Umberto Adamoli
Nel turbinio d'una tempesta
(dalle pagine del mio diario. 1943-1944)



Luci nelle tenebre

[18] Tale era la situazione, molto nera, quando si presentavano anche a me, nel mio ufficio, dove, dalla Prefettura, ero tornato, accompagnati da una signora romana che faceva da interprete, tre ufficiali: un maggiore e due tenenti. Prima che la discussione si animasse, avveniva un muto scambievole esame delle nostre persone, forse anche delle nostre intenzioni, dei nostri umori. Il maggiore aveva aspetto piuttosto bonario, ma da non farvi soverchio affidamento; uno dei due tenenti, biondiccio, dal viso terreo, aveva nello sguardo vitreo un non so che di cattivo, di torvo. Pareva che attirasse l'attenzione di quegli ufficiali, sopra ogni altra cosa, un quadro del Re, che pendeva ancora ad una parete, dietro la scrivania. Evidentemente ne erano rimasti turbati, ma non ne parlavano.
Parlavano, invece, in termini molto vivaci, del momento che si viveva, degli ultimi avvenimenti, dell'armistizio. Requisitoria, quindi, contro l' Italia, contro i suoi uomini di governo. Non comprendevo, e ne ero mortificato, perché, dopo tante polemiche, tante accuse e tante difese, da parte di uomini responsabili, si ripetessero a me, modesto amministratore di un modesto comune, anche se capoluogo di provincia, le loro acide rampogne. Quel preambolo serviva ad attenuare, a giustificare la gravità di altra richiesta, in parte già rivolta alla Prefettura. Richiesta terribile, che riguardava, appunto, le bande della montagna; che riguardava Teramo, in cui quelle bande erano state organizzate, come essi affermavano, da cui quelle bande erano partite per operare ai loro danni.

