Umberto Adamoli

Tempo nuovo

Dramma in tre atti

Encomiato al Concorso Nazionale
Gastaldi 1958




PERSONAGGI

PAOLO - padre
LUCIA - madre

MARIO, RENATO, SILVIA - figli

STEFANO - capitano polacco
MILENA - sorella del capitano

GIUSEPPE, FRANCESCO, VINCENZO, ANDREA, ANTONIO, FILIPPO, TOMMASO - operai di diverse tendenze

ROBERTO, GIOVANNI - amici di Paolo

ALDO - amico di Mario e Renato

DONNA - moglie d'un operaio

Ai nostri tempi, in una città industriale in terra d'Abruzzo. Sindacalisti. Propagandisti. Operai.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

(All'aprirsi del sipario Silvia e sua madre Lucia, sedute presso un tavolinetto, mentre lavorano di ricamo, ascoltano la musica resa da una radio. Dopo non molto Silvia si alza e va a chiudere, infastidita, la trasmissione)

SILVIA - Non allieta la musica quando è triste l'animo.

LUCIA - Hai ragione, figliola. Il canto non s'accorda al pianto e non può il nostro cuore non piangere dinanzi alla sventura, dalla quale è stata colpita la nostra Italia. Mario - un piccolo spiraglio di luce è aperto nella tua vita.

SILVIA - Luce avvolta però da molte ombre. Non so quale conclusione possa avere, in questo turbinoso tempo, l'incontro inaspettato. Stefano, con la sua partenza, va a cacciarsi in un mare di pericoli.

LUCIA - Meglio, certo, se l'incontro con uno straniero non fosse avvenuto.

SILVIA - D'altra parte Stefano ha tutte le doti, anche se d'altra razza, per rendere felice una donna.

(In questo momento la fantesca Orsolina, annuncia l'arrivo di Stefano, che è fatto subito entrare).

LUCIA - Venite, venite, Stefano, mio buon figliolo.

STEFANO - Grazie per il nome a me dato, con tanto materno affetto.

LUCIA - Ne siete ben degno. Mario - volete proprio partire?

STEFANO - Mi è forza di tornare nella mia terra di Polonia, calpestata, ancora una volta, dalle orde discendenti dagli unni.

SILVIA - Comprendo, Stefano, il tuo elevato sentire, ma questo ritorno è colmo di pericoli.

STEFANO - Senza dubbio. E' però sacro dovere rientrare nella propria terra per preparare, sia pure nell'ombra, il riscatto. Non può un popolo come il popolo polacco, rassegnarsi a un regime di negazione, d'inganno, di brutalità.

LUCIA - Ho avuto modo, in verità, di osservare in voi polacchi, con ammirazione, virtù civili, militari e cristiane profonde.

STEFANO - Segno di forza queste virtù innate in noi. Segno di forza lo spirito religioso, da cui siamo pure fortemente sostenuti, e non di decadimento, come dicono i negatori di Dio.

SILVIA - Ciò che ha concorso ad accendere in me quella fiamma che mi fa vivere nella più sicura fiducia nella tua parola e nella mia felicità.

STEFANO - Grazie, mia buona Silvia. La mia promessa è sacra, come sacro è il giuramento del soldato.

SILVIA - Non temo di te; temo della cortina di ferro, entro la quale vai a cacciarti.

LUCIA - Questo è il nostro timore.

STEFANO - Giustificato timore, ma quella cortina, con il nostro segreto lavorìo, sarà rosa, spezzata, frantumata. Riconquistata, con la patria, la libertà, volerò a te, Silvia, per adempiere la rosea promessa.

(Entra a questo punto, senza annunzio, Paolo. Stefano si alza per salutarlo).


SCENA SECONDA


SILVIA - (a Paolo) Domani Stefano parte.

PAOLO - Lo sapevo. L'eroica armata polacca è stata sciolta e i suoi soldati messi in libertà.

LUCIA - Dove andranno?

STEFANO - Molti rimarranno in Italia; altri andranno in America.

PAOLO - E voi?

STEFANO - Torno, con altri pochi, in patria, per collaborare, come ho detto a queste care donne, alla sua resurrezione. Dopo mi rimetterò in viaggio verso questa cara terra del sole.

PAOLO - Le nazioni che hanno in sé simili figli potranno guardare sereno l'avvenire. E partirete?

STEFANO - Forse questa sera stessa. Vado, quindi, per la preparazione.

(La separazione, cha avviene sull'uscio, è molto commovente).

SILVIA - (dopo) Tornerà, ma un nero presentimento turba in quest'ora il mesto mio animo.

LUCIA - Non bisogna mai disperare, quando si ha una fede, quantunque troppe forze oscure si muovono oggi su questa povera terra.

PAOLO - Tra queste forze quella di Mario, nostro figlio.

LUCIA - Chi poteva mai pensare che Mario, tanto buono, dovesse deviare e dare a noi tanto dolore!

PAOLO - Mario - l'ubbidienza, il senno, la bontà di Renato ci confortano.

(La fantesca annunzia la visita d'un amico: Roberto)



SCENA TERZA



PAOLO - Roberto?

(Gli va lieto incontro. Entrano entrambi chiacchierando).

ROBERTO - (vedendo Lucia, poiché Silvia, per nascondere le lagrime, si è ritirata) Porgo i più affettuosi ossequi all'amabile compagna del mio più caro amico.

LUCIA - Sempre buono con noi.

ROBERTO - Espressione di sinceri sentimenti, verso persone sempre più care.

PAOLO - Ciò conforta in tempi in cui tutto sembra distrutto: amicizia, ordine, patria, religione. Tempo in cui è minata l'unità della stessa famiglia: della nostra famiglia.

ROBERTO - Non potevo mai credere che Mario, così mite un tempo, deviasse dalla retta via.

LUCIA - Speriamo che il mondo riacquisti, con il senno, la sua pace).

(chiesta licenza, si ritira).

