Umberto Adamoli
Nel turbinio d'una tempesta
(dalle pagine del mio diario. 1943-1944)



L'armistizio

[7] Cadeva su la città pretuziana, nelle strade senza luce, oscura la notte. Un improvviso chiasso, voci tumultuose, mi colpivano nell'ufficio, ove mi trovavo in raccolto lavoro. La notizia dell'armistizio conclusosi tra l'Italia e gli Anglo-Americani, giunta in quel momento, aveva indotto gli spensierati allegri studenti ad una rumorosa manifestazione di giubilo. Gli eventi precipitavano, evidentemente, con particolare rapidità.
Si riteneva da molti che la guerra fosse ormai finita per noi; che i Tedeschi, dinanzi al fatto nuovo, si sarebbero ritirati con tutta fretta 'a difesa delle loro frontiere; che l'Italia sarebbe tornata libera e tranquilla al suo lavoro. Così generalmente si credeva e si faceva festa. Ma molti non erano ancora tranquilli. La data dell'otto settembre, certo storica, capovolgeva tutta una situazione, della quale non era possibile pel momento, prevedere le conseguenze.

"Non si contrasti la ritirata, se i Tedeschi non useranno la violenza".
Questa raccomandazione, giunta ambiguamente dall'alto, era variamente intesa, in diverso modo applicata. Anche il silenzio sulle clausole dell'armistizio era motivo di molte discussioni. I soldati, intanto, anche di Teramo, una volta che non dovevano più combattere, si ritenevano, nel nuovo governo, sciolti da ogni vincolo, da ogni giuramento. Di conseguenza, a mano a mano, svestita la divisa, che vendevano o barattavano, ciò che forse non avevano previsto i nuovi salvatori della patria, in fuga anch'essi, s'allontanavano in tutta fretta. Gli ufficiali, purtroppo, tranne poche onorevoli eccezioni, in tanta confusione, non sapevano resistere dal seguire l'esempio dei loro soldati e del nuovo governo.
I timori di violenze, in tanto disordine, non erano infondati, poichè apparivano già, qua e là, i segni del risveglio dei bassi istinti umani. Dagli atti che già si commettevano era evidente che non si temevano più quelle leggi, che dovevano assicurare, alla convivenza civile, ordine, disciplina, sicurezza.
[8] Con lo sfasciarsi dell'esercito, s'iniziavano quelle azioni, dalle quali la folla esaltata acquistava, fatalmente, una sola accesa fisonomia, un solo torvo aspetto. In queste azioni, il latin sangue gentile, dimostrava, purtroppo, di non essere dissimile, in certe manifestazioni, da quegli altri popoli, che si chiamavano ancora inferiori. I componenti di quella folla, i più accesi s'intende, pochi però, per fortuna, forse forestieri, assalivano, con rabbiosa furia, le caserme abbandonate, i depositi, i negozi, gli uffici, ne forzavano le porte, vi entravano, ne asportavano quanto ancora vi si potesse trovare in viveri, in indumenti, in mobili, in altri valori Asportavano ancora, con uguale satanico spirito, le imposte delle porte e delle finestre; asportavano dal tetto le tegole, dai pavimenti le mattonelle, dai muri quanto vi si trovava conficcato, non esclusi i chiodi.
Ciò che non potevano portar via, allo stesso modo dei barbari, rompevano, distruggevano. In qualche caso, come nella caserma Costantini, non mancavano di ricorrere, per la distruzione, alla forza del fuoco.
Gli agenti della forza pubblica, i pochi rimasti, non erano in condizione d'agire, in nessun modo. I buoni cittadini, e ne erano molti, non potevano che guardare in silenzio e con dolore tanto scempio.
[9] Con la conclusione dell' armistizio, dinanzi ai nuovi eventi, che si presentavano nelle tinte più nere, potevo ritenere esaurito il mio mandato e ritirarmi. Ma in quel grave momento abbandonare la città e quella carica di responsabilità, che rivestivo, con piena soddisfazione dei miei concittadini, da oltre quattro anni, doveva sembrare una defezione, se non una vigliaccheria, indegna di un soldato, quale io ero. Restavo, come ero restato a quel posto senza emolumenti, anche quando dal Comando Generale, con il richiamo alle armi, mi si voleva destinare ad Ancona in un comodo e ben rimunerato servizio di carattere civile.
