Umberto Adamoli

L'ombra che vince

Dramma in quattro atti
Encomio al Concorso Nazionale Gastaldi 1954 per il Teatro

[articolo tratto da Il Tempo del 2 giugno 1959]




PERSONAGGI

CLARA - figlia di Giancarlo Fazi
NEMESIO MONTECCHI - fidanzato
GIANCARLO FAZI - padre
PAOLA - zia
FABIO - amico di Giancarlo
LAZZARO - serparo
BALBINA, PATRICIA, EUFRASIA - veneziane
MATTEO - già della banda Montecchi
BIBIANA - amica di Paola
MENDICANTE
TONIO - contadino
UOMINI MASCHERATI - due
RITA - giovane contadina


Coro delle vendemmiatrici - Coro dei pellegrini -
Canti di campagna - Nel Pretuzio e a Venezia.
ANNI 1713-1715





ATTO PRIMO


SCENA PRIMA


Nel giardino della villa di Giancarlo Fari, fuori della città. Lo stesso Giancarlo, uomo sulla sessantina, seduto all'ombra di conifere, parla con un amico, quasi coetaneo, giunto da Teramo: Fabio.
E un giorno limpido del mese di maggio. S'ode il canto d'una villanella che, nella campagna, pascola le pecore e il gorgheggio, nella siepe di biancospino, d'un usignuolo. Sul tavolo, non grande, presso il quale seggono, vi sono bicchieri colmi ai vino e una bottiglia.
Su questo quadro si alza il sipario.
Di tanto in tanto il canto della villanella s'interrompe. Anche l'usignuolo sospende il canto.

FABIO

(prendendo il bicchiere che Giancarlo gli offre)

Ecco la vita che si dovrebbe vivere per benedire la vita. O come qui si respira bene. La campagna! Sogno sempre dì anime gentili, di mistici, di poeti, ricca sempre di colori, di melodie, di canti.

(Alzando il bicchiere)

Viva la campagna!

GIANCARLO

Benedetta la campagna

FABIO

(dopo che, sorseggiando, ha bevuto)

Squisito questo vino.

GIANCARLO

Trebbiano di Silvi.

FABIO

Osanna allora anche a Silvi che offre, con il suo bel mare e le sue colline verdi, anche questo dorato nèttare, degno degli dei, che inebria, esalta, fa dimenticare le pene, placa gli affanni.
Fortunato te che con questo delizioso latte dei vecchi, godi questo sereno cantuccio senza gli inganni, le passioni, le tristizie della città.

GIANCARLO

E no, amico. Sono troppo vicino alla città per non risentirne le miserie. Intesi, intesi l'altro giorno lo scampanio festoso per l'arrivo dei nuovi padroni.

FABIO

Scampanio festoso! E i rinnegati applaudivano gli austriaci come prima avevano applaudito gli spagnuoli, come domani applaudirebbero, in altri mutamenti, i nuovi aguzzini.

GIANCARLO

Quanta decadenza!

FABIO

Non tutte le campane, però, suonarono. Un degno sacerdote impedì che, nella stupida gazzarra, si suonassero le campane della sua chiesa.

FABIO

Degno sacerdote. Ma le altre persone? Almeno una volta vi erano i banditi a far tremare tutta la nostrana e forestiera canaglia.

FABIO

E a tenere accesa la fiamma dell'italianità e della speranza. Rammento. Rammento quando le bande capitanate da Santuccio di Froscia, da Titta Colranieri e da Giulio Montecchi incutevano rispetto e paura agli spagnuoli dominatori e ai loro servi: quelle nostre bande che andarono poi a coprirsi di gloria in difesa di Venezia, minacciata, in Dalmazia, dai turchi.

GIANCARLO

Vive fiammate tra tanta oscurità. E tutto oggi è aggravato dalle malattie, dai terremoti, dalla carestia. Un vero castigo di Dio. Povera gente viene qui a ritirare la crusca, per cibarsene

FABIO

Ma non tutti si cibano di crusca.

GIANCARLO

Quelli che ci governano e i loro satelliti non mangiano certo crusca, nè i falsi paladini, i sinistri demagoghi, veri sfruttatori del popolo.

FABIO

Vera peste.

GIANCARLO

(indicando con la mano verso destra)

Eccolo là un campione dei nostri tempi.

(Un uomo, poveramente vestito, avanza nel giardino.)

FABIO

Uno dei tanti pezzenti.

GIANCARLO

(guardando meglio)

Non sembra.

FABIO

E chi può essere...

GIANCARLO

Un serparo.

FABIO

Già, un serparo.

GIANCARLO

Altra felice genia che con i lupi mannari, i maghi, le fattucchiere e gli zingari concorrono a dare strana rinomanza alla nostra terra.