ROBERTO - E' questa tua compagna davvero un angelo.

PAOLO Non si confonde, certo, con la donna moderna, senza freni.

ROBERTO - E' uno scandalo. Non è che fossero un tempo tutte monache. Anche le nostre nonne sapevano goder la vita, ma sapevano anche tenere accesa intorno a sè quell'aureola di poesia, quella deliziosa femminilità che le rendeva care e desiderate.

(La fantesca annuncia la visita di altro amico: Giovanni, che entra senz'altro).

GIOVANNI - (dopo il rituale saluto, rivolto a Roberto) Non dovevi essere oggi a Milano?

ROBERTO - Sì, e per cose urgenti. Non sai che c'è sciopero nelle ferrovie?

GIOVANNI - Ah! E' vero...

PAOLO Altra delizia del tempo nuovo, come quella della donna, di cui stavamo parlando.

GIOVANNI - E cioè?

ROBERTO - Del modo come oggi la donna vive. Facevamo pure un confronto con la donna del passato.

PAOLO Penoso confronto.

GIOVANNI - I tempi cambiano, amici, e bisogna seguire i tempi se non si vuol restare l'uomo della caverna.

ROBERTO - Sicché tu ammetti questo così detto modernismo, che tanto turba l'armonia della famiglia e della società?

GIOVANNI - Mario - sì... Ché un po' d'aria nuova anche nella donna, che ha poi gli stessi diritti dell'uomo, non guasta.

PAOLO No, amico. Neppure io sono, su questo argomento, con te d'accordo. Devi ricordare, poiché sei presso a poco della nostra età, con quale venerazione, da giovanetti, guardavamo la donna, che appariva alla nostra fantasia, sotto i fitti veli, come un piccolo mondo, pieno di mistero. Oggi?

GIOVANNI - Debbono cadere i misteri che tormentano sempre lo spirito, ansioso di luce. Bando ai pregiudizi.

ROBERTO - Non sono pregiudizi, caro Giovanni, quei principi che cercano di conservare alla donna i segreti del suo fascino, del suo candore, della sua poesia.

GIOVANNI - Talvolta, sì, possono esagerare, ma queste esagerazioni non a tutti dispiacciono.

ROBERTO - Ai don Giovanni, vorreste dire... Appunto, tu ti chiami Giovanni...

GIOVANNI - E sia. Certo, rido quando ripenso a quel passato, in cui bastava che il vento sollevasse un po' il lembo d'una veste, per offuscare la reputazione d'una donna. Rido quando rivedo, con la mente, d'estate, le nostre nonne al mare, separate sulla spiaggia dagli uomini, imbacuccate, nel farsi il bagno, dai piedi ai capelli, temendo, per pudicizia, persino la carezza morbida delle acque.

PAOLO E oggi?

GIOVANNI - Oggi al mare, d'estate, s'intende, ride la vista, si allarga lo spirito, si gode. Si gode nel vedere il sole scherzare con le onde, il vento con la sabbia, i viventi con le acque. Si gode nel vedere, nel lieto frammischiamento, nelle loro nude...

ROBERTO - Su coraggio, continua... Nude?

GIOVANNI - Nude proprio no...

PAOLO Essendo rimasta la pudicizia della foglia di fico.

ROBERTO - Si va poi diffondendo in queste donne, con le belle chiome recise, argomento un tempo di canto, l'uso di abiti maschili.

PAOLO Anche nel bacio, che sa di tabacco, la donna ha perduto la delicata fragranza.

GIOVANNI - Quanto puritanismo!...

ROBERTO - Mario - la donna, sono certo, rientrerà, con il riacquistato senso, nell'ordine dei sani costumi e della sua vera missione.

PAOLO E il giovane innamorato tornerà sotto il suo balcone, per elevare a lei, nel silenzio della notte, illuminata dalla luna, la sospirata serenata d'amore.

GIOVANNI - Romanticismo di pallidi cantori, ormai per sempre tramontato.

ROBERTO - Per dar posto ad una prosaica vita? No, no. La poesia, eterna musica dell'anima, non avrà, a conforto dei mortali, mai tramonto.

PAOLO Mario - oltre le donne preoccupano anche gli uomini, con le loro nuove malsane idee.

GIOVANNI - Perché? Dovevano pur muoversi, dopo tante sofferenze, per la conquista dei propri diritti, per un vivere migliore.

ROBERTO - Mario - senza passare dall'ordine economico a quello politico, dando vita ad un'altra categoria peggiore di sfruttatori. Nessuno o pochi, caro Paolo, seguono il tuo nobile esempio.

PAOLO Modesto esempio. Volli ed ottenni, questo sì.

(Entra in questo momento Lucia, col caffè, che serve).

GIOVANNI - (Dopo averne sorseggiato un po', rivolto alla signora) Squisito questo caffè. Brava, brava. Rimette proprio a posto lo stomaco.

ROBERTO - Accende la fantasia, esalta lo spirito, eleva ai sogni. Bevanda benedetta.

PAOLO Non a tutti giova, come dicono i medici.

GIOVANNI - Mario - io non ascolto i medici. Ubbidisco ai desideri a mi trovo bene.

LUCIA - Allora un'altra tazza.

GIOVANNI - Sarebbe peccato rifiutarla. Grazie.

(La signora mesce. Gli altri, ai quali è pure offerto, accettano ma in piccola quantità. Dopo la signora si ritira).

ROBERTO - (continuando nel discorso interrotto) E' inutile affliggersi di troppo sulla quistione sociale, poiché o in un modo o nell'altro, o con il braccio o con la mente, per vivere, su questa povera terra, bisogna sempre lavorare.

GIOVANNI - Senza dubbio. Non si può però negare che non vi siano, per certe ingiuste leggi, troppe differenze, in godere e in soffrire, nelle diverse classi dei viventi.