Oltre a quelli comuni, altri pericoli potevo incontrare nella nuova situazione e nei rivolgimenti in atto, dalla mia iscrizione al partito fascista. Ma anche in tale ordine, da un esame di coscienza, stabilivo che non mi potevano fare accuse, non essendo stati mai a me affidati incarichi di natura politica, non avendo mai preso parte attiva alle manifestazioni del partito.
Restavo anche nella convinzione che, con la mia condotta, avrei influito beneficamente su la popolazione, che aveva in me molta fiducia, esposta anch'essa, con i nuovi metodi di guerra, a tutti i disagi, a tutte le preoccupazioni, a tutti i pericoli.
Non far allontanare la popolazione dalla propria residenza significava, in quel disgraziato momento, evitare, sotto ogni riguardo, i turbamenti determinati dagli affrettati sfollamenti; significava mantenere nella propria contrada intatta la produzione, tanto necessaria ai bisogni nazionali; significava mantenere in efficienza l' ordinamento, dal quale la comunità traeva il suo ordine, la forza della sua disciplina, le ragioni della sua integrità e della sua continuità, la certezza del suo sviluppo.
Ad ogni modo, tra i marosi della tempesta, che diveniva sempre più minacciosa su la povera Italia, io non dovevo preoccuparmi d'altro che di compiere tutto il mio dovere, a qualunque costo, sino in fondo.
Intanto, anche gli ineffabili Alleati festeggiavano, in Abruzzo, l'inizio dell'era nuova, la caduta di quello Stato che aveva osato di accompagnare con le armi, di là dal mare, nelle lontane terre vergini, nel cuore dell'Abissinia, i propri esuberanti figli, avidi di spazio, bisognosi di lavoro. Quello Stato che aveva osato, nello spirito delle giuste rivendicazioni, di alzare la voce per la libertà del Mediterraneo e delle sue porte; che aveva osato di inculcare ai figli di Roma, contro l'Anglia avidità di dominio e di potenza, con il senso dei suoi diritti, un nuovo forte spirito.
[10] La festa doveva essere tale quale la imponevano gli eventi in atto. La località, come inizio, doveva essere scelta in quella terra, ove un altro maniaco, che poteva rispondere al nome di Gabriele D'Annunzio, aveva osato anche lui, con il malato genio, elevare alta la voce per risvegliare i dormienti, per esaltare le virtù, i diritti, le glorie vecchie e nuove della stirpe sacra.
Sistemata convenientemente la bella città del molesto cantore, a mano a mano si sarebbe provveduto, con l'ausilio dei Sassoni consanguinei, che operavano nel basso, alla sistemazione della infiorata Francavilla, luogo natio del moderno mago del pennello; della musicale Ortona, da dove usciva colui, che poteva allietare, con la elegante giovialità, con le dolci melodie, gli ottusi abitatori della pesante città delle nebbie, ma non intenerirne, umanizzarne l'animo impietrito. Non sarebbero state risparmiate, successivamente, la industriosa Lanciano, la mite Orsogna ed altre consorelle della terra dei Marrucini.
In uno di quei giorni, quindi, mentre i cittadini della movimentata Pescara erano raccolti fiduciosi, dopo il lavoro, per il pranzo, nelle proprie case, gli alberghi e i ristoranti rigurgitavano di avventori, dal mare, nuovamente amarissimo, giungevano inaspettati, a fitti stormi, gli spietati messi di morte. E la festa s'iniziava e sotto la pioggia, non di fiori, ma di micidiali ordigni, cadevano case, alberghi, chiese; cadevano vecchi e giovani, donne e bambini.
Non cadevano opere militari, che soltanto avrebbero dovuto costituire gli obiettivi degli attacchi, poichè non ve ne erano; non cadevano Tedeschi, poichè ne erano lontani.
La bella città marinara, fervida di giovinezza, forte di propositi, avida di lavoro e di progresso, non appariva, dopo la pioggia maledetta, che un cumulo di fumanti macerie, dalle quali salivano, con le fiamme distruttrici, rantoli, invocazioni, grida strazianti dei sepolti.
Saliva anche terribile, da quelle macerie arroventate, per i tristi assassini, la maledizione dei colpiti. La voce degli innocenti, prima o poi, troverà ascolto nella divinità della giustizia!

[Capitolo Precedente] - [Indice] - [Capitolo Successivo]