(Intanto l'uomo, misero nel fisico e nel vestito, appare da un lato della scena, con una cassetta a tracolla.)



SCENA SECONDA


SERPARO

(che si avvicina lentamente, timido)

Che san Domenico vi protegga!

GIANCARLO

Che volete che ci protegga il vostro san Domenico con tanti serpi che sono intorno!

SERPARO

(che non ha capito l'ironia)

I miei serpi, come certo sapete, con la loro morsicatura, vi potrebbero rendere, appunto, l'immunità.

FABIO

Povero uomo!

SERPARO

Ne dubitate? Affari d'oro ho fatto questa mattina a Cavuccio. Nel decorso anno, dopo il mio passaggio, un uomo era stato morsicato da una vipera. La vipera moriva, non il mio uomo.
« A me, a me » quando mi hanno visto si gridava da ogni parte. « A me, a me ». Stanchi ne siamo usciti io i miei serpi. E san Domenico di Cocullo sia benedetto.

(Si scopre nel nominare il santo.)

Su non temete. Datemi il braccio. E' un attimo.

GIANCARLO

Schiacciar la testa, come maledizione divina, si deve al serpe, che è stato, con la donna, causa di tutti i nostri mali.

SERPARO

Ma vi dico che è un attimo...

(Mentre parla apre la cassetta. Un serpe fa capolino.)

GIANCARLO

Andate, andate a portare altrove le vostre chiacchiere, il vostro inganno.

SERPARO

Ho capito. Non vi è fede in questa casa per i miei serpi e per il mio santo. A ogni modo che san Domenico vi protegga.

(Rinchiude la cassetta, saluta e se ne va con evidente stanchezza.)

FABIO

A quanti strani mestieri Si ricorre, su questa povera terra, per vivere. Perché tanta miseria?

GIANCARLO

Di chi la colpa?

FABIO

"Della società" dicono gli uni; "del destino" dicono gli altri.

GIANCARLO

Per me la colpa è dell'uomo stesso, che non sa o non vuole risolvere da sè, con l'onesta operosità, i propri problemi.

FABIO

Non di tutti gli uomini, s'intende.

GIANCARLO

Certo. Vi sono gli oziosi, i parassiti, gli imbevuti d'odio, i ladri che cercano di vivere sul lavoro altrui; ma vi sono pure altri che sanno conquistarsi, nella società, con l'onesta attività, posti onorevoli.

FABIO

Come è il caso di Germinio, che tu conosci.

GIANCARLO

Esempio luminoso nell'ordine delle nobili aspirazioni e della forza della volontà.

FABIO

Volle e ottenne.

GIANCARLO

Eppure gli sciagurati guardano alla sua fortuna con bieco cupido occhio.

FABIO

Il bene e il male, sempre in conflitto. è quanto l'uomo s'ebbe a meritare, nelle per la sua grande disubbidienza.

GIANCARLO

Piano, piano. Qui l'uomo c'entra sino a un certo punto. La colpa è della donna che si fece, col pomo, ingannare dal serpente maledetto.

FABIO

E l'uomo, gonzo, si fece ingannare da colei che doveva essere, in un eterno godimento, nel meraviglioso giardino, la tenera sua compagna.

GIANCARLO

D'altra parte, senza quella disubbidienza noi oggi non saremmo qui.


FABIO

Tanto di guadagnato. Le bestie, inoltre, avrebbero vissuto, senza l'uomo, in tranquilla. sicurezza.
Che ce ne viene poi a vivere?

GIANCARLO

L'eterno lamento. Ma quando si è su questa terra nessuno se ne vorrebbe andare. E per rimanervi a lungo, anche se poveri, anche se sventurati, si ricorre ai medici, alle medicine, alle preghiere, ai santi.

FABIO

E vero anche questo, nell'eterna contraddizione.

GIANCARLO

Quindi, giacchè ci siamo, prendiamo la vita così come è, con le sue gioie, con i suoi dolori.

FABIO

(guardando da una parte)

O ecco la tua bella figliuola che ci viene a distogliere da questi confusi melanconici discorsi.

GIANCARLO

Non viene qui. Scende ogni sera a quest'ora per cogliere fiori per la mamma.

FABIO

Brava figliuola.

GIANCARLO

E la mamma rediviva. Ma non riesce a vincere l'affanno per il fatto che la mamma periva nel dare ad essa la vita. Ne piange come una sua colpa. Non se ne festeggia la nascita.

FABIO

Se ne festeggerà tra poco le promesse della vita. Ho inteso parlare d'un suo prossimo fidanzamento col ricco giovane Montanari.