ROBERTO - Ma questo non autorizza di ripudiare, d'un tratto, un ordinamento che discende dai secoli; di ripudiare d'un tratto, come molti vorrebbero, quella forza dello spirito, dal quale l'uomo oppresso trae ragione di vita e di conforto.
Ma parliamo d'altro. Che ne dite piuttosto del prevalere della materia, o meglio dei muscoli sulla divina facoltà dell'intelletto?

PAOLO Se ne resta davvero mortificati. Geni che si elevano, appunto con le loro divine facoltà, alla più alta sapienza, vivono quasi dimenticati, quasi in miseria; popolarità pazzesca, titoli pomposi, ricchezza smisurata godono, invece, i dotati di robusti muscoli.

ROBERTO - Giorni fa, infatti, lessi in un giornale che un tale, tornando vittorioso da una gara sportiva, era stato accolto nella sua città con gli onori del trionfo. La mia mente corse subito, a questa lettura, al ritorno trionfale dei grandi capitani romani lanciati, per alti fini di civiltà, alla conquista del mondo.

GIOVANNI - Su questo potete avere, in qualche modo, ragione. Bisogna, però, ricordare che anche gli antichi, tra questi gregi e i romani, rendevano agli atleti, grandiose onoranze.

PAOLO E nell'ordine della nuova arte?

ROBERTO - Arte? Una vera rovina, almeno per quelli che coltivano ancora il puro senso del bello.

GIOVANNI - Non avete capito che si corre verso mete nuove?

PAOLO Che conducono verso le più strane e strambe manifestazioni dello spirito.

ROBERTO - Ha ragione Paolo. Tempo fa fui in una delle tante mostre che deliziano le tante città d'Italia. Dovetti dopo correre a Firenze per riempire nuovamente il mio spirito, rimasto vuoto dinanzi a quello strano modernismo.

PAOLO Mario - l'offesa dell'estetica non è purtroppo soltanto alla pittura. Tutto è coinvolto dal nuovo bizzarro spirito: letteratura, scultura, architettura, musica.

ROBERTO - E del teatro?

PAOLO Altra pena. Dallo splendore di qualche anno fa, con i suoi magnifici attori, dalle voci musicali in composte movenze, è oggi ridotto a misera cosa. Sono eroi coloro che, come fedeli sacerdoti, cercano di tenerlo ancora in vita.

GIOVANNI - Ma non pensate al cinematografo, che vi presenta i suoi spettacoli non in un limitato freddo palcoscenico, ma in grandiosi vivi naturali scenari? Comunque il teatro di posa, anche in conseguenza della televisione, vive, con i suoi ultimi sacerdoti, i suoi ultimi giorni.

PAOLO No. Il teatro di posa, anche se in crisi, non morrà. E' sempre delizioso vedere sul palcoscenico, almeno per le anime gentili, non fredde ombre, ma persone vive, in vivi, teneri, umani movimenti.

GIOVANNI - Potrebbe non morire se si sapesse rinnovare. Se autori e attori sapessero abbandonare quanto sa di tenerume, di monotoni dialoghi, di sospirose serenate al chiar di luna. Ben altro occorre in periodo di americanismo, in periodo di bombe atomiche.

ROBERTO - Americanismo dagli scomposti balli, dalla barbara musica, dalle indiane fragorose scene finali? Povero gentil sangue latino!

GIOVANNI - Ancora in tempo così diverso, in tempo così nuovo: "Latin sangue gentile"?

(Mentre gli altri due lo guardano con stupore, prorompe in una fragorosa risata, ripetendo, nel ridere: "Gentil sangue latino!..." si chiude il

SIPARIO



ATTO SECONDO


In un cortile di fabbrica, porta in fondo, finestre ai lati. Attrezzi di lavoro e materiale vario, sparso qua e là. Un gruppo di operai in turno di riposo, ascoltano un propagandista, Mario, ben vestito, che parla loro. S'odono rumori di macchine.


SCENA PRIMA


MARIO - Io che vi parlo, compagni, sono uno dei vostri, ché i miei lavorarono come voi lavorate; soffrirono come voi soffrite; maledirono come voi maledite. La misura dei nostri pentimenti è ormai colma e la umana giustizia reclama, ad alta voce, il soddisfacimento dei nostri diritti. Altri dovranno essere, sul lavoro, i nostri canti; altre le leggi che regoleranno la distribuzione della ricchezza.

VOCI - Bene. Bravo.

MARIO - E i beni usurpati debbono essere restituiti ai lavoratori, che li ebbero a produrre.

OPERAI - (battendo le mani) Così deve essere; così sarà. Abbasso gli sfruttatori.

ANTONIO - (operaio ben pensante) Poveri gonzi!

GIUSEPPE - (altro operaio) Che hai detto?

ANTONIO - Poveri gonzi.

UNA VOCE - E' un rinnegato, è un venduto...

ANTONIO - Venduto un corno. Sono un operaio come voi, con un po' più di sale nella zucca.

GIUSEPPE - Mario - anche con un po' più di danaro del tradimento nella tasca.

ANTONIO - Non siete che dei buffoni, degni di commiserazione, o uomini da taverna.

GIUSEPPE - Mario - diamo una buona lezione a questo servo pagato.

ANTONIO - Fate pena.

GIUSEPPE - Chi dà a costui tanto ardire di parlare come parla?

ANTONIO - Quel senso del giusto che a voi manca.

MARIO - (che è rimasto, turbato, ad ascoltare, rivolto ad Antonio) Finiscila, sciocco servo dei ricchi.

ANTONIO - (con vivacità) Sanguisuga maledetta. Dimmi: chi ti dà i mezzi di vivere senza incallire le mani?

GIUSEPPE - La vuoi smettere con le tue stupidità?

UN OPERAIO - Pare che dica, però, qualche verità.

MARIO - Mario - no, compagno. La verità è soltanto nella nostra dottrina, che offre a noi quel paradiso, nel quale già vivono altri popoli di noi più evoluti!

VINCENZO - (avvinazzato, stropicciandosi le mani) Sicuro, sicuro. Alla forca la borghesia.

