Umberto Adamoli

La castellana

Il castello, simile ad una fortezza, si ergeva sulla sommità di un colle. Aveva intorno alti monti e, da un lato, avanti, un'ampia valle, dove scorrevano lente le acque di un fiume perdentisi in una gola, in lontananza. Non si vedevano quà e là, nei pianori, nei declivi, sui poggi, che poveri casolari, gruppi di case, bianchi paeselli. La contrada, per la posizione e la natura, non offriva molto. D'estate, col verde de' suoi prati, col fruscio dei boschi, con lo spumeggiare delle limpide acque delle cascate, appariva piena di poesia; d'inverno, invece, con la nebbia e la neve, non vi regnavano che lo squallore, il silenzio, la malinconia. Ma gli abitanti trovavano il conforto di potersi raccogliere, nelle lunghe serate brumale, attorno al caminetto allegro di fiamme, per raccontare le novelle, ora gentili ora tenebrose, del castello. Scendendo dai secoli, dimora passata di potenti signori e di amabili castellane, tutto sul suo conto era consentito fantasticare. Era in quel momento disabitato, ma la fervida immaginazione dei valligiani lo popolavano di strani, misteriosi rumori e di fantasmi.
       Le solite allegre fole che avvolgono i silenziosi e talvolta lugubri luoghi abbandonati. Ma non sembrava fiaba un commovente episodio che di quel castello si raccontava, svoltosi, al tempo dei galanti trovatori, al tempo in cui leggiadri cavalieri della leggendaria cavalleria medievale, sfolgoranti d'insegne e d'armi, correvano a conquistare ai propri nomi ed ai propri stemmi, in tornei, in battaglie, in mille avventure, nuova dignità e nuovi allori.
       E si narrava come in quei tempi un vecchio dall'aspetto ieratico e patriarcale, dalla barba bianca e fluente, ed una giovine dai capelli di corvo e dai profondi occhi d'ebano, abitassero il solitario castello. Il vecchio, avanti negli anni, rimaneva per lunghe ore da un terrazzo ad osservare il paesaggio, da cui era circondato, e gli avvenimenti che vi si svolgevano. La giovane, invece, camminava, saliva ardita le erte, s'intratteneva, come ninfa, nelle chiare fonti, penetrava, diafana e leggera come deità, per i boschi frondosi. E come se tutta la solitudine, da cui era avvolta, non fosse bastata, ricercava spesso dei valloncelli i luoghi più nascosti, come per annientarsi nella forza dei propri palpiti, nella veemenza dei propri pensieri e della propria erotica esaltazione. Alla sera, nella favorevole stagione, rimaneva ancora per molte ore sul terrazzo a guardare lontano, verso l'ingresso della valle, in ansiosa attesa. Non si ritraeva che quando caduto e diffuse le ombre, fatta densa l'oscurità, più belle, più vivide le stelle brillavano nel profondo cielo stellato. Ma la vita non cessava ancora in quella rocca, avvolta d'ombra e di misteri. Risuonavano poco dopo magicamente, nell'alto silenzio, le melodie di un armoniosa arpa, ed un canto che pareva la voce, le vibrazioni di un'anima in pianto. E nell'anima di quella solitaria turbinava, invero, la più furiosa tempesta; la tempesta dell'amore e della passione.
       La leggenda alle anime vuote, opache, fredde, potrà sembrare tiepida, senza valore, ridevole. Non così alle anime elette, fiammeggianti di ideali, calde, per le quali la tragedia delle passioni appare la più significativa, la più commovente, la più profondamente, santamente umana.
       E' vero che gli attori, destinati a recitarla, turbati e scossi, debbono versare lagrime; ma è anche vero che, in compenso, soltanto a questi attori è concesso di poter cogliere, nell'incantato giardino, i più vaghi e fragranti fiori degli affetti e della vita.