GIANCARLO

Ne sarei lieto... Ma...

FABIO

Non acconsente?

GIANCARLO

Pare che altro giovane, figlio d'uno della montagna, abbia accesa la fatale fiamma nel suo cuore.

FABIO

E tu?

GIANCARLO

Seguo lo svolgersi degli eventi in attesa che il tempo la conduca su quella via che dia a me la pace, a lei la felicità.

FABIO

Con la ricchezza?

GIANCARLO

Soprattutto. È inutile su certi argomenti fare poesia, o pascersi di illusioni.

FABIO

Senza dubbio, se si dovesse vivere di solo pane.

GIANCARLO

La solita vuota retorica, con la solita capanna.

FABIO

Oro adunque?

GIANGARLO

Sì, oro.

FABIO

Quanto inganno! I palazzi sontuosi, le mura massicce, il lusso mi possono indurre a considerare con rispetto la ricchezza, ma trovo la poesia soltanto nella capanna avvolta di verde, di fiori, di santo silenzio.

GIANCARLO

Non ti comprendo.

FABIO

Ascolta, allora. L'altro giorno stavo, in placido riposo, nei pressi di Rocciano. Sotto, nella valle, mormorava il Tordino. Lontano s'ergevano i monti con le cime bianche di neve. Due tortore tubavano, felici, su un albero. L'usignuolo, in un cespuglio, allietava la compagna, che era nel nido, con il suo canto d'amore. Un giovane lavorava, tranquillo, nella vigna in vegetazione. Sul mezzogiorno usciva di casa, svelta e linda, con una canestra ricolma, la giovane sposa. I due consumarono il pasto all'ombra del biblico ulivo, nella musicalità dei campi, con un senso di mistico raccoglimento.

GIANCARLO

Ebbene?

FABIO

Misera cosa m 'apparivano, in confronto, i saloni dalle false luci, le donne dalle false tinte, gli svenevoli cicisbei dal falso sentire.

GIANCARLO

Che vuoi con ciò dire?

FABIO

Che quei due giovani villici, come la tortora sull'albero, come l'usignuolo nel cespuglio, godevano davvero la vita.

GIANCARLO

In attesa del pianto, al quale nessuno sfugge, con l'aggravante della miseria per chi è nella miseria. Ma quel giovane della montagna fra giorni partirà, come dicono, per la Dalmazia o per Venezia e lontano dagli occhi...

FABIO

Se il fuoco è di paglia... A ogni modo vi è un fato, e gli antichi ben lo sapevano, contro il quale è inutile lottare.

GIANCARLO

Il fato?

FABIO

Sì, il fato. Ne riparleremo, ne riparleremo. Ora debbo andare, essendo in città aspettato. Ma tornerò presto, anche per tuffare in questo verde e in questo... come si chiama?

GIANCARLO

Trebbiano...

FABIO

Dalla purezza dell'ambra, rapito agli dei.

GIANCARLO

Allora un altro bicchiere. (Mesce. Bevono.)

FABIO
Io proprio non capisco come si debba vivere in angustia, quando con tante cose belle e buone che offre il mondo, e con questo trebbiano, si potrebbe vivere sempre in letizia.

(Si muove per andarsene.)

GIANCARLO

Ti accompagno. Ho qualche faccenda da sbrigare in città.

FABIO

E a visitare qualche amico buontempone.

(Intanto chiacchierando escono dalla parte di destra. Il sole va verso il tramonto. Una fantesca si presenta a togliere vino e bicchieri. S'ode ancora il canto dell'usignuolo, il gracidar di ranocchi, l'abbaiar lontano d'un cane. Dopo un giovane, sui venti quattro anni, Nemesio, avanza silenzioso, cauto, guardingo. Si ferma. Emette un lieve fischio. Poco dopo appare la giovane Clara, figlia di Giancarlo.)




SCENA TERZA


NEMESIO

(che le va incontro)

Clara!

CLARA

Nemesio!

NEMESIO

Quanto ho desiderato di rivederti, di godere quest'attimo che il tempo benigno concede a noi, in questo giardino in fiore, nella più mistica delle ore.

CLARA

Ora di preghiera, di poesia, di bellezza.

NEMESIO

Di dolcezza.

CLARA

Ma ho paura.

NEMESIO

Di che?

CLARA

Non so. Non sono tranquilla. Mentre tutto canta intorno a noi odo di lontano rumor di tempesta, che molto mi turba.


NEMESIO

Ma se tutto qui è sereno.

CLARA

Nonostante...

NEMESIO

Abbi, abbi in me fiducia.

CLARA

Ed ho fiducia. Ma tu fra giorni parti.