[19] Pretendevano:
1) il loro scioglimento entro settantadue ore. Se l'ordine non fosse stato eseguito, scaduto tale termine, Teramo sarebbe stata bombardata, da apparecchi che si trovavano già a Pescara;
2) una lista di cento cittadini delle migliori famiglie, su i quali esercitare la rappresaglia, per il loro ufficiale ucciso al bosco, dai ribelli;
3) l'affissione di un manifesto, per avvertire la cittadinanza che per ogni soldato tedesco ucciso nel territorio del comune, dovevano rispondere con la vita, cento cittadini.
La richiesta rivolta in precedenza alla Prefettura era, in confronto, pallida cosa. Un senso di stordimento, un brivido di freddo mi sentii correre per le vene. Quegli ufficiali, dal cuore di sasso, evidentemente, dovevano aver perduto il bene dell' intelletto. In nessun altro territorio; per quanto si sapeva, era stata avanzata una richiesta così mostruosa. Lo dissi, chiedendone le ragioni. Dissi anche, per attenuarne la furia sanguinaria, che nessuna relazione correva tra le bande e la città, che quasi le ignorava; bande costituite, nella maggioranza, da slavi e da soldati alleati, fuggiti dai campi, in cui si trovavano prigionieri o internati. Se non fossero state provocate, forse non avrebbero neanche agito, in nessuna maniera. [20] Molti avevano cercato la montagna per sottrarsi all'arresto, trattandosi di sbandati, di renitenti, di disertori. Protestavo, ad ogni modo, contro la pazzesca domanda, in sacrificio di sangue dei cento cittadini, che, nella categoria in cui dovevano essere scelti, nulla di male avevano fatto; che erano sempre vissuti in opere di bene, nella gioia della famiglia, fuori di ogni intrigo, di ogni passione politica. La guerra poteva avere le sue esigenze, anche severe, ma non poteva mai giustificare atti di scelleratezza tali, che avrebbero gettato negli animi dei popoli civili il più penoso sgomento.
Queste ed altre cose dicevo con ansia, con forza, con passione, ma senza riuscire a commuovere, a smuovere quei tre, che apparivano sempre più fermi, sempre più inflessibili nelle loro determinazioni. La natura teutonica assumeva in essi, specialmente nel loquace tenente dagli occhi vitrei e dal sorriso spento, in funzione di inquisitore, il carattere sempre più forte di durezza, di crudeltà.
Vivevo in quel momento la mia più nera angosciosa ora.
La città, che la ignorava, non poteva partecipare a quella lotta, che io combattevo, nel mio piccolo ufficio, per la sua salvezza, con le sole mie forze.
Il sole, che volgeva al tramonto, illuminava ancora con gli ultimi raggi, la cima del quadrato campanile, che sovrastava il Duomo, che era dinanzi le sue campane, con lenti rintocchi, chiamavano a raccolta i devoti, per la preghiera della sera. Nei cittadini, che si muovevano, giù nelle strade e nelle piazze, pareva che riconoscessi, con la mente, quelli che dovevano essere destinati a placare, con il loro sangue, come nelle favole antiche, l'ira della mostruosa belva. Li riconoscevo a uno a uno, nella fisonomia, nelle caratteristiche, nelle passioni, nelle cose loro migliori; li riconoscevo, ed un sentimento di affettuosa pietà, per il loro destino, scuoteva profondamente l'animo mio addolorato.
[21] Suonava l' avemaria. Il maggiore, nella melanconia della sera, mi guardava, i tenenti mi guardavano, in attesa di quella assicurazione che essi attendevano, che io non potevo, non volevo dare. Il silenzio, che ne seguiva, era rotto dal solito tenente, il quale, in un mefistofelico sorriso, parlava ancora. Diceva che essi non potevano rinunciare a quella richiesta, imposta dalle leggi di guerra, di cui dovevano rendere rigorosamente conto. In quanto alle persone da consegnare, se io proprio lo desiderassi, potevano consentire, non la rinuncia, ma la sostituzione. Al posto dei cento cittadini potevo dare, ad esempio, cento ribelli della montagna. Avrei in tal modo reso, secondo loro, un doppio servizio alla buona causa.
« Razza dannata ! » avrei voluto rispondere, se non fossi stato trattenuto da altre considerazioni. Qualche altra cosa si doveva pur dire, anche per prevenire un qualche altro sciagurato diretto atto, come in altre località era avvenuto. Ma che dire?
Tutti gli argomenti, nelle tre angustiate ore di discussione, si dovevano ritenere ormai esauriti. Tutti ? Nella mente in tempesta ad un tratto mi balenava, come luce divina, un' idea, che a mano a mano si ampliava, finiva di dominare. Idea che conduceva ad una di quelle risoluzioni, con le quali si forma la leggenda, s'innalza la vita, si creano gli eroi.
Questa volta, con un morale più elevato, fiero di me, guardai con maggiore calma, con nuovo animo i tremendi messi di sangue e di morte. L' idea, che tenevo ormai in mio possesso, come salvezza, non poteva non esercitare, nella sua generosità e nella sua bellezza, una propria decisiva forza. Ripetei ancora una volta, che la loro richiesta, comunque si esaminasse e si considerasse, risultava sempre ingiusta, inumana. Giacchè non poteva essere annullata, nè modificata, altra risoluzione offrivo, la più facile, la più semplice, la più conveniente: offrivo in olocausto per tutti, chi raccoglieva in sè, nella povertà e nella ricchezza, nei vizi e nelle virtù, come in una meravigliosa sintesi, tutta la comunità. Offrivo la fucilazione del suo capo, che poteva soddisfare, con il suo sangue, le esigenze più spinte, la rabbia più feroce: offrivo, nella mia persona, la fucilazione del Podestà, che sin da quel momento si metteva a loro disposizione.
[22] La notte cadeva calma su la pretuziana città. Nel silenzio che seguiva, ognuno pareva colpito dalla meravigliosa offerta; ognuno pareva assorto profondamente nei suoi pensieri. Pareva che, nella commozione, non vi potessero essere più parole per nessuno. Dopo un raccoglimento, come di stupore, i Tedeschi ai alzavano con una mossa, con una espressione come se dicessero: "L'offerta è bella. Sta bene. Ne prendiamo atto", ed uscivano.
Lassù, alla montagna, il cannone tuonava ancora.
Confidavo la drammatica conversazione al mio bravo fido Gino Di Francesco, con particolare raccomandazione di non parlare. Ne rendevo consapevole anche il Prefetto, che viveva, nella grande confusione, nel più vivo orgasmo.
Più tardi rientravo nella mia casa, senza nulla raccontare, fiero di me e della mia offerta, in serena attesa della mia ultima ora.
Da quel momento mi sentivo in uno stato di serena beatitudine, come se il mio animo, liberato da tutte le umane passioni, aleggiasse, purificato; nel più puro dei cieli, nella più mistica delle luci. Dopo quella offerta mi sentivo, con una nuova eroica forza, come invaso dallo spirito di coloro che, con le loro azioni nobilissime, avevano fatto risplendere su la terra un caldo raggio di divinità.
Rivivevo come nella trincea di sangue, nella visione luminosa e cara della Patria, per la quale si combatteva e si moriva.
Non vi erano più forze, in quello stato di grazia, che mi potessero scuotere dalla mia ferrea determinazione, santificata dall'idea del più nobile sacrificio. La provvidenza avrebbe assistito, nel doloroso momento, se giungeva, la mia buona fedele compagna.
[23] La vita, nelle sue alternative e nelle sue incognite, porta anche con sè, a conforto degli oppressi, le eroiche rassegnazioni!
Le sorti dei partigiani, intanto, lassù a la montagna, volgevano al peggio. Nell' impossibilità di poter resistere agli attacchi, che i Tedeschi rinnovavano con maggior violenza, i capi, riuniti in consiglio, deliberavano, come unità, di sciogliersi e di restituire ad ognuno là propria libertà. Dovevano rimanere in efficienza alcuni gruppi, tra i quali gli slavi, per proteggere gli ulteriori movimenti
Di quei partigiani, quindi, i meno noti e compromessi ed i ragazzi rientravano silenziosamente nelle loro case; altri si disperdevano nelle campagne, ospiti di amici, in attesa di migliori eventi, o si spostavano in altre località. Il capitano Bianco, ad esempio, andava a ricostituire la sua banda nella provincia di Ascoli Piceno; il concittadino Ammazzalorso ed altri rimanevano, con i propri uomini, sino alla liberazione, nelle nostre montagne, in giudiziosa operosità.