       E si narrava come un giorno, colto dalla bufera, aveva chiesto asilo a quel castello un uomo d'armi. Giungeva, con superbe insegne nere, come il cavaliere della leggenda, solo e di lontano. Era stato accolto, secondo le consuetudini, con cortesia e festa, rompendo sia pure per poco, l'immobile monotonia della fredda dimora, con facezia, col racconto di briose novelle, le anime che vi vivevano. Ed alla sera, durante la permanenza, mentre il vento di bufera, mettendo i brividi, scrosciando, scuoteva le finestre e fischiava giù per il cammino, vicino al fuoco narrava dilettevoli istorie. E quando, nell'ora tarda, il vecchio si ritraeva, i due rimanevano ancora a godere la bella fiamma che con guizzi, lampi, scoppiettii, diffondeva piacevolmente il benefico calore. Ed allora, in uno strano turbamento, in palpiti mai prima avvertiti e sentiti, verso argomenti più lieti rivolgevano i loro pensieri e i loro discorsi. Egli dichiarava che le sue peregrinazioni, come quelle di tanti altri, non erano consigliate, non erano determinate soltanto dalla giovanile vanità, dal giovanile e vivace spirito d'avventura. In fondo ad ogni atto, ad ogni impresa, s'ergeva, splendeva, sfolgorava una ignota sì ma nobile, amorosa, mistica figura di donna, della quale era stato in affannosa ricerca. Aveva corso molte contrade, s'era presentato in tutti i tornei, aveva affrontato ovunque tutti i pericoli, senza poterla mai scoprire, senza poterla mai incontrare. Talvolta sfiduciato, accorato, disperato stava per desistere e cercare pace nel calmo rifugio d'un convento; talvolta, invaso da religiosa superstizione, rimaneva a lungo ad osservare il movimento delle foglie, i voli degli uccelli, il correre delle nubi, prima d'imboccare, in un bivio, l'una o l'altra strada. La scelta dell'una o dell'altra poteva condurre, come poteva allontanare per sempre dalla sospirata meta. Un giorno passando nel territorio d'un ricco feudo ed appreso come poco prima una banda di predoni ne aveva rapita la giovane signora, senza indugio e con lieta speranza, si era lanciato all'inseguimento. L'atto era stato davvero temerario e la lotta impari e aspra; ma l'agilità, il valore, la nobiltà stessa della causa, per cui aggradiva, trionfavano. Alla sera lacero e sanguinante, poteva restituire la signora al suo castello e al suo popolo.
       Era davvero bella, davvero figlia della gentilezza e della grazia. Aveva i capelli d'oro, gli occhi grandi di smeraldo, il viso d'avorio rosato, i lineamenti dolci, simpaticamente perfetti; possedeva un'anima squisita, ma non rappresentava ancora la donna de' suoi sospiri. Deluso, agitato, scosso, come attratto da un richiamo, riprendeva per altre contrade l'affannoso cammino. E spesso andava senza volontà, senza direzione, senza meta; andava come animato, come sospinto dal caso, dal destino. E per caso, nel turbinìo della neve e della bufera, era giunto in quella remota contrada, in cospetto di quel solitario castello; per caso, pur con un indefinibile presentimento, con una vaga speranza, aveva bussato alla porta; per caso finalmente si trovava dinanzi all'amata donna.
       Poichè era lei, senza dubbio, proprio lei, la donna de' suoi affanni, de' suoi ardenti sospiri, de' suoi dorati sogni. E felice, traboccante di gioia, poteva benedire il caso, la neve, il vento, la bufera.
       Nell'ascoltarlo ella si commoveva, palpitava, si esaltava. Quella voce chiara ed armoniosa risuonava in lei come musica melodiosa; quella narrazione le appariva come squisito poema, il più dolce ed ardente canto d'amore. Ma anche lei aveva qualche cosa da dire. E come scossa, come agitata da una viva passione, anche lei narrava. Narrava come sbocciata alla vita in quella patria valle, abbellita spesso da misteriosi suoni, dalle più tenere aurore e dai più infiammati tramonti, anche l'animo suo non aveva tardato ad aprirsi ai sogni e di popolarsi di cari e vaghi fantasmi, vivendo in dolci ansie, in trepida attesa. Per quella rocca erano passati, sì, avvenenti e gentili trovatori; musici impareggiabili nell'arte dei suoni e dei canti; prodi e leggiadri uomini d'armi; ma a nessuno era stato concesso di toccare, di far vibrare le sensibili, delicatissime armoniose corde del suo animo. Ed anche lei, lusingata, allettata dalla speranza, aveva visitate contrade e città, ma invano. Ed invano era andata ad assistere, nelle giostre, all'adunanza de' più valenti cavalieri. Una volta, però, la sua attenzione era stata scossa dalla presenza di un nero cavaliere, giostratore. Era certo, è vero, ma s'indovinava in lui un viso leggiadro, e svelte erano le forme e le movenze. Atterrati gli avversari, forti e temibili, lanciato uno sguardo alle donne plaudenti, senza scoprirsi, al galoppo s'allontanava, scompariva in un bosco.
       Lei, per non trovarsi avanti, non era stata vista. Ma quel nero cavaliere misterioso l'aveva turbata stranamente. Quel giorno non le era stato concesso di vederne le sembianze; ma quel cavaliere era stato senza dubbio dal benigno caso, condotto, spinto a scoprire, nella remota dimora, la sua amata donna.
       Queste cose gentili i due s'erano raccontato vicino al caminetto, mentre il fuoco scoppiettava ancora allegramente ed il silenzio incombeva alto nella notte di neve. E stringendosi forte la mano, con le più liete promesse e le più rosee speranze, s'erano dolcemente, caldamente guardati e baciati. Le loro parole erano scese nell'animo eccitato, vibrando d'amore e di passione, come una divina musica.