NEMESIO

Per adempiere la promessa fatta a mia madre, sul letto di morte: promessa di portare il suo ultimo bacio a mio padre, che dorme il sonno eterno sui monti della Dalmazia, ove cadde combattendo per un santo ideale.

CLARA

Nobile l'atto, ma lungo è il viaggio, insidiosa la lontananza.

NEMESIO

L'insidia è qui, in tuo padre e...

CLARA

No, no. Niente altro mi dirà mio padre, ne sono sicura e io giungerò a te limpida come acqua di sorgente, pura come fiore in boccia.

NEMESIO

Con la benedizione del cielo.

(A questo punto la zia Paola, che vive con lei, chiama.)

PAOLA

Clara...

CLARA

Vengo, vengo zia. (A Nemesio) Debbo andare. È tardi.

NEMESIO

È l'ora dell'Avemaria e delle sicure promesse.

CLARA

L'ora soave del canto delle anime.

NEMESIO

E niente altro mi dici, Clara?

CLARA

Torna presto.
Io o sarò tua o di nessuno. Una volta si vive nell'amore, come una volta si vive nella vita.

NEMESIO

Mi basta. E allora?

PAOLA

(chiama ancora)

Clara...

CLARA

Vengo, vengo zia.

NEMESIO

E allora?

CLARA

Sia felice il tuo viaggio.

NEMESIO

Senza un bacio?

CLARA

Un bacio...

NEMESIO

Roseo suggello a ogni patto d'amore.

CLARA

Sì, ma dopo l'altare.

NEMESIO

Anche prima, nella religiosità dei sentimenti.

CLARA

Sentimenti che debbono rimanere chiusi, con il bacio, nell'attesa deliziosa, nella santità del cuore.

NEMESIO

Gli spiriti luminosi avvolgano, cara fanciulla, la tua casa, la tua vita candida, le tue speranze.

(Mentre Nemesio le bacia con rispetto la mano e la sera canta.}


CALA LA TELA




ATTO SECONDO


SCENA PRIMA



A Venezia, in un piccolo salotto, modestamente addobbato, Nemesio e Balbina, seduti l'un di fronte all'altro, sono in conversazione.


BALBINA

(come se continuasse in un discorso)

Mio padre, appunto, era della vostra terra. Rimase a Venezia dopo la guerra contro i turchi, alla quale la sua banda prese parte in modo glorioso.
Raccontava tante cose della sua terra natia: racconti talvolta tinti d'odio, di rivolta, di sangue, tal'altra luminosi di generosità, di gentilezza, di poesia. E parlava di castelli, di spechi, di tesori nascosti in un certo bosco Martese.

NEMESIO

Molte leggende corrono su questa romantica terra e su questo bosco, rifugio di spiriti inquieti, teatro di lotte sanguinose. Funesto fu ai cartaginesi quando tentarono di passarvi, nè benigno è stato agli spagnuoli, nella loro lotta contro i pretuziani.

BALBINA

Popolo guerriero il vostro.

NEMESIO

Popolo che è fiero della sua origine, che ha ancora vivo nel sangue l'orgoglio della grandezza latina, che combatte per la libertà, ama la giustizia, non disdegna la gloria.

BALBINA

E in bellezza?

NEMESIO

L'Italia, prediletta figlia del cielo, è tutta bella. Bella è la vostra laguna, con tanti meravigliosi palazzi, con tanti insigni monumenti.

BALBINA

E da voi non ve ne sono?

NEMESIO

Da noi non vi sono che montagne, grandi però più di tutte le vostre isole; valli, ampie più di tutti i vostri canali; strade, larghe più delle vostre calli.

BALBINA

Soltanto?

NEMESIO

E la campagna con i prati, i fiori, gli alberi è tutto un giardino, un parco esteso. Un inno sale perenne al cielo da quelle valli, fresche d'acqua; da quei boschi, freschi d'ombre.

BALBINA

Delizioso.

NEMESIO

Bella la vostra città, baciata da ogni parte dalle onde del mare. Belle pure le nostre piccole case, avvolte di verde; le nostre piccole chiese, avvolte di silenzio, non turbate da pompe che contrastino con la semplicità evangelica.

BALBINA

Penso però che i veneziani non saprebbero vivere lontano dalla loro laguna.

NEMESIO

Né i pretuziani lontano dalle loro montagne.

BALBINA

E in verità, lontano da esse, consumato dalla nostalgia, giovane ne moriva mio padre.

NEMESIO

Lo credo. Quantunque in me arrida il pensiero del ritorno, pure in fondo al mio spirito punge forte la mestizia. Vedo da qui la mia terra in una luce tenerissima.

BALBINA

Anche le donne, senza dubbio.

