Umberto Adamoli
Nel turbinio d'una tempesta
(dalle pagine del mio diario. 1943-1944)



Ansia tormentosa

[68] Così passavano, nell'ansia e nel pericolo, i giorni della passione. Dopo un' assenza di qualche tempo, che dava motivo a molte supposizioni, non escluse quelle di iniziate trattative di pace tra i belligeranti, i velivoli alleati ricomparivano e con maggiore frequenza. Volevano, evidentemente, ricuperare il tempo perduto. Gli allarmi si succedevano di ora in ora, di giorno e di notte, senza tregua. Di notte, sorvolando quasi le case, gettavano palloncini e razzi luminosi. Ma i buoni pretuziani, come al solito, se la dormivano tranquillamente. Tutt' al più i timidi facevano capolino dalle finestre, guardavano in alto, guardavano su e giù, brontolavano, maledivano e tornavano a dormire.
Una notte sullo scorcio di maggio, dopo un furioso giro su la città, che poteva far davvero rabbrividire, sganciavano bombe e spezzoni nella contrada del Cimitero Vecchio. Forse vi avevano visto qualche edificio illuminato. Non perdonavano alle luci. Molte le case lesionate; due colpite in pieno. Dalle macerie si estraevano feriti e sei morti, tre della famiglia Cialini, tra cui un giovane, Francesco, molto bravo, di anni diciotto.
A queste innocenti vittime di operazioni senza scopo, di una ferocia senza nome, si rendevano, a spese del comune, solenni funerali. Funerali di affettuosa pietà, che avvenivano, come una sfida, con largo concorso di popolo e di autorità, mentre roteavano in alto, minacciosi, i neri apparecchi della morte.

Questa rinnovata attività molto preoccupava, e si pensava se non fosse il caso di far sfollare in parte la città. Ma proprio in quei giorni avvenivano fatti che facevano prevedere prossimi nuovi eventi.
L' offensiva sul fronte del Lazio, che si svolgeva favorevole agli alleati, aveva anche qui le sue ripercussioni. Svegliava, generalmente, molto brio, molta loquela, le più ottimistiche previsioni, le più rosee speranze. Non mancavano strategiche intuizioni di fortunati sbarchi, di giganteschi avvolgimenti. Lo sgombero degli Ospedali, in fretta ordinato dai Comandi tedeschi, aumentava la speranza, la certezza della non lontana così detta liberazione.
[69] I Tedeschi, evidentemente, per sottrarsi a più gravi disastri, se ne andavano. Chi nella notte vegliava, poteva udire fuori, nella strada movimenti, rumori non consueti di carri, autocarri, quadrupedi. Nei giorni successivi, nei primi di giugno, ai carri militari seguivano carri agricoli, vetture di ogni specie, tirati da buoi, da cavalli, da muli, da asini, di cui la nostra campagna, le nostre fattorie, tutti i nostri villaggi erano stati depredati, spogliati. Carri colmi della roba più varia: dalla biancheria ai mobili; dai viveri agli utensili caserecci e campestri, tolti spietatamente al nostro lavoro, alla santità dei nostri affetti, al sacrario dei nostri familiari ricordi.
Ciò che i predoni non potevano asportare, con I' istinto dei vandali, rompevano, distruggevano, o vendevano.
Al saccheggio, come un castigo di Dio, non era sottratta neppure la città. A mano a mano che i Comandi se ne allontanavano, portavano con sè quanto costituiva ricchezza, patrimonio sacro della casa, che avevano occupata al loro giungere.
Non erano soltanto i soldati a predare, ma anche gli ufficiali, deliberatamente.
Non vi era più sosta nello sgombero. Da molti segni si arguiva che questo territorio non sarebbe stato, per fortuna, campo di battaglia. Lo dicevano, consultando le carte, anche i nostri strateghi. Ma i pericoli di una rovina non erano del tutto eliminati. I Comandi, con i quali continuavo a tenermi ansiosamente a contatto, quasi per indovinarne il pensiero, per spiarne le mosse, assicuravano, però, che Teramo non avrebbe sofferto danni se non in quelle cose, non notevoli, di carattere militare.