ANTONIO - Ecco di che siete capaci, eroi da cantina.

GIUSEPPE - noi da cantina?

ANTONIO - La vostra non è che tutta una ubriacatura, come l'ubriacatura di questo vostro degno compagno

(additando Vincenzo).

VINCENZO - (avvicindandoglisi, tentennando, con i pugni in aria) Io ubriaco? Io ubriaco?

FILIPPO - (Operaio neutrale, interviene per metter pace) Litigare tra compagni di lavoro? Vergogna.

VINCENZO - (sempre con i pugni in aria) Lasciatemi, che voglio rompere la testa a questo rinnegato.


SCENA SECONDA


ANDREA - (di altre idee, che giunge in quel momento) Ecco il frutto delle vostre idee malsane. Mario - la colpa non è vostra, povera gente, ma di costui, (additando Mario) che per vivere senza far nulla vi istiga al male.

(Mario dà segni di agitazione)

GIUSEPPE - Non lo ascoltiamo. Non è dei nostri costui. Andiamo via.

OPERAIO - No. Restiamo. Il compagno Mario gli saprà rispondere.

ANDREA - (che ha inteso) Compagno degno di voi. Compagno che non ha saputo trarre esempio dal vivere del padre, il quale, da saggio operaio, non perdeva il tempo a sognare conquiste che non fossero frutto di onesto lavoro.
Troppo si abusa della vostra credulità. Il paradiso che vi si promette con impudenza non è che l'inferno, con tutte le sue sofferenze. Giungono a noi, penosamente, i lamenti, il pianto di quei popoli che vivono, privi di ogni, bene, in quel vostro paradiso.

GIUSEPPE - non è vero, non è vero.

ANDREA - Vorrei che non fosse vero. Le rivolte, però, scoppiate qua e là in quel vostro paradiso, soffocate nel sangue, avvalorano, purtroppo, le mie affermazioni.

VOCI - E' falso. E' falso.

(Mentre si parla gli operai si muovono; l'ubriaco gesticola).

GIUSEPPE - Quel che è vero, e voi non potete smentirlo, è che i ricchi abitano, nella gioia del godimento, in lussuosi palazzi; noi, nelle pene del lavoro, in miseri tuguri.

VOCI - Bravo. Questa è la verità.

ANDREA - Mario - io non sto a fare qui, amici, l'elogio dei ricchi. Io stesso vi dico che, per la sociale giustizia, i ricchi devono scendere, i poveri salire, in modo da stabilire, tra gli uni e gli altri, il giusto equilibrio: pene e godimenti, secondo gli umani decreti, per gli uni e per gli altri.

GIUSEPPE - Chiacchiere, chiacchiere che durano da secoli.

MARIO - (che è stato ad ascoltare, corrucciato) E' proprio così, compagni: chiacchiere, chiacchiere. L'avete ben capito.

OPERAIO - (di spirito indipendente) Abbiamo capito che gli uni, nelle chiacchiere e nelle promesse, valgono gli altri.

ALTRO OPERAIO - E' vero anche questo.

PRIMO OPERAIO - Allora io vi - consiglierei, amici, di fare un po' a modo nostro, di pensare un po' con la nostra testa. Non siamo pecore a tal punto da non capire quale è giusto, nella vita, e quale non è giusto. Ci dobbiamo riscattare dai demagoghi, qualunque essi siano.

(A questo punto la sirena, che suona, richiama gli operai al lavoro. Andrea se ne va).

MARIO - (mentre gli operai s'allontanano) Il lavoro! Ecco il primo impedimento alla nostra marcia. Mario - vinceremo, vinceremo.

(S'allontana dalla parte opposta anche lui. Rimangono due operai: Filippo e Tommaso).

FILIPPO - Hai inteso?

TOMMASO - Non solo ho inteso ma ho anche capito le ragioni di quel rammarico.

FILIPPO - Sarebbero?

TOMMASO - Fin che gli operai lavorano in libertà ed hanno pane non pensano certo a fare quella rivoluzione, con la quale i cari compagni sperano di conquistare alti seggi.

FILIPPO - E' vero anche questo. Mario - è anche vero che molte stranezze vi sono nel povero vivere: lamenti in basso; lamenti in alto, e nessuno è mai soddisfatto del proprio stato.

TOMMASO - Ed appunto per ciò, caro Filippo, il mondo è chiamato "gabbia di matti". E dovunque si fanno chiacchiere, si protesta, si litiga.

FILIPPO - Ed anche a Roma, nei due rami del Parlamento, in questo nostro tempo nuovo, si fanno baruffe, come nelle peggiori taverne.

TOMMASO - Debbono dar pur segno di vita. Diavolo!

FILIPPO - Non sempre però litigano.

TOMMASO - Certamente no quando si tratta di discutere e di votare leggi a proprio favore. Sono scossi allora dai più vivi sensi d'umanità, di fraterna solidarietà. E si grida: "Evviva il Parlamento!".

FILIPPO - E si beccano lietamente, dal modesto tesoro statale, fior di quattrini.

TOMMASO - Una volta invece...

FILIPPO - Mario - allora viveva ancora la eroica generazione del Risorgimento che tutto aveva dato alla patria: operosità, ricchezza, vita, senza nulla chiedere.

TOMMASO - Un po' ingenuamente...

FILIPPO - Così diciamo oggi, nel nostro ottuso egoismo.

TOMMASO - E la lotta accanita che combattono per giungere a Roma?

FILIPPO - Ti vuoi riferire ai così detti comizi elettorali, con piena libertà di gesti e di parole?

TOMMASO - Comizi? Vero teatro.

FILIPPO - Di burattini, dalle uscite spesso strane, spesso spassose. Vincenzo - si accorre non soltanto per spassarvisi, ma anche per meglio conoscere le falsità, le umane ipocrisie.

TOMMASO - Come promesse di mari e monti.
Mario -, come sempre, vi sono anche le eccezioni.