NEMESIO

Anche le donne, eterna musica dell'anima'.

BALBINA

Come sono queste vostre donne?

NEMESIO

Come i fiori, nati spontanei nella libertà dei campi.

BALBINA

E come vestono?

NEMESIO

Senza artificio e vestono con panno da esse stesse tessuto nel telaio domestico.

BALBINA

Come vivono? Scusate la curiosità, che è donna.

NEMESIO

Vivono nella santità del lavoro. Si alzano con l'alba e cantano, come gli uccelli, raccolti sugli alberi. La domenica, vestite a nuovo, vanno a messa, dove vanno pure i giovani, in devota festosità.

BALBINA

Ma anche noi andiamo a messa.


NEMESIO

Ma, per quanto ho visto, non con la stessa devozione. Generalmente le nostre donne, sulle quali non deve cadere mai l'ombra d'un sospetto, non escono sole.

(In questo momento entra altra ragazza, Patricia, amica di Balbina, già conosciuta da Nemesio, dal quale è salutata.)




SCENA SECONDA



BALBINA

(con un senso di compatimento)

Ascolta, ascolta, Patricia. Nel Pretuzio, terra del nostro Nemesio, le donne non escono sole.

PATRICIA

Ma il Pretuzio è in Italia?

NEMESIO

Nel cuore d'Italia, con il suo maestoso Gran Sasso.

PATRICIA

E allora?

NEMESIO

Tali sono gli usi, ai quali la donna di laggiù, se vuole conservare integra la sua reputazione, deve ubbidire.

PATRICIA

Usi barbari. Noi non sopporteremmo queste limitazioni, o una qualsiasi graziosa... guardia ai nostri movimenti.

NEMESIO

Me ne sono reso ben conto. Ognuno vive come può, nelle proprie tradizioni, nella propria educazione.
Noi nomini, d'altra parte, non soffriremmo, nelle nostre donne, tanta libertà.

PATRICIA

E perché? Credete voi che la virtù si tuteli con le porte di ferro? Vana illusione. La donna trova sempre il modo di frangere la torre che la racchiude per ubbidire ai propri istinti buoni o cattivi che siano.

BALBINA

Ma lasciamo andare questi discorsi che nulla mutano nell'ordine delle vicende umane. Diteci piuttosto come sono, nel complesso, queste vostre Vestali.

NEMESIO

Sono generalmente brune, nella purezza della loro origine, dalle forme armoniose e sono guerriere.

BALBINA

Guerriere? Ma se la loro vita, per quanto ho capito, è monacale.

NEMESIO

Ma quando si tratta di difendere dalle offese il proprio onore, la propria casa, come la leonessa il proprio covo, allora è ben altra cosa. Allora abbiamo le gesta gloriose di Cellino, di Poggio Umbricchio, di Civitella, che elevarono le nostre donne alla luce della leggenda.
A Poggio Umbricchio vi era mia madre e con essa anch'io bambino.

PATRICIA

Allora anche voi siete eroe.

NEMESIO

Ero troppo piccolo per intervenire nella lotta. Non piansi, però, non tremai sotto la pioggia dei proiettili che gli spagnuoli, nel loro mal governo, facevano cadere su di noi.

BALBINA

Se non eroe, quasi eroe. Bravo, bravo.

PATRICIA

Ma amano queste vostre vestali leonesse?

NEMESIO

Se amano? Tutto quanto è sotto l'influsso della luna, pallida amica delle anime che palpitano, arde d'amore: gli uocelli, gli insetti, i fiori, gli uomini. Ritengo però che la bruna del Martese sia, negli affetti e nelle promesse, più salda, più fervida della bionda, nata nella morbidezza della laguna di san Marco. E in fatto d'amore non scherza.

BALBINA

Come non scherza...

NEMESIO

A sua conclusione o l'altare o... (pausa)

PATRICIA

O...

NEMESIO

O la tomba. Non vi è via di scampo. Una sola volta le pretuziane amano.

BALBINA

Uh... E gli uomini?

NEMESIO

Come le donne.

PATRICIA

Amori pericolosi, dunque. Noi, invece, nella gioia della giovinezza, giungiamo alla mèta, dopo d'aver volato, come farfalle, di fiore in fiore e d'aver partecipato con il cuore in fiamma, alle feste, ai canti della laguna.

NEMESIO

Contenti voi, contenti tutti. Per noi 1a giovinezza, in un composto vivere, deve serbare, checché voi possiate dire, il suo candore, come i fiori conservano il loro profumo.
Ma parliamo di cose più allegre. Ieri sera assistetti alla festa della Serenata, sul Canal Grande. Vi era, con i lampioncini dai mille colori e con canti, davvero del fantastico.