[70] Non si riusciva ad evitare, nel frattempo, altri pericolosi incidenti. Dal comando di Presidio, ove si trovava un capitano, nuovo giunto, del tipo prussiano, era stato richiesto per la custodia di cavalli, un certo numero di operai, che si sarebbero dovuti presentare, per le ore otto, alla Caserma Costantini. Ma non vi andarono nè alle otto, nè alle undici, nè, secondo successivi accordi, alle diciotto. Alle venti circa, ero appena rientrato in casa, quando un soldato vi bussava, per presentare le lagnanze del suo comando, non solo ma anche per chiedere la consegna, per i provvedimenti punitivi, del funzionario incaricato dell' adempimento dell'ordine.
Anche questa volta per salvare gli altri, andavo, come sempre, a rispondere di persona. Non poco mi turbava il pensiero che proprio negli ultimi giorni dovessero accadere quei fatti luttuosi, per scongiurare i quali avevo lavorato, con forte spirito di sacrificio e con accurata sottile diplomazia, per ben nove mesi.
Era necessario, quindi, non derogarvi, per giungere felicemente sino alla conclusione, non lontana, di quella commedia, pronta per un nonnulla a trasformarsi in sanguinosa tragedia.
Dovevo faticare non poco per calmare le furie dell' inferocito prussiano, il quale, tra l altro, mi faceva chiaramente intendere che avrebbe usato tutti i mezzi e contro chiunque, per vincere qualunque tentativo di disubbidienza o di sabotaggio, messo in atto, in un modo qualsiasi, ai loro danni.
Ma io, a mia volta, facevo osservare che la città si sentiva già minacciata dalle truppe che vi passavano, poichè, contrariamente all' ordinanza del generale Zanthier, affissa a grossi caratteri alle due porte, vi stavano commettendo atti di violenza che molto preoccupavano.
Essendo la conversazione, a mano a mano, diminuita di vivacità, non trascuravo di perorare, ancora una volta, la buona causa di Teramo, ricevendone confortanti assicurazioni.
[71] Quel capitano, rabbonito dalle mie parole, raccomandava di avvertire la popolazione a non commettere atti di violenza, a non esporsi, a non uscire, ma di rimanere in quel trambusto possibilmente chiusa in casa. Su i terribili "guastatori" gli ultimi a comparire su la tumultuosa tragica scena, nessuna autorità aveva per frenarne gli istinti brutali. Anzi spesso, come diceva, gli stessi Tedeschi ne erano vittime.
Avevo in quegli ultimi sforzi, per salvare la città, un buon collaboratore in un soldato austriaco, professore di belle arti nelle scuole di Vienna, che parlava speditamente l'italiano. Egli, che faceva da interprete, sapeva rendere il mio pensiero, al suo superiore, con molta abilità, e mi era largo di notizie e di utili consigli. Spesso mi veniva a trovare in ufficio, per mettermi al corrente della situazione e dei provvedimenti che, in quel frangente, intendevano adottare i Tedeschi.
Mi dispiace di non rammentarne il nome, per indicarlo alla riconoscenza cittadina. Ma posso additare alla riconoscenza, alla gratitudine dei teramani il nome di altro interprete, già capitano distrettuale croato, dott. Zeliko Zijvanovic, noto pure alla Prefettura, il quale, con la sua esperienza e con spirito italiano, mi aiutava a superare, nella sfibrante mortale fatica, le molte gravi difficoltà.
Ma il giorno dopo di quel colloquio, altro incidente risvegliava le ire e i contrasti. Per mio ordine era stata ripulita la città di tutti i manifesti, di ogni genere, che la imbrattavano. Il fatto semplice in sè, non era sfuggito all' attenzione di quel Comando. Quando la sera di quello stesso giorno accompagnavo il vice prefetto Giuseppe Labisi ed il Vicario Generale della Curia monsignor don Lorenzo Di Paolo, presente il capitano Carlo Canger, per invocare la grazia a favore di quattro condannati a morte, provenienti dalla provincia di Pescara, quel capitano ne parlava con molto sdegno, giudicando I' atto prematuro, inopportuno.
[72] Anche questa volta si riusciva, in qualche modo, a calmarlo, con la promessa di nuova affissione di quei bandi, che potessero maggiormente interessare. Nondimeno, quel prussiano riteneva di fare, su quanto accadeva, le sue considerazioni, dicendo tra l'altro:
"All'arrivo. degli Anglo - Americani, che voi aspettate, farete festa. Voi imbandiererete la vostra città, suonerete le vostre campane, farete i vostri cortei, canterete le vostre canzoni, ritenendo che essi siano migliori di noi. Non è così e ci ricorderete quando saremo lontani".
Poteva aver ragione, ma nel senso che gli uni potevano valere gli altri. Nel senso che, o Tedeschi o Anglo-Americani erano sempre stranieri, che calpestavano arrogantemente il sacro suolo di questa nostra sventurata patria!

