Umberto Adamoli

A Trieste

       Era stato destinato a Trieste, per disimpegnarvi la sua missione, quale ufficiale. Quando il treno, dopo Monfalcone, entrò nell'ampio golfo e apparve laggiù la redenta città ebbe nel suo cuore una scossa, un forte tuffo. Gli parve come se rivedesse, come se tornasse, dopo molti anni, dopo le più dure peripezie e le più agitate e contrastate speranze, alla cara e dolce donna amata. E passarono per la sua mente, come un baleno, le vicissitudini della dura, lunga, cruenta guerra, gli sconforti e le speranze; la fede ed il valore; i sacrifici senza confronti e senza nome, e la meravigliosa, divina vittoria. E risuonò per un momento ancora, nel suo animo commosso, il fatidico e fiero canto, tante volte ripetuto, anche nei momenti più tragici, nella sconvolta ed insanguinata trincea:
       - O Trieste o Trieste del mio cuore noi ti veniamo a liberar.
       Ed egli, gonfio di contentezza, con qualche cosa di indefinibilmente voluttuoso nell'animo, la poteva vedere alfine libera e festosa.
       E giungeva quando il sole, che declinava in un magnifico sereno tramonto di maggio, incendiando di vive fiamme i campanili, le cupole, le guglie, le invetriate, dava alla città una magica visione. Trieste, italianamente bella, appariva incantevole, spingendo a benedire i durissimi sacrifici affrontati e sopportati per riconquistarla alla madre patria. E non si appagava, non si saziava di ammirarla e, in ispirito, d'abbracciarla, quasi per carezzarla, per baciarla come adorata mamma, caldamente, fervorosamente.
       Poco dopo l'arrivo, però, doveva raggiungere, pel suo servizio, un villaggio non lontano. Non essendovi alberghi, doveva requisire, secondo gli usi militari, una camera nell'abitazione di un ricco tedesco, colà residente per ragioni professionali. La villa, collocata su un poggio, a guardia del mare, con il suo verde ed i suoi fiori, era incantevole. Non vi mancavano, con le vaschette zampillanti di fresca acqua, le ninfe aggirantisi per i giardini ed i viali ombroso, rappresentate da due nordiche giovinezze, figliole del proprietario.
       Non dispiaceva di trovarsi, appena dopo la discesa della tela sulla grande tragedia, in casa di un fiero prussiano, in qualità di vittorioso. L'educazione, però, consigliava di non umiliare, di non far sentire ai vinti le conseguenze dell'aspra sconfitta.
       Nella diffidenza e nel rigido carattere non ne sembravano dapprima persuasi. Ma non tardava il latin sangue gentile ad imporsi alla loro stima e simpatia.
       I primi amichevoli contatti, come sempre accade, avvenivano con il sesso non forte. La donna, con i delicati istinti, forse non a torto dal punto di vista umano, non si lascia di soverchio vincere dai risentimenti e dagli odi determinati, nelle eterne competizioni, dagli inevitabili conflitti dei popoli.
       Le conversazioni, quindi, pur con qualche accenno pacato e sereno alla guerra, divenivano sempre più cordiali e confidenziali. Ma l'ufficiale e la maggiore delle due bionde, nell'eterna vicenda, non tardavano ad iniziare, con tenue trame, la tessitura della rosea tela. Le persone ed i cuori, in certe condizioni, somigliano un po' tutti! Possedeva essa un'educazione squisita, una coltura superiore, tratti amabili, modi simpatici. Non era bella, ma aveva, nel personale alto e slanciato, armoniose forme e una folta capigliatura d'oro.