BALBINA

Da voi non vi sono serenate?


NEMESIO

Ve ne sono, ma le nostre serenate sono costituite dai canti, dalle armonie che salgono, nella notte di stelle, dal mistero dei campi.

PATRICIA

Tutto diverso, adunque.

NEMESIO

Quasi.

BALBINA

Anche nel parlare?

NEMESIO

Anche, ma a vostro vantaggio. Il nostro parlare è duro come le rocce delle nostre montagne; il vostro è morbido come la spuma della vostra laguna. Meglio esprime, con la sua mussicalità, la tenerezza del cuore. Canto di sirene.

PATRICIA

Pericoloso per voi.

NEMESIO

Questo no. Sono ben munito di talismani.

BALBINA

Toglieteci un'altra curiosità. Spesso dai vecchi pretuziani abbiamo inteso parlare di banditi. Chi sono?

NEMESIO

Chi erano, volete dire. È ormai tramontato, come tramontano tutte le cose, il loro regno.

PATRICIA

E chi erano?

NEMESIO

Uomini d'armi erano, che non sopportavano la schiavitù, che odiavano lo straniero, che amavano la patria e a suo nome morivano, come ebbe a morire, sui monti della Dalmazia santa, mio padre.

PATRICIA

Sicchè voi siete figlio di bandito.

NEMESIO

Di capo bandito, di Giulio Montecchi, dell'eroe del monte san Salvatore. Ed ora mi pare che basti con questi discorsi.

PATRICIA

No, no. Parlateci ancora di questa vostra terra misteriosa.

NEMESIO

Non vorrei che la immaginaste come la terra visitata, qualche secolo fa, dal vostro Marco Polo. Ha proprie caratteristiche, questo sì. Le cime delle montagne penetrano nelle nubi, mentre nelle pendici scendono, mormorando, ruscelli dalle limpide acque. D'estate le valli si riempiono di belati di gregge numerosa pascolante con placida lentezza. I poggi, sui quali posano bianchi paeselli, appaiono come castelli, avvolti di silenzio e di leggende. E cantano nelle valli. i fiumi, nelle stoppie le cicale, nell'aria l'allodola, nella siepe l'usignuolo, nella campagna la fresca villanella.

PATRICIA

Paese di delizie.

BALBINA
Che mi sveglia vaghi desideri.

PATRICIA

Non c'è qualche bandito per noi?

NEMESIO

Piano, piano. Vi ho parlato di ciò che splende nella bella stagione. Non vi ho parlato delle nevi, che d'inverno ammantano i monti, i colli, il piano. Non vi ho parlato degli ululati dei lupi affamati, che gettano io spavento dove passano. Non vi ho parlato delle folgori che sconquassano, nella furia degli uragani, i boschi, le campagne, le case, e del freddo che arresta la vegetazione, gela i fiumi, intorpidisce i sensi.

BALBINA

E se vi fossero altre ragioni a rendere piacevoli i monti, i boschi, gli uragani? Talvolta odo in me strane voci, richiami come se mi giungessero da lontano, come se uscissero non so da quali arcane contrade e mi viene in uggia la laguna e penso, con nostalgia, al paese di mio padre. E penso...

NEMESIO

(interrompendola)

... che a chi è nata e cresciuta in questa laguna, colma di magia, non sarebbe possibile viverne lontano, e vivere come vivono, nella loro austera semplicità, le donne pretuziane. Non è vero Patricia?

PATRICIA

Senza dubbio. Noi non siamo nate per vivere vita monacale. D'altra parte non si riesce mai a comprendere ciò che si nasconde nel cuore della donna, nella sua volubilità e nella sua fermezza, nel suo odio e nel suo amore.

(A questo punto entra la madre di Balbina, Eufrasia, con un uomo bruno, Matteo, di circa sessant'anni.)



SCENA TERZA



EUFRASIA

(rivolta a Matteo)

Ecco il giovane Montecchi, di cui vi ho parlato, della vostra terra.

MATTEO

(che va commosso verso di lui, con le braccia aperte)

Figlio di Giulio? O come gli somiglia! Vieni, vieni, figliuolo.

(Lo abbraccia e teneramente lo bacia.)

NEMESIO

(che ricambia confuso e commosso l'abbraccio)

Conoscevate mio padre?

MATTEO

Ero della sua banda e fui con lui in tutti i combattimenti e nel Pretuzio e in Dalmazia.

NEMESIO

Grande ventura d'aver incontrato un compagno d'armi di mio padre.