TOMMASO - Senza dubbio, poiché gli onesti s'incontrano ovunque.

(Mentre così parlano, giunge dallo stabilimento altro operaio: Pietro).

PIETRO - (asciugandosi il sudore dal viso ombrato di nero) Maledetto il lavoro! Il nostro lavoro bestiale, s'intende.

TOMMASO - Benedetto il lavoro, invece, che tiene in movimento i muscoli, sereno lo spirito, lieta la casa.

PIETRO - E vuoto lo stomaco. Bella serenità quando soltanto a forza di sacrifici si riesce appena a condurre avanti la famiglia.

FILIPPO - Eppure quei sacrifici danno valore alla vita, come il lavoro dà valore al riposo. L'ozio, in cui vivono i ricchi, alimenta i vizi, debilita la carne, sazia, annulla il vero godimento.

PIETRO - Va, va. Anche tu appartieni alla categoria dei servi pagati.

FILIPPO - Non sapete dire altro a vostra discolpa, nel vostro mal talento. Intanto andate distruggendo l'ordine nella società, la pace nella famiglia, la fede nella patria.

TOMMASO - E gettare lo scompiglio sui mari, nelle campagne, nelle officine. E' finita nei contadini, per colpa vostra, la serena patriarcale vita, fatta di lavoro fecondo, di canti, di danze, di benedizione. E' finito il tempo di quando nelle officine s'univa al canto gioioso della vita, il canto dei macchinari, nell'ansia di ricchezza. Odio vi si manipola oggi, nelle false affermazioni.

PIETRO - Frottole, frottole. I canti saranno ripresi e più belli quando la terra sarà dei contadini, le officine degli operai, le case di coloro che l'abitano.

FILIPPO - E, come in Russia, dei lavoratori saranno le ferree catene della schiavitù, l'oppressione, la miseria.

(Mentre così ragionano giunge una donna, scapigliata, agitata).

DONNA - Siate maledetti, figli della perdizione. Maledetti voi siate: voi che avete rovinato, con le vostre ciance, tante famiglie; che avete rovinata la mia casa, già tanto tranquilla: tutto mi avete rovinato.

FILIPPO - (vedendola sempre più agitata) Calma, calma...

DONNA - Che calma, calma. La misura è colma. Sola sono rimasta con i miei quattro figli: sola, sola, senza più la cura del marito, senza più pace, senza più pane. Maledetti, maledetti.

TOMMASO - (rivolto a Pietro) Che ne dici?

PIETRO - E' una delle vostre: un'altra serva pagata.

DONNA - (infuriata più che mai si avvicina a Pietro in atteggiamento aggressivo, con i pugni in aria) Come, come? Io serva pagata... Io...

FILIPPO - (si frappone tra i due, per evitare l'alterco, ripetendo): Calma, calma.

DONNA - (nella sua minaccia, risolutamente) Voglio cavare gli occhi a costui; gli occhi gli voglio cavare.

(Altri operai giungono frattanto gridando nella confusione)

Sciopero. Sciopero.

TOMMASO - (ironico) Evviva il tempo nuovo.


SIPARIO



ATTO TERZO

QUADRO PRIMO



Nello stesso salottino del primo atto. All'aprirsi del sipario i fratelli Mario e Renato, presente l'amico Aldo, sono in animata discussione.


SCENA PRIMA

RENATO - (in piedi, agitato, mentre gli altri due seduti ascoltano) Vi sono individui, amico Aldo, che vengono al mondo per rappresentare le occulte forze del male. Questo mio fratello, con la mente annebbiata, è un figlio di tali forze.

MARIO - Io?

RENATO - Sì tu, che hai gettato lo scompiglio in questa casa e avvelenata l'esistenza ai nostri genitori.

MARIO - La solita stupida storia.

RENATO - Come? Ripeti.

MARIO - Sì, stupida storia che ormai non convince più nessuno. Il mondo cammina, caro mio, e ognuno deve adattarsi alla evoluzione che avvolge e cielo e terra e ogni cosa creata.

RENATO - E vi manda all'inferno, seminatori d'odio. Perdona, amico Aldo. Una ventata dell'oriente ha pure sconvolto l'armonia, la pace della nostra famiglia.

ALDO - Ne sono proprio rammaricato. Certo, viviamo in un tempo oscuro. Non si sa dove andremo a finire.

RENATO - In un baratro andremo a finire, questo è certo, se gli uomini non rinsaviranno.

ALDO - Ma passerà la ventata di follia che oggi oscura il cielo.

RENATO - E questo è per noi di grande conforto.

MARIO - Poveri illusi!

RENATO - (alzandosi) Illusi noi?

ALDO - Calma, calma, fratelli. Il tempo dirà che sono gli illusi. Vi lascio, intanto, amici, con l'augurio che presto torni in questa casa il nobile spirito, con il quale fu dal nulla costruita.

(Accompagnato da Renato alla porta, Aldo se ne va).

MARIO - (rivolto al fratello, con asprezza) Se non la finisci con le tue ciance te la faccio finire io. Ti dovresti vergognare di fare certi discorsi avanti ad estranei. I popoli, e te lo dico ancora una volta, si ribellano e spezzano le catene della schiavitù. Il mondo cammina ed io cammino con il mondo.

RENATO - Tu cammini con il demonio, anima perduta, non più degno di questa casa.

MARIO - Lo so, lo so che sono divenuto qui di fastidio. Me ne andrò. Vedremo chi, nel tempo, finirà d'aver ragione. Noi non dormiamo. Intanto di quel che faremo potremmo dare ai provocatori buoni anticipi.

RENATO - Maledetto! Osi di fare pure ad un fratello delle minacce? Ti hanno abbrutito l'anima. Ma questi pugni...

MARIO - A me?

(prende una sedia in atteggiamento minaccioso. Renato ne prende un'altra. Attirata dal rumore giunge la madre)

LUCIA - Ah! Figli... Figli... Quale maledizione è mai discesa su questa casa! Figli Figli... Figli miei. Voi mi date la morte. La morte voi mi date; la morte.

RENATO - (che ha ascoltato a testa bassa) Non io madre. Non io.

MARIO - Io forse?

LUCIA - Calma, calma, figli. La colpa non è vostra. La colpa bisogna cercarla fuori di questa casa, nelle forze del male. Troppo bella era la nostra vita, nobilitata da tante virtù, perché potesse durare. Nel sereno si teme la tempesta e la tempesta è giunta.

RENATO - Mamma!

LUCIA - No, no, la colpa non è vostra. I figli, anche se degeneri, non possono volere la morte della mamma...

RENATO - No, madre. Anche questo cattivo non può volere il tuo male.

MARIO - Io non voglio il male di nessuno. Solo vorrei che si considerasse, nella sua realtà, il tempo nuovo. Non è mia la colpa se le sofferenze degli avi, vittime di sfruttatori, si siano risvegliate in me, per le giuste riparazioni.

RENATO - Facendo lega con i negatori di quello spirito che differenzia l'uomo dai bruti.

MARIO - E lo rende schiavo di credenze ormai superate. Ad altro tende oggi la civiltà. Non più gli uomini vivono con gli occhi chiusi. La religione non è, come è stato affermato, che l'oppio per i gonzi.

RENATO - Maledetto ancora una volta. Quando finirai di bestemmiare?

LUCIA - (con accento accorato coprendosi le orecchie) No, figlio. Di' che non è vero quel che hai detto; di' che hai scherzato.

MARIO - Scherzato! No, non ho scherzato. Il mondo dei ciarlatani crolla...

RENATO - Crolla la tua testa malsana, che io ti spacco. Infame...

(Gli si avvicina minaccioso. Mario si dispone a reagire).

LUCIA - No, no, figli... Questo no...

PAOLO - (che entra d'improvviso tornando di fuori) A tanto si è giunti?

(Rivolto a Mario, considerato il provocatore)

Fuori di qui, fuori di casa, figlio indegno e perduto. Fuori, fuori.

MARIO - (che ha perduto ogni rispetto per i genitori, con arroganza) Me ne vado, me ne andrò. Tenetevi con voi il vostro...

PAOLO - (colmo di sdegno) Ah! Sì. Anche con tuo padre tanta insolenza? Ma io...

(Così dicendo gli scaglia contro un vaso che è sul tavolino. Mario, dinanzi all'ira del padre, senza più rispondere, s'affretta ad uscire)

Va in perdizione, figlio maledetto.

LUCIA - No, no Paolo... Anche lui è nostro figlio.

PAOLO - Sì, ma dinanzi a certi fatti cessano i vincoli anche più sacri.

LUCIA - (continua a ripetere con desolazione) E' nostro figlio. E' nostro figlio...

RENATO - (che ascolta mortificato) Povera mamma!...

SILVIA - (che entra tutta agitata) Che accade in questa casa senza più pace? Mario, sbattendo la porta, è uscito gridando: "Me ne vado. Me ne vado".

LUCIA - (sempre più desolata scompare, gridando) Mario... Mario...

SILVIA - (che le corre dietro) Mamma... Mamma...

RENATO - (alludendo al fratello) Ma dove andrà?

PAOLO - (agitatissimo, andando su e giù per il salottino) Vada all'inferno, da dove è venuto. Non è costui dei nostri.

(La fantesca annunzia la visita d'un amico d'infanzia: Francesco. Renato s'allontana).



SCENA SECONDA


PAOLO - (nascondendo l'agitazione, gli va incontro con molta cordialità) Vieni, vieni Francesco. La tua visita, che mi ricorda tante cose liete, mi è sempre cara. Oggi più che mai.

FRANCESCO - (vestito di panni ruvidi, tra l'operaio e il contadino, avanzando) Bei giorni anche se allora non se ne capisse la bellezza. Quanto tempo è trascorso, inutilmente per me. Sono quel che ero, ma non un mucchio di anni sulle spalle. Tu invece...

PAOLO - Con un uguale mucchio di anni sulle spalle...

FRANCESCO - Ma in condizioni ben diverse. Si capiva sin d'allora, da ogni tuo atto, che ben altro, da quello di operaio, ti riservava l'avvenire. Dimmi: chi ti spinse a salire?

PAOLO - Il caso. Una domenica, osservando in città il movimento festoso, vidi passare belli nelle loro elegante divisa, alunni del convitto nazionale: convitto che raccoglie figli di ricchi. Da quel giorno non ebbi più pace. Non avrei potuto anch'io cambiar condizione? Qualche cosa mi era già noto sulla forza della volontà. Poco forse avrei fatto se la fortuna non avesse messo in quei giorni nelle mie mani l'aureo libro dal titolo: "Chi si aiuta Dio l'aiuta".

FRANCESCO - E vincesti la tua battaglia.

PAOLO - Eppure, Francesco, tante volte, nelle alterne vicende, rimpiango quei tempi. Tante volte vi vorrei tornare. Vorrei tornare a vestire panni ruvidi. Vorrei tornare povero come allora, operaio, ignorante. Vorrei tornare a sbocconcellare il mio tozzo di pane, nella serenità dei campi.

FRANCESCO - Ma che dici...

PAOLO - Il rimpianto della capanna, quando se ne è lontano, in molti casi, non è una invenzione.

FRANCESCO - Ma oggi non è più come ai nostri tempi. Oggi anche nella capanna, nella quale i genitori hanno perduto ogni autorità, è entrato il veleno. Oggi anche nella capanna non vi è più pace. I figli, ancora adolescenti, entrano, escono, fumano, si allontanano a loro piacimento, discutono, commettono delitti. Le ragazze dei campi, tanto semplici e timide un tempo, vogliono anch'esse imitare le ragazze di città. Poco si va in chiesa. Non si dice più, nel raccoglimento della sera, il rosario. E' un vero crepacuore.

PAOLO - Vero crepacuore! Ma torniamo alla nostra fanciullezza.

FRANCESCO - Eravamo, in verità, anche noi vivaci, ma non come oggi. Ad ogni modo tu di meno.

PAOLO - Troppo presto fui preso, non lo nego, danne ansie della vita.

FRANCESCO - Ed anche dagli intenerimenti per le donne. Ti ricordi di Candida, la nipote del parroco?

PAOLO - Mia compagna, in quarta elementare. Ne ero davvero innamorato, nei miei nove anni.

FRANCESCO - Guardavi in alto, prima ancora di leggere quel tale libro, di cui mi hai parlato.

PAOLO - Non lo nego. Talvolta concorre anche la donna, con la sua grazia, ad elevare l'uomo.

FRANCESCO - E guardando in alto te ne andasti e addio Candida.

PAOLO - Ma nella bella grazia infantile, e nei sentimenti gentili, non l'ho mai dimenticata.

FRANCESCO - Il primo amore, come si dice, non si dimentica mai. Ma in amore, per quanto so, sei stato ugualmente fortunato.

PAOLO - Il cielo, in verità, mi ha dato per compagna una donna da far benedire la vita.

FRANCESCO - Penso che la tua casa, con tale compagna, sia tutta una benedizione.

PAOLO - Che vuoi, Francesco, anche in casa mia, per i tempi nuovi, vi sono tormenti. Poi, buoni e cattivi ovunque, per legge atavica.

FRANCESCO - Atavica?

PAOLO - Si dice così per dire che un figlio buono discende da un antenato buono; un figlio cattivo da un antenato cattivo.

FRANCESCO - Quante cose noi, nella nostra ignoranza, non sappiamo.

PAOLO - Beata ignoranza, che tiene lontano dai turbamenti, dagli avvilimenti che deprimono, che uccidono. I selvaggi, che vivono ancora sperduti nelle foreste d'Africa e d'America, sono forse nella loro oscurità, più felici di noi.

FRANCESCO - Come si vede, nessuno è mai contento a questo mondo

(Rientra a questo punto Lucia. I due si alzano)

PAOLO - (rivolto a Lucia) L'amico Francesco, trovandosi in città, è venuto a farci una visita. Abbiamo parlato, come sempre, del nostro passato.

FRANCESCO - (confuso e rispettoso, inchinandosi) Don Paolo è sempre buono con me.

PAOLO - Che c'entra questo don Paolo...

FRANCESCO - Non vorrei che la signora... Io sono un povero operaio.

PAOLO - Ed io lo fui. Non rinnego la mia origine.

LUCIA - E questo atto di grande umiltà mi rende sempre più caro il mio Paolo e care mi sono le persone che vissero con lui nei suoi primi anni.

FRANCESCO - Come è buona! Tante signore cercano, invece, di nascondere, quando sono modeste, le origini dei loro mariti. E anche tanti uomini, inalzatisi un po' si vergognano di rivelare il ceppo modesto, dal quale discendono.

LUCIA - Debolezze umane, che angustiano, ai saliti, la vita.

FRANCESCO - Meglio, quindi, talvolta, per la tranquillità, rimaner nel basso e addormentare i travagli nelle festicciuole, sempre care, e in un buon bicchiere di vino.

PAOLO - Appunto di vino, vuoi rimanere oggi a colazione con noi?

FRANCESCO - Oggi non posso. Oggi debbo andare, dovendo sbrigare in città ancora altre faccende, per ripartire con il treno di mezzogiorno. Quando vieni a rivedere, con la signora, i luoghi dei nostri giuochi infantili?

PAOLO - Presto. Mi è sempre caro il luogo dove nacqui, che è sempre colmo di tenere memorie, sempre misticamente bello.

(Compiuti gli atti di congedo, Francesco se ne va)..

PAOLO - Povero Francesco! Ha conservato la semplicità, la bontà, l'ingenuità di quando era ragazzo.

SILVIA - (che rientra con un giornale in mano, turbata) Che ne sarà di Stefano?

LUCIA - (ansiosa) Che è accaduto...

SILVIA - Vi è la rivoluzione in Polonia.

LUCIA - Rivoluzione?

PAOLO - (che ha preso e guarda nel giornale) Sì, sì, rivoluzione. Povero popolo! Che cosa potrà mai fare contro il colosso, dal quale è oppresso?

(Continuando a guardare nel giornale)

Ma anche l'Ungheria si muove.

(Mentre parlano giungono dalla strada grida e canti).

PAOLO - (che va alla finestra, dopo poco esclama): Beata giovinezza! Gli studenti acclamano, in istrada, i due eroici popoli. Quando si muovono i giovani, nella limpidezza del loro sentire, segno è che la causa è santa, sicura la vittoria.

RENATO - (che rientra festoso) La rivolta degli oppressi è in atto. Evviva l'Ungheria!

TUTTI - Evviva...!



FINE DEL PRIMO QUADRO


QUADRO SECONDO

SCENA TERZA


(Con gli stessi personaggi del primo quadro, più Milena, profuga polacca).

PAOLO - La vostra parola ci tocca il cuore. Continuate, continuate nel racconto, cara signorina.

MILENA - (giovane donna, di tipo nordico, bionda, studentessa universitaria) Gli studenti, come in tutte le insurrezioni patriottiche, scesero per primi ad accendere, in piazza, l'incendio, che non tardava a propagarsi in tutta Varsavia e in altre contrade. Grida, canti, entusiasmo nell'ansia di libertà. Tutta la città, con le bandiere al vento, pareva schierata al nostro fianco. Le forze di polizia sembrava che si compiacessero di quel movimento. Stefano, mio fratello, che era con noi, portava nella rivolta quello spirito eroico temprato nella guerra contro i tedeschi.

PAOLO - Abbiamo seguito nei giornali, con trepidazione, le gesta e il fallimento della vostra rivoluzione.