       Con le comune tendenze letterarie, avendo gli animi aperti al bello e alla poesia, i poeti erano stati gli oggetti delle loro prime conversazioni. Nei meriggi dell'estate che avanzava, nei boschetti frondosi, ne avevano incominciato la lettura, scegliendo quelli che più parlavano al cuore, che più commovevano, che più infiammavano. Talvolta, nei punti in cui il poeta più scintillava di fantasia, più ferveva di passione, lei appariva come estatica, come agitata da un'idea, scossa da un sogno. Spesso, nelle pause, desiderava che l'ufficiale parlasse della natia regione lontana. Ed egli, con vivo spirito, dipingeva i suggestivi quadri che rappresentava, con tinte vivaci e sfavillanti. Nei monti coperti di pini e d'abeti, nelle valli verdeggianti e ricche di bianche cascate, vi faceva risuonare poeticamente melodie di pifferi e di flauti di vaganti pastori; i campi ricchi di vigneti e le aie ricche di biade, nei meriggi e di sera, li riempiva di gai canti; popolava le bianche ville fiorite, di virtuose e classiche bellezze, sognanti, con l'azzurro del cielo e del mare, azzurri sogni. Animava gli abitanti, dediti ad oneste opere, di costumi severi, di sentimenti forti, di sani principi, di nobili aspirazioni. E non vi faceva mancare esperti pittori, eletti musici, squisiti vati, alti poeti destinati a predire, a vaticinare, ad eternare nei forti ed elevati canti la grandezza e la virtù della razza.
       Ella seguiva i racconti con religioso raccoglimento, se ne commoveva, come se si parlasse della sua terra, della stessa sua patria lontana. E con i sereni commenti, ognuno rivelava la parte recondita del proprio animo, le passioni che vi fervevano, i sentimenti che vi fiammeggiavano, ed il fervido amore nutrito da ognuno per la propria patria. Nelle serate di musica, in casa di lei, poteva così avvenire che ai patetici e commoventi inni tedeschi, cantati in coro, potessero seguire, cantati con non meno fervore e passione, i forti inni della vittoriosa patria italiana.
       Forse un giorno, negli umani contrasti, potevano tornare nemici; allora le manifestazioni di stima e di simpatia apparivano spontanee e sincere.
       Ma i due non tardavano, dopo la lettura, ad iniziare passeggiate oltre i giardini, oltre il recinto, verso la campagna, lungo la spiaggia. Essendo lei esperta nel maneggio della vela, spesso nel pomeriggio andavano a cullare in barca, sulle onde mosse del mare, con il corpo, lo spirito e la fantasia. Rimanevano, per maggiormente far vibrare i loro cuori, sino a tarda ora; sino a quando non si udissero le melodie di piccoli concerti, naviganti al chiar di luna, sui palpiti lenti delle acque.
       Qualche volta, commossa più del solito, con fine e significativa arguzia, come animata da una viva idea, ella domandava se non dovesse volgere la prua, non verso il mondo di d'annunziano ricordo, ma in direzione opposta alla sua casa, verso la regione dei monti, dei boschi, delle valli e dei pastori; verso la fiorita spiaggia delle bianche ville.
       Non mancavano, tal'altra volta, di scegliere, come meta, un poggio più lontano, uscente quasi dal mare, coperto di ginestre, adorno di alberi. Il luogo già in sè stesso ameno, diveniva nell'ora del tramonto, per la scena che vi si vivificava, magicamente bello. I raggi infuocati del sole morente, concentrandosi nella poco ampia insenatura, pareva che incendiassero, che trasformassero in scintillante oro fuso, le mosse acque azzurre del mare. Le barche che vi potevano correre in quel momento, assumevano sul liquido in fiamma e nella rossa caligine, l'aspetto più strano e fantastico.
       Il solitario rifugio appariva come una fumeria orientale d'oppio, dove, dimenticando le miserie e gli affanni, pareva che i sensi si sciogliessero, si elevassero, fossero avvolti da deliziose visioni, colpiti da voluttuoso smarrimento.
       Nel ritornare ad ora tarda verso casa, nel risveglio, apparivano molto turbati. Troppo in alto, troppo lontano dalla terra, dalle azzurre visioni, erano stati trasportati!
       Ma con il nuovo giorno, tornavano sereni alle gioconde letture, alle briose conversazioni, al delizioso vagare per i dintorni. Però, chi ben vi scrutasse, indovinava come una lieve, quasi impercettibile nube avvolgesse ogni loro atto. Non potevano non pensare, anche nei momenti più festosi, che quella vita tinta di rosa doveva pur avere un fine. Nessuno dei due, certo, ardiva fantasticare, pensare seriamente ciò che non sarebbe stato possibile attuare. Talvolta ella, quasi timorosa, ombrata di mestizia, come a diversivo, parlava della dolce missione affidata alla donna, dell'ineffabile gioia dell'amore, della santità della famiglia ed alla possibilità alla donna, in omaggio al più forte dei sentimenti, di potersi eleggere una seconda patria.
