - Pazzesco, ripeto, quel tentativo.

GIOVANNI - Infatti, la sentinella più vicina, avvertita la nostra presenza, lanciò l'allarme. Movimento furioso di soldati e di guardie, ovunque; spari di fucile; spari di cannoni; urla di sirene. Un vero finimondo.

(Pausa)

FRANCESCO - (con ansia) E poi?

GIOVANNI - Un'altra scena della tragedia in atto era stata conclusa.

CARLO - In che modo?

GIOVANNI - Lo sventurato mio compagno, precipitato dall'alto della rocca, era raccolto senza vita, dalla pietosa onda del mare.

CARLO - E voi?

GIOVANNI - Ne uscii vivo, ma con una nuova condanna e con il tormento di un'altra ombra nell'anima, tinta di sangue.

CARLO - (con viva pietà) Povero nonno! Nessun conforto vi giunse mai, in questa espiazione perpetua??

GIOVANNI - Dicono che qualche volta gli angeli, con le loro visite, si ricordano dei condannati alle pene del purgatorio. Quando ero a Cagliari, poiché lavoravo in una colonia agricola, mi vidi fissare da un vicino campo, come un angelo, da due occhi profondi, d'una bellezza sarda. Un raggio caldo di sole, su una fredda palude. Raggio benefico, ma spento subito dopo dal trasferimento in un altro isolato luogo di pena.
Ma nei miei abbattimenti ripensavo e ripenso ancora, sia pure mestamente, a quei due occhi, luminosi di dolcezza.
Conforto mi era dato, in un'altra residenza, dal ritorno festoso, in ogni primavera, delle rondini, che nidificavano nel cornicione del nero edificio. Festa, il ritorno; festa la laboriosa permanenza; triste, nell'umido autunno, la loro partenza. Pareva che portassero con sé, nella loro emigrazione, una parte del mio animo.

MICHELE - (che in questo momento torna festoso) Esultate, compagni. E' giunta per noi l'attesa amnistia. Siamo liberi. Facciamo festa.

FRANCESCO - L'amnistia! Evviva la libertà. (Si abbracciano allegramente).

CARLO - (rivolto a Giovanni, un po' mortificato per tale festa) E voi?

GIOVANNI - Non vi date pena, figliuoli. Andate e siate felici. Vostra è la vita, meglio ammaestrata dal lieve infortunio. Io rimango ad aspettare la liberatrice di tutti i mali. Anche voi, però, mi portate via, come le rondini, un po' della mia anima in pena.

(Tutti, abbracciato mestamente il nonno, s'allontanano. Mentre suona di nuovo il "Sogno" di Schumann, s'allontana, curvo ed afflitto, anche Giovanni).


SIPARIO

Fine del dramma

Torna alla videata principale Umberto