MILENA - Non fu fallimento. I nostri capi, per evitare altro spargimento di sangue fraterno, ritennero di accettare, dopo ampie giurate promesse, le offerte di pace. Ma non tutti ne furono contenti. Molti, conoscendo la malafede dei dominatori, presero la via dell'esilio. Stefano andò ad unirsi ai rivoltosi ungheresi, che stavano, intanto, scrivendo, con il proprio valore, altra bella pagina nella gloriosa loro storia. Io mi diressi verso l'Italia, della quale mio fratello mi aveva tanto parlato.

SILVIA - E perché non prese anche lui la via dell'Italia?

MILENA - Due fuochi ardevano nel suo petto: amore per una donna, odio per un tiranno. Ubbidì, per sete di libertà, a questo secondo sentimento e corse verso l'Ungheria.

LUCIA - Che Iddio protegga, benedica questi giovani che, nel più vivo senso di giustizia, accorrono in aiuto degli oppressi.


SCENA SECONDA


RENATO - (che rientrando in quel momento, ha inteso) Ciò che non fanno le grandi Potenze così dette democratiche. Assistono con freddezza, al massacro orrendo.

PAOLO - Sicuro! Sicuro!

LUCIA - (con dolore) E Mario dove sarà?

RENATO - Non è da escludere che il suo fanatismo l'abbia fatto marciare con le orde dei barbari.

LUCIA - (pure con espressione di dolore) No, no, figlio, non lo posso, non lo voglio credere.

(In questo momento s'ode in istrada fragore di nuove dimostrazioni a favore dei moti magiari).

PAOLO - Beata giovinezza! Sempre generosa nel sostenere gli alti ideali umani.

MILENA - Intanto, senza colpa alcuna, noi andiamo portando per il mondo pietà e fastidi.

SILVIA - Ma che dite, Milena. L'Italia, in questa vostra oscura ora, si sente onorata di dare a voi fraterna ospitalità.

PAOLO - Come ha sempre fatto nelle vostre tante sventure. Ma anche l'Italia, per maligno fato, ebbe a soffrire, per molti secoli, gli stessi vostri tormenti.

LUCIA - (che è andata alla finestra per osservare il movimento sulla strada, ad un tratto getta un grido).

PAOLO - (correndo con ansia verso di lei) Lucia...

SILVIA - (seguendo il padre) Mamma!...

LUCIA -(quasi balbettando) Mario.

PAOLO - Mario?

LUCIA - E' giù, nella porta.

(Tutti, presi da orgasmo, corrono ad incontrarlo. Dopo non molto rientrano).

LUCIA - (che abbraccia Mario) Figlio, figlio mio caro. Quanto ho sofferto.

MARIO - (mentre gli altri, avanzando, lo attorniano con tristezza) Non fossi mai nato, madre.

LUCIA - No, figlio, non bisogna andare contro la volontà del Signore.

MARIO - Quando si procura dolore, come il dolore che ti ho procurato, madre, meglio sarebbe stato se fossi rimasto nel mondo dei non nati.

PAOLO - (sempre con una certa severità) Sono inutili i pentimenti. Pensa piuttosto di vivere, d'ora innanzi, conformemente alle sagge leggi.

MARIO - Nella mia cecità, credevo di vivere bene.

RENATO - (mentre a mano a mano si mettono a sedere) Come avvenne il ravvedimento?

MARIO - Già ombre vagavano nel mio spirito, ombre benigne, quando giunsi in Ungheria.

RENATO - Sei stato anche in Ungheria?

MARIO - Vi ero accorso per aiutare le forze chiamate proletarie in lotta, come dicevano, contro gli oppressori. Ma rimasi profondamente addolorato quando mi trovai dinanzi a ragazzi, a giovanetti, a donne, a studenti, a operai che affrontavano con i sassi e con il canto i potenti carri armati sovietici, nell'ansia di libertà. Gettai, nel ravvedimento, le armi della violenza per impugnare, nel campo opposto, le armi della riscossa.

LUCIA - Sii benedetto, figlio mio, che non hai deluso le mie speranze.

PAOLO - Dopo?

MARIO - Aiutai gli eroi fin che mi fu possibile. Quando i pesanti carri ebbero tutto stritolato: quando i ragazzi, le donne, gli operai, gli studenti giacevano sotto le macerie imbevute di sangue, allora, soltanto, cercai, nella notte, con altri pochi, la salvezza.

(Pausa. Dopo):

Cara mi è stata la tua benedizione, madre, chiedo ora il perdono del padre.

PAOLO (sempre un po' burbero) Il perdono è già nel tuo ravvedimento, nelle tue azioni.

LUCIA - (sempre con cuore di madre) Ti perdoniamo, figliuolo, ti perdoniamo.

RENATO - (nell'abbracciare Mario) Torno tuo fratello.

SILVIA - (abbracciandolo anche lei) Abbiti anche il mio abbraccio, fratello.

MILENA - Ma vi è ancora qualche vuoto intorno a noi. Stefano? Io nutro la più viva speranza che anche lui tra non molto tornerà tra noi.

RENATO - Tu, Mario, ne sai nulla?

MARIO - Di Stefano? Combattemmo a fianco a fianco, per le strade, per le case, per le piazze di Budapest; combattemmo tra il fuoco e le macerie mentre il Danubio cantava, accorato, il canto scritto dall'antico aedo scomparso nelle fiamme della battaglia, combattuta già per la libertà ungherese.

SILVIA - Ed ora dov'è?

MARIO - Il Danubio canta oggi, in un nuovo mistico canto, le gesta dei nuovi eroi.

MILENA - Ma che ne è di mio fratello?

MARIO - E' nel canto di quegli eroi.

(Tutti ne intendono la verità. Milena e Silvia, colpite da uno stesso dolore, in un abbraccio, rompono in pianto. Ricevono, con parole di conforto, l'abbraccio di Lucia. Su questa scena di pianto si chiude il



SIPARIO

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