MATTEO

Quanti nobili sentimenti infiammavano il suo animo. Amava con uguale amore famiglia e patria. Ogni mattino e ogni sera, sull'aurora e sul tramonto, dalla vetta più alta del monte sul quale eravamo, rivolgeva il suo sguardo e il suo cuore di là dell'Adriatico, verso la casa e la dolce terra natia.

NEMESIO

Nobile padre! Come cadde?

MATTEO

Da eroe. Si combatteva da più giorni, senza sosta, sul monte San Salvatore, affidato alla nostra difesa. Eravamo ormai, per le perdite e per la stanchezza, agli estremi. I turchi, stanchi anch'essi, a un certo momento, si lanciarono su di noi in gran numero, con la violenza dell'uragano, che infuriava su quel monte.
Si cadeva, ci si rialzava, non si arretrava, non si cedeva, si combatteva. E il combattimento diveniva mischia, lotta individuale. I maomettani, con le scimitarre in aria bagnate di sangue, diventavano, per la nostra resistenza, sempre più feroci. Parve, a un certo punto, che si stesse per cedere.

(Pausa)

NEMESIO

(con ansia)

E poi?

MATTEO

Ma non cedemmo. Su l'ora del tramonto, placato il cielo, lanciammo sulla strage, il grido della vittoria. Giulio Montecchi che, combattendo da leone, aveva trasfuso in noi il suo ardore eroico, giaceva tra i numerosi nemici, trascinati con se nel regno della morte.

NEMESIO

Gloria a quegli eroi, dal puro sangue italiano. Poi?

MATTEO

Venezia, dopo d'aver degnamente onorato i caduti, in segno d'alta gratitudine, dette a noi generosa ospitalità.

NEMESIO

E dimenticaste la terra natia.

MATTEO

No, no. Il mio spirito, come quello degli altri qui rimasti, vive sempre tra le nostre care montagne.

NEMESIO

E non pensate di tornarvi?

PATRICIA

Manco per sogno. Ormai Matteo è nostro.

MATTEO

E già: sono vostro. Lascerò, quindi, le mie ossa, ma con il pianto nel cuore, in questa laguna, che mi tiene avvinto con la forza dei suo fascino. Venezia è maga. Se non vuoi essere anche tu impigliato nella rete delle sue sirene, due delle quali sono qui presenti, affretta la partenza.

(Tutti ridono.)

EUFRASIA

Ha volontà di scherzare il nostro Matteo, il quale, nonostante tutto, non disdegna di godersi in gondola, al chiar di luna, le bellezze, il canto della laguna.

NEMESIO

Per sfuggire a questo pericolo, dopo domani ripartirò.

MATTEO

Bravo. Ed ora, dopo un così inaspettato incontro, vado. Domani verrò nel tuo alloggio con altri pretuziani che qui vivono, per affidare a te la nostra voce, il nostro cuore per la terra lontana, che certo non più rivedremo.
Allora a domani.

(Se ne va e con lui, dopo i saluti d'uso, se ne va pure Patricia.)

BALBINA

Sicchè dopo domani partite.

NEMESIO

Sì, parto.

BALBINA
E non ci rivedremo più?

NEMESIO

L'avvenire è nelle mani di Dio. E poi, perchè rivederci?

BALBINA

Voi avete svegliato in me una certa angustia.

EUFRASIA
Ma che dici, Balbina.

BALBINA

Perdonatemi. Talvolta si fantastica per impulso di giovinezza.

NEMESIO

Della spensierata giovinezza. Ma ognuno deve seguire su questa povera terra la sua strada. Ci siamo incontrati, Balbina, come due viandanti che debbono percorrere, per fatalità, cammino opposto. Possono per un momento riposare all'ombra di uno stesso albero e scambiare affettuose parole. Dopo? Dopo ognuno va verso il proprio destino.

EUFRAS!A

Così è la vita, Balbina. Essa segue, nelle alterne vicende, il suo corso.

NEMESIO

Ed ora, sia pure con qualche cosa di mesto nell'anima, vi lascio.

BALBINA

E non tornate più qui?

NEMESIO

Non ne avrò più il tempo. Ricordatevi qualche volta che mio padre dorme il suo ultimo sonno nell'italianissima Dalmazia, che è nel nostro cuore, viva come fiamma d'amore.

(S'avviano verso l'uscita. Sulla porta Nemesio stringe affettuosamente la mano a Eufrasia. Poi, come mosso da viva tenerezza, abbraccia, come una sorella, Balbina, la quale rompe in lagrime.}


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ATTO TERZO


SCENA PRIMA



Di nuovo nel giardino della villa di Giancario, dove si trovano, nell'alzare il sipario, la zia Paola e Bibiana, sua amica di giovinezza.