L'esodo, con ritmo accelerato, continuava. Poi si attenuava, finiva. Come a chiudere I' ultimo atto del doloroso dramma, si presentavano, come si temeva, i nefasti soldati della rovina organizzata. Non erano soldati, erano predoni della peggiore specie. Distruggevano, è vero, le officine, i mulini, le cabine per l' energia elettrica, gli impianti telefonici e telegrafici, l' acquedotto, i ponti ; ma penetravano anche, a mano armata, forzando le porte, nelle rimesse, nei negozi, nei magazzini, nelle case, per svaligiarvi quanto ancora vi rimaneva. Derubavano pure le persone, che s'avventuravano per la strada, con oggetti di valore.
La città, senza armi, viveva sotto il peso del più tormentoso incubo. Anche le Autorità; anche i più generosi dovevano reprimere i moti di una santa reazione, per evitare la sanguinosa rappresaglia, che non sarebbe mancata. Per un nonnulla avevano già trucidato alla periferia sei cittadini, tra cui un ragazzo. Fatti di saugue avvenivano anche nelle frazioni, ove gli abitanti cercavano di difendere il loro onore, i loro diritti.
[73] Il più grave accadeva nella frazione di Caprafico. Soldati Tedeschi di passaggio, forse su indicazione di spie, spesso si presentavano nella casa di un certo Natale Di Carlantonio, che aveva fama di danaroso, appuntato della Guardia di Finanza, da molti anni in pensione, proprietario. Il poveretto, vecchio e di mal ferma salute, che stava godendo il frutto del suo lungo onesto lavoro, rimaneva molto turbato di quelle brigantesche visite. Pure, per evitare danni maggiori, faceva del suo meglio per soddisfare, anche se ingiuste, le loro richieste. Ne era, però, ormai stanco, tanto più che esse non accennavano a finire. Quando chiedevano cose che forse egli non poteva, o non voleva' più dare, dopo vivace diverbio, l'agnello si mutava in lupo.
La tragedia, in quel recinto di pace, si svolgeva con una rapidità, che forse neppure i protagonisti se ne erano potuti rendere conto. Malgrado i suoi ottantacinque anni, il Di Carlantonio, armato di fucile, che usava per la caccia, sparava. Sparava con lo spirito acceso di giusta ira, su quei rapinatori a mano armata, e ne uccideva uno, ne feriva un altro. Ma il coraggioso era a sua volta colpito, brutalmente ucciso. Era uccisa, innocente vittima, anche la vecchia moglie, che, trovandosi fuori, era accorsa alle detonazioni.
Così finiva, a causa di un folle uso della forza, quel galantuomo, che aveva sempre dato, e nella vita militare e nella vita civile, prove sicure di amore al lavoro, di mite bontà, di esemplare rettitudine.
Eroe? Senza dubbio, e come tale sarà nel tempo ricordato ed onorato.

[Capitolo Precedente] - [Indice] - [Capitolo Successivo]