Umberto Adamoli
Nel turbinio d'una tempesta
(dalle pagine del mio diario. 1943-1944)

I liberatori

[79] L'arrivo delle truppe alleate, tra le quali quelle polacche, era accolto, come si prevedeva, con grande entusiasmo. Città imbandierata, nuovi festosi cortei nelle vie, rumorosi spari di fucileria e di mitragliatrici. I liberatori, finalmente giunti anche nella loro lentezza, avrebbero portato con sè, come si credeva, sicurezza, pace, abbondanza.
Preso possesso della città, avveniva nella piazza del Popolo una prima adunata. Vi parlava, in buono italiano e con molta enfasi, un loro propagandista, sacerdote cattolico, ponendo abilmente in evidenza l'opera svolta dai propri signori per la redenzione dei popoli, per la liberazione d'Italia.
Tante altre belle cose diceva, tra i generali applausi. Il Vescovo Monsignor Antonio Micozzi, da una finestra del suo vicino palazzo, anche lui ascoltava ed approvava con vive battute di mani. Alla fine, mentre si alzava, tra la preghiera, la mesta figura di Cristo crocifisso, simbolo di pace e di giustizia', il Vescovo impartiva al sacerdote, alle truppe presenti, al popolo, la sua benedizione.
I Comandi alleati s'insidiavano, intanto, ma solo in funzione di polizia e di controllo. I pochi reparti combattenti, italiani e polacchi, proseguivano per il fronte.
A capo della Prefettura era stato messo, nel frattempo, un capitano d'artiglieria, il Lorenzini, anche lui vissuto, dopo l'otto settembre, nell'ospitale montagna. Di buone qualità, senza dubbio, ma d'insufficiente preparazione per dirigere, in un momento così delicato, un ufficio così importante. Rendeva più difficile il compito, per la mania dell'epurazione ad ogni costo, la sostituzione di provati esperti funzionari, con altra improvvisata gente, avida di avventure e di fortuna. Non ne agevolavano, finalmente, il compito tutte quelle altre ingerenze, che i partigiani di ogni colore intendevano esercitare in ogni ufficio, nonostante il funzionamento legittimo del Comitato di liberazione, costituito da ottime persone.
[80] Non mancavano, di conseguenza, incidenti, che mentre da una parte non dissipavano la confusione ed il panico, non concorrevano dall'altra a migliorare, di fronte agli alleati, il nostro già scosso prestigio.
Sbocciavano, nel medesimo tempo, nella nuova primavera Italica, come variopinta fioritura, i tanti partiti a tribolare la già tribolata vita cittadina e nazionale.
In tal modo si mettevano maggiormente in evidenza le nostre deficienze, la nostra decadenza, iniziatasi quando, nei fatali ricorsi, non era stata ancora raggiunta la vetta, in cima alla quale splendeva la nuova luminosa meta. Il fato regolatore delle umane vicende, non ne doveva essere estraneo; ma neppure estraneo doveva essere l'abbuiamento spirituale degli Italiani.
Nella caduta pareva che non si guardasse la voragine, che si apriva di sotto spaventosa; che non più si guardasse in alto, al bel volto pallido e sconsolato della patria colpita. Pareva che, con i torvi desideri, con i neri egoismi, rifiorissero gli odi di parte e le vendette; rifiorissero, nella sventura, persino le lotte regionalistiche, mentre i partiti, servendo appunto lo straniero, magari in buona fede, da stolti si dilaniavano sul bell'italo corpo, profondamente ferito, sanguinosamente mutilato.

Intanto non tardavano a prodursi, nell' ottimismo e nelle speranze degli stessi cittadini, le prime delusioni. I liberatori, tanto attesi, tanto desiderati, tanto invocati ed esaltati, non erano giunti da nemici, ma neppure da amici. Non erano giunti, ad ogni modo, come molti ritenevano, apportatori, senza riserva, di benessere, di giustizia, di libertà. I metodi, che usavano, non erano più quelli tedeschi, e vero; ma sotto il sorriso, sotto l'amabile cortesia si intuiva, si sentiva l'avversione, con cui consideravano, in quel momento, le nostre cose e le nostre persone.
[81] Sembrava, talvolta, che si compiacessero dei dissidi, di quella lotta di caste e di partiti, che concorreva ad aumentare la confusione, la nostra disgregazione. Quando dalle beghe, dalla nostra leggerezza potevano essere molestati, non esitavano ad emettere, nei nostri confronti, giudizi e provvedimenti non certo a noi favorevoli.
Il popolo, il buon popolo teramano, al quale in taluni momenti mancava anche il pane, osservava, ma anche commentava i fatti con quel suo buon senso, con quel suo acuto spirito, con quelle sue espressioni, che avevano in sè la vivezza, la forza del sarcasmo e della verità.

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