PAOLA

(come cosa nuova, anche se sempre ripetuta, mestamente)

Anche noi, col volar degli anni, siamo divenute vecchierelle. Ben cinquanta primavere, qui ce lo possiamo dire chè nessuno ci sente, pesano ormai sulle nostre spalle.

BIBIANA

Cinquanta già?

PAOLA

Si, cara, cinquanta.

BIBIANA

O Dio come passano gli anni. Ma io non li conto più. Non festeggio più il giorno della nascita.

PAOLA

Ma se non siamo noi, sono le care amiche a ricordarli, con tutta la loro graziosa lepidezza.

BIBIANA

Ma anche cinquanta non sono poi tanti, quando di primavere, magari senza più fiori, se ne possono vivere cento.

PAOLA

Una volta, al tempo di Noè, quando gli uomini, dopo il castigo di Dio, usciti dall'arca, vivevano vita sana e bevevano vino genuino.

BIBIANA

O cinquanta o cento non si tratta, poi, che di anticipare o ritardare il gran viaggio, per lasciare il posto agli altri.

PAOLA

Che entrano col pianto, come un monito, nei regno del travaglio.

BIBIANA

E ne escono col pianto.

PAOLA

Trascinando nella tomba i sogni, le speranze, le delusioni, le poche gioie, i molti dolori.

BIBIANA

Ma non ci pensiamo. Ci sarebbe da uscir matti a considerare la vita nelle sue strane vicende. Dimmi piuttosto che c'è di nuovo sul conto della tua bella nipote Clara.

PAOLA

Cosa vuoi che ci sia di nuovo! Certi caratteri sono di granito: si spezzano, non si piegano e Clara non si piega. È proprio un peccato, chè il giovane Montanari, con le sue ricchezze, le poteva rendere davvero lieta la vita. Invece no. Invece vuole sposare, contro la volontà del padre, un tale Nemesio, figlio di bandito, che ne ha conquistato l'ingenuo cuore.

BIBIANA

Ne ho inteso parlare, ne ho inteso parlare.

PAOLA

La donna quando s'incapriccia è un guaio davvero.
Non vi sono santi a farla rinsavire. Il pentimento giunge sempre troppo tardi.

BIBIANA

Non so che dire, cara Paola. La quistione è molto seria. Non sempre però la ricchezza procura quella felicità che è nel sogno della giovinezza. Non ti ricordi il caso della Dorotea? Era davvero, con i suoi venti anni, un canto d'amore. Per ubbidire, appunto, ai genitori, in fatto di matrimonio, fu ricca, non felice. Dopo la prima fiammata, ombre fredde scendevano ad avvolgerla di tristezza. Fuori di casa e in cento vizi l'indegno sposo consumava il suo tempo e il suo danaro. Non ebbe la nostra povera amica neppure il conforto dei figli e a quarant'anni, quando la vita è ancora bella, andava a cercare pace tra i cipressi, nel silenzio eterno.

PAOLA

Fatto pietoso, ma non riservato soltanto ai ricchi. Anche nelle case dei poveri non manca il pianto della discordia.

BIBIANA

È vero anche questo. E ora dove è questo Nemesio?

PAOLA

Si dice che sia andato in Dalmazia, per visitarvi la tomba del padre, là sepolto, quindi si recherebbe a Venezia.

BIBIANA

A Venezia? Povero giovane.

PAOLA

Perchè?

BIBIANA

Venezia, come si racconta è come il regno delle fate, dagli incantevoli giardini, dalle offerte maliose: chi vi capita non ne esce più.

PAOLA

Ma se Clara è forte, non meno forte è nei propositi il giovane Nemesio.

BIBIANA

(guardando verso destra e alzandosi)

Viene Clara.

CLARA

(quando giunge, rivolta a Bibiana)

Ve ne andate?

BIBIANA

È tardi. Debbo poi andare per trovarmi in tempo nella chiesa dei Cappuccini, per il mese di maggio. (Guardando il cielo) Anche questo tempo non mi piace. Il temporale è in aria. Ma tornerò, tornerò presto, Clara, per godere la tua graziosa compagnia.

PAOLA

(che pure si alza)

Allora andiamo ad accompagnare la cara Bibiana sino al cancello.

(Tutti escono dalla parte di sinistra. Il palcoscenico resta per un momento vuoto.)



SCENA SECONDA


CLARA

(nel rientrare con la zia, poco dopo)

Ecco l'ora più mesta, cara zia, per l'anima mesta. Dopo il giorno che conforta con la sua luce e le sue armonie, scende la notte a ricordare, con il pianto delle ombre, la fugacità delle umane cose.

PAOLA

Ma dopo la notte, come dopo un placido riposo, più bella torna la luce del giorno, come più bello torna il sereno, dopo la tempesta