Mentre i partigiani, con viva amarezza, sfollavano dal bosco, i Tedeschi, a pochi passi, commettevano quegli altri atti non necessari di sangue, che molto turbavano. Trucidavano, senza ragione, nella frazione di Pascellata, nella loro stessa caserma, il brigadiere Leonida Barucci e i carabinieri Settimio Annechini, Angelo Cianciosi e Vito Coscia.
Cadeva anche in vista del bosco, sotto il loro piombo, il dottor Mario Capuani, prelevato a Torricella, nella propria casa, da dove dava al movimento la sua collaborazione. Cadeva senza che nessuno potesse accorrere, in un modo qualsiasi, in favore della sua salvezza. Aveva forse rivolto negli ultimi istanti, nell'agonia senza rantoli, ansioso lo sguardo verso il fatale bosco. Dinanzi al terribile destino, nella visione bella della giovinezza piena di promesse, che lasciava; nella visione luminosa dell' adorata madre, che stava per essere orbata dell'unico amato figlio, vi aveva forse rivolta un'invocazione: ma il bosco, nel suo disfacimento, era rimasto senza risposta.
[24] Così cadeva, deluso ed addolorato, quell'amico delle madri e dei bambini, per la sanità, per la floridezza dei quali aveva profuso i tesori della sua capacità professionale, la nobiltà del suo gentile animo.
Lassù, a la montagna, non s' udiva più la voce del cannone.
La sera del 28 i Tedeschi, vinte le ultime resistenze, erano padroni del bosco.
Io seguivo con ansia gli eventi, convinto che essi, qualunque l'esito, non avrebbero potuto influire, pel momento, in nessun modo, su la così detta liberazione di Teramo. Gli Anglo - Americani erano lontani, ed i Tedeschi avevano ancora, a loro disposizione, forze notevoli, bene armate e bene agguerrite.
Sempre più fermo nei miei propositi, continuavo ad andare al comune puntualmente, ogni giorno nella consueta ora. Uscivo di casa tranquillo. Vi avrei fatto ritorno?
Nei giorni che seguivano il drammatico colloquio, dal mio ufficio vigilavo la via in vista e la piazza sottostante. Ogni gruppo di Tedeschi, che vi appariva; ogni automobile od autocarro che vi sostava, e vi discendevano armati diretti al comune, in una confusione di sentimenti, pensavo giunta la mia ultima ora; che essi mi venissero a prendere, con I' onore delle armi, per la mia ultima festa, tinta di sangue.
Venivano ancora, purtroppo, senza tregua, ma per altre ragioni, per altri tormenti. Però, dopo il famoso colloquio, notavo una certa attenuazione nei loro modi sgarbati e prepotenti.
I tre ufficiali, che io aspettavo, non si facevano più vedere, nè da nessun altro si parlava più di partigiani, nè della mia fucilazione, al posto dei cento cittadini, nè della città da bombardare.
Quattro apparecchi erano stati visti in quei giorni elevarsi nel cielo di Pescara, e prendere la via dell'oriente, da dove, forse, erano venuti.
Evidentemente, l'offerta straordinaria, di inspirazione divina, aveva toccato quei cuori duri, ma sensibili ai forti atti, ed aveva compiuto il miracolo.

[25] In quegli stessi giorni aveva vita altro episodio, semplice, ma pieno di significato, che doveva essere, per i sanguinari ad ogni costo, di severo monito, di alto insegnamento.
Molti giovani del bosco Martese, anche di Teramo, si erano raccolti, nella loro fuga, per riposare e rifocillarsi, in una casa di Cortino, ove giungevano d' improvviso i Tedeschi, destinati alla ricerca ed alla cattura dei ribelli dispersi. Le condizioni di quei giovani, colti in quella casa, apparivano gravissime, anche pei fatto che non potevano nè difendersi, nè fuggire. Se fossero stati identificati, o non avessero saputo sufficientemente giustificare la loro presenza a Cortino, non sarebbero sfuggiti al piombo teutonico.
Quando la notizia giungeva al Segretario del Fascio, tal Beniamino Fioravante, senza considerare il pericolo al quale si esponeva, vi accorreva in divisa, per tentarne la salvezza.
Quell'uomo della montagna generosa dimostrava, in tal modo, di possedere doti ben diverse da quelle di altri Italiani, che spesso placavano il loro animo nel sangue degli innocenti.
E li salvava, facendo abilmente credere ai Tedeschi, che lo minacciavano di morte qualora non dicesse la verità, che quei giovani erano, non partigiani, ma fascisti fedelissimi, fuggiti dalle loro case per sottrarsi alla rappresaglia dei sovversivi, dai quali erano ricercati.


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