       Essendo i due sentimenti ugualmente forti e poderosi, non era facile, discutendo, di giungere ad una soluzione.
       L'amore che fiammeggia negli anni più vigorosi, generosamente, spinge ad ardite decisioni. E si compiace della sua potenza, e talvolta anche dei dolci inganni, a coprire con rosei veli, con ingannevoli miraggi, i limiti che dividono, che distinguono nazioni diverse, e razze di diverso sangue, di diverso vivere, di diverso sentire. Come sirena, con i suoi incanti, attrae, avvince irresistibilmente, fortemente.
       Ma la patria, nei nobili e santi sentimenti, si presenta non meno imperiosa nei suoi diritti.
       Nella patria, giungendo alla vita, si emette il primo vagito, e si cresce circondato dai più teneri affetti; nella patria si parla la stessa lingua, si pensano gli stessi pensieri, si palpitano, come in una famiglia, gli stessi palpiti, si vive degli stessi ideali, si è allietati dalla stessa musica, commosso dai divini canti degli stessi poeti. Nella patria dormono, come sacri numi tutelari, gli antenati, le persone più care agli affetti più santi. Per la patria, nell'orgoglio della razza e nello splendore della storia, si compiono opere nobili, atti di santo eroismo. Nella patria, nelle aspirazioni più alte, si vivono le gioie più pure. Tragico diviene il vivere a coloro che, negli inevitabili contrasti, si trovano di dover scegliere tra due patrie. Senza dubbio si può amare la patria di elezione; ma soltanto la patria di origine, con i potenti vincoli, con i santi affetti, con le religiose reliquie che raccoglie, può parlare la divina voce che infiamma, che esalta, con la sua fortuna e la sua grandezza, di ineffabile contentezza.
       Conveniva, quindi, di non approfondire l'argomento, continuando a cogliere quanto lietamente pel momento loro offriva la vita.
       Anche nella famiglia l'ufficiale, ove godeva viva simpatia, nelle sere piovose dell'autunno, con briosa fantasia, narrava piacevoli fiabe. Talvolta, fingendo di discendere egli stesso dai pastori che popolavano i monti della nativa regione, descriveva la placida vita vissuta nelle valli, avvivando la solitudine con il melodioso suono di un flauto. Parlava delle misteriose grotte, abitate da fate, e della montagna dove un giorno sarebbe andato a vivere da eremita.
       Tal'altra volta, continuando nello scherzo, si presentava di sera, come pellegrino smarrito, venendo di lontano, bisognoso d'ospitalità e di ristoro. E nel mentre narrava peripezie e avventure fantastiche, poteva più del consueto predare nelle leccornie che, a suo ristoro, gli erano offerte con festosa espansività.
       A lui stesso non erano risparmiati lieti scherzi! Una sera d'ottobre, tornando a casa, trovava il suo letto adorno di tralci e di grappoli d'uva. Un'altra volta, in omaggio forse alle sue narrazioni, nella stessa stanza, era stata rappresentata la bruna montagna nativa, coperta di pini e disseminata di grotte, con pastori vaganti, pastorelle in canto ed eremiti in meditazioni.
       Da ciò poteva ancora una volta dedurre come, in fondo in fondo, il cuore umano conservasse sempre un po' del fanciullo, qualche cosa di tenue, una parte delicata e nobile. Quei tedeschi, di consueti burberi, rigidi, seri come anacoreti, fieri nemici sino al giorno innanzi, recitavano con l'italiano, allegramente, festose e deliziose scenette di esclusiva intimità famigliare.
