Umberto Adamoli
Nel turbinio d'una tempesta
(dalle pagine del mio diario. 1943-1944)



Sera mistica

[47] Si giungeva, così, alla vigilia di Natale, festa sempre cara agli animi gentili, agli uomini di fede e di buona volontà, e sempre colma di ricordi, di significato, di santità.
Mi trovavo alla sera di quel giorno, per caso, in una corsia del Liceo Convitto, che ancora funzionava da Ospedale militare. Vi regnava, in una luce opaca e diffusa, il più assoluto silenzio. Vi parlava in un lato, tra altri ufficiali medici, il Direttore. Il tono della voce non poteva essere molto burbanzoso, poichè, su i diversi fronti, già notevoli sconfitte avevano sofferte le armate teutoniche, ma gli accenti per la patria lontana sofferente erano sempre caldi d'amore e di passione. Nessun applauso, alla fine della mistica commemorazione, partiva da quei soldati, rimasti come in un profondo raccoglimento. Anche nei loro animi turbati non potevano non far ressa i ricordi della loro terra, della loro Chiesa, degli affetti familiari.
Poi, ad un cenno del loro cappellano, senza muoversi dai letti, su i quali erano seduti o coricati, un canto lento, largo, armonioso usciva da quei petti in pena, che davvero commuoveva.
Quel canto mi riportava, con lo spirito, ad un altro canto, di uguale intonazione, rimasto vivo nel fondo del mio animo, che molti anni prima, in un altro Natale di guerra, avevo sentito salire, nel cuore della notte, tra l'infuriare della tormenta, dalle trincee e dai fortini occupati dai Tedeschi, di fronte alle nostre linee, nella zona di Rovereto.
Quei cori, pieni dì nostalgia e di solennità, non potevano non operare sulla nostra sensibilità latina, e non farci considerare, in una viva pietà, le sorti di quel popolo, pur ricco di tante alte qualità, pur glorioso nella storia del pensiero e dell' umano incivilimento, che era stato, in contrapposto, sempre condotto, dalla sfrenata ambizione dei suoi capi, alla rovina.
La sera mistica faceva pure pensare come mai, dopo tanti secoli da che era stata pronunciata la parola di pace, tanta cattiveria, tanto odio angustiasse ancora l'umano genere.
[48] Ma ricordando, con quel canto, la grande guerra, ricordavo anche l'entusiasmo, la concordia, la fede, da cui eravamo stati sostenuti durante i quattro anni di sacrifici inauditi e di sangue. Quel sangue della più bella giovinezza, che arrossando abbondantemente il terreno delle aspre battaglie, aveva pure condotto, nella luce sfolgorante di Vittorio Veneto, con le ultime sante rivendicazioni, con il raggiungimento glorioso dell'unità nazionale, alla nostra nuova grandezza.
Con quel ricordo non si poteva non dolorare sulle nostre nuove sventure, alle quali eravamo stati trascinati dall'insensato altrui egoismo, dallo spirito infernale, che sconquassava ferocemente il mondo.

Uscito da quell'Ospedale, pieno di pensieri, riprendevo la via per ritornare in famiglia. La città, che, negli anni precedenti, era sempre apparsa, in quella ricorrenza, viva di movimento, sfarzosa, nei caffè e nelle drogherie, di luce e di dolciumi, giaceva, come in lutto, nel più assoluto silenzio. Nessun segno di vita nelle belle Chiese mute, nelle case ermeticamente chiuse. Deserte le strade, nella notte buia. Non s'udiva, qua e là, che il passo cadenzato delle pattuglie di vigilanza sul coprifuoco, il grido di « Chi va là», colpi di fucile e scoppi di bombe a mano. La vita non vi era sicura. Io stesso, nel girare la città a notte inoltrata, avevo sentito molto vicino il rabbioso fischio dei proiettili.
Prima di rientrare in casa, nonostante il nevischio e il pericolo, visitavo ancora gli sfollati, ricoverati nelle scuole di San Giovanni di piazza Muzi.
Erano raccolti nelle camerate ad essi assegnate, quasi muti, attorno ai tavoli, in frugale cena. I bambini, paffutelli e rosei, già dormivano, su i giacigli, placidamente.
Apparivano quei locali, nella luce colorata e nella mestizia, come avvolti da un senso di misticismo. Pareva che, in un alto concetto, stessero davvero a rappresentare la nobile povertà, con la quale si orna il santo presepio.
[49] Era diffuso, però, ovunque un benefico calore prodotto dai termosifoni, alimentati da quel carbone che io avevo tolto, integralmente, al riscaldamento degli uffici comunali; calore che, in verità, ristorava, rasserenava, ravvivava.
Mi intrattenevo a lungo, per confortare, con la mia presenza e con la mia parola, quegli ospiti eccezionali, nella loro afflizione.

Vi tornavo il giorno dopo, nell' ora della messa celebrata nei loro stessi locali, dal cappellano don Francesco Di Pietro. Ed assistevo al pranzo confezionato con particolare cura, e ai giuochi del pomeriggio, preparati specialmente per i bambini, da gentili Signore.
Partecipavano alla festa anche gli Ebrei, che non credevano alla venuta del Messia; ma credevano, come affermavano, con il vecchio testamento, allo stesso Dio dei Cristiani, e ne veneravano, nelle sinagoghe, la eterna grandezza.
Vi potevano, quindi, rimanere, per godere anch'essi i benefici della festa santa, e la bella musica delle pastorali, trasmessa dalla radio.

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