       Poi lui era partito, si era allontanato, ora scomparso giù nella valle; era scomparso come inghiottito nella gola maledetta da un baratro senza fondo. E lei aveva atteso il ritorno promesso, nel tempo convenuto, nella più penosa, indicibile ansia, ma invano. Talvolta, dal terrazzo della rocca, ove correva ansiosa con l'alba, dopo liete visioni notturne, le pareva di scorgere, di vedere, nel tremulo albeggiare, qualcuno risalire la valle. Il cuore, riaprendosi alla speranza, accelerava le vibrazioni ed i palpiti, ma per poco. Non erano che ombre animate dalla sua accesa, ammalata fantasia. Nei meriggi andava nella montagna ad evocare e ad invocare la pietà, l'aiuto dei benigni spiriti boscherecci. Sul finir mesto del giorno tornava al terrazzo a scrutare la vallata, essendo convinta, nella sua esaltazione, che il bel cavaliere dovesse tornare nell'ora malinconica del tramonto.
       E nelle notti chiare di luna restava là per lunghe ore, come avvinta dai suoi strani dei boschi, dal sinistro lamentevole scroscio, nella notte di pace, delle cascate; dal mormorìo, nella sua perpetua corsa, dalla voce velata del fiume, che pareva piangere sulle sventure, sui dolori umani. Ed in quelle notti si diffondeva ancora nell'aria, come una disperata invocazione, come un ultimo pianto, la più dolce delle musiche, il più flebile dei canti.
       Il vecchio padre, accorato, non era riuscito ad arrecare all'infelice figliuola, nella sua nera disperazione, nessun conforto.
       Se per caso altri cavalieri giungevano alla rocca, per il tempo della loro permanenza, restava nascosta. Non avvicinava più neppure i valligiani, dai quali era stata sempre amata. Tutti ora ne sentivano pietà, e tutti presentivano, a causa del nero cavaliere, prossime giornate di lutto.
       Il triste presentimento non tardava ad avverarsi! In un mesto giorno di autunno anche lei d'improvviso e misteriosamente scompariva. La fantasia popolare aveva intessuto sul fatto le più strane congetture. Chi la diceva fosse alla ricerca dell'uomo della disdetta; chi la vedeva chiusa piamente in un lontano convento e chi demente sperduta nel mondo. Ma era ormai comune credenza, come in una sera di luna, vestita di bianco, coperta di rose e di crisantemi, al suono di una mandola e al canto dolce di una nenia, ella si fosse sposata al placido fiume e che il fiume l'avesse stretta nel suo morbido abbraccio e la custodisse ora geloso ne' suoi antri profondi.
       Qualche tardo viandante giurava d'aver visto aggirarsi di notte, lungo quelle sponde, una bianca, leggiera, diafana figura di fantasma. La stessa figura sarebbe stata vista, dopo l'avemaria, nei boschi e sugli spalti del castello. La scomparsa della bella e sventurata signora dalla contrada, ad ogni modo, era certa.
       Ma la fatalità non era mai apparsa, come a quei due amanti, così avversa, ironica e tragica! Le campane dei villaggi vicini, per devoto omaggio e devota pietà, dedicavano ancora alla scomparsa, dopo il tramonto, gli ultimi rintocchi della mesta avemaria, quando al galoppo, fremente d'ansia e di desiderio, era ricomparso nella valle e si era ripresentato al castello il nero cavaliere, da poco liberato da una dura prigionia.
       Ogni anima ben nata può pensare quale tempesta, dinanzi alla dura verità, dovesse scatenarsi e sconvolgere quello sventurato! Era stato udito urlare, come belva ferita; era stato visto percuotersi, strapparsi gli abiti, correre pel castello, per i boschi, per i poggi, per la vallata; era stato sentito inveire atrocemente contro il maligno, perfido destino. Ed aveva, quasi esausto, chiamato dai poggi, dai terrazzi, dalle torri, con i nomi più belli e dolci, la sua amata assente. Poi d'improvviso, come un forsennato, a corsa pazza, mentre le campane rimbombavano con i lenti rintocchi mesti della sera, s'allontanava giù per la valle. Allo sbocco, fermatosi per un momento, aveva rivolto lo sguardo torvo, al vuoto e lugubre castello. Dopo, spronato violentemente l'impaziente destriero, anche il nero cavaliere scompariva come inghiottito da un baratro, scompariva per sempre nella lontananza, nel nulla, nell'eternità.
       Ed oggi, ogni anno, come santa promessa, come sacra tradizione, nella prima domenica d'autunno, misticamente, religiosamente, i valligiani si recano ad infiorare di rose e di crisantemi, la sponda del fiume, sui cui appare, in veste di fantasma notturno, la bianca castellana.

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