       Non erano rare, inoltre, in quella casa, adunata di gente di diversa nazionalità: italiani, germanici, austriaci, slavi. Era facile, nelle diverse condizioni, intuire quali sentimenti turbinassero nel cuore d'ognuno. Il tedesco, nell'orgoglio della sua operosa e forte razza, nella consapevolezza della sua fiera storia, non poteva non considerare, certo, mentre si suonava appassionata musica, con profonda amarezza, la tremenda sconfitta e le dolorosissime sue conseguenze; l'austriaco, nel ricordo dei lunghi periodi di lotte vittoriose, dei lunghi secoli di possanza e di gloria, non poteva non rammaricarsi, non piangere su i superbi idoli infranti, sull'irreparabile rovina della patria disfatta; lo slavo non poteva, alla sua volta, non riflettere con pena sull'inutilità della sua fede, del suo ostinato valore spiegato a sostegno di un mal fondato, vacillante trono di una patria non sua; l'italiano, finalmente, nelle rivendicazioni compiute contro tutti, non poteva non alzare canti di gioia, inni di vittoria sul divino trionfo.
       Negli atti esterni, però, nulla si scorgeva, nulla trapelava. Allo spumante offerto agli ospiti, con i bicchieri scintillanti in alto, ognuno lieto brindava, nelle eterne finzioni ed ipocrisie umane, alla salute della patria altrui!
       L'ufficiale, ad ogni modo, era in quella casa amato. E quando una sera annunziava, d'improvviso, la sua prossima partenza per altra lontana residenza, come per incanto, cessavano il brio, cessava la festa che si usava di fare al suo apparire. Nessuno vi voleva credere; tutti, nel turbamento, desideravano che fosse uno scherzo. Non era scherzo e, francamente, anche all'italiano dispiaceva l'allontanamento.
       Come si vede, il cuore umano è costituito di molte stranezze!
       Ma l'ingrata notizia, più che ogni altro, colpiva profondamente colei che era stata in modo particolare a lui amica. Prima di separarsi i due, oltre alle meste discussioni e conversazioni, vollero rivedere i luoghi dove erano passati, dove avevano, in una beata dimenticanza, in un beato smarrimento, sostato e goduto. E tornarono per l'ultima volta, come ad un santuario, al noto delizioso ed infiorato rifugio, per potervi un momento ancora dimenticare le amarezze, per potervi una volta ancora inalzare all'amorosa amicizia appassionato canto.
       E non potevano non considerare come quel tempo fosse passato velocemente, come un sogno. Pareva loro come se si fossero incontrati per caso sul limite di una deliziosa oasi, mentre, nella solenne musica del risveglio, l'aurora appariva in oriente, nelle delicate sfumatura, con tutto il magico incanto. Insieme erano entrati a godere, con la freschezza del suo verde, con i profumi de' suoi fiori, con la pace della sua solitudine, l'incomparabile divina bellezza. E si erano, nell'estasi, fortemente riscaldati al raggio vivo del sole splendente del mezzogiorno. Ma giunta malinconicamente la sera, giunta la notte, ognuno, nelle ombre, doveva riprendere, per vie diverse, l'inesorabile cammino, per non più rivedersi, per perdersi per sempre nel desolato sconfinato deserto.
       Il tempo, intanto, precipitava, e giungeva inflessibile il giorno della partenza. Il distacco, senza promesse, da quella famiglia, non poteva non addolorare. Ella, pallidissima, in pianto, nel disperato ultimo abbraccio, pareva, nella forte passione, che non volesse cedere il dolce amico al duro, implacabile destino. Egli, allo scoccare dell'ora, doveva, con dolce violenza, liberarsene.
       Nel medesimo mese, nell'ora stessa in cui l'anno prima era giunto festoso a Trieste, l'ufficiale ne ripartiva: ne ripartiva, però, in condizioni ben differenti d'animo. Quando si allontanava il sole volgeva di nuovo al tramonto, ma nel turbamento nulla osservava del magnifico scenario. Il suo sguardo andava più lontano; andava al bel poggio, per ricercare e dolcemente confortare in ispirito colei che vi soffriva, che in tempesta vi piangeva.
       Quando, caduto il sole ed addensatesi le ombre, non si offrivano più alla vista che tremuli punti luminosi, l'ufficiale, rientrato, s'abbandonava, nella sua angoscia, in un angolo della carrozza del treno in corsa che lo conduceva lontano.
       

Torna alla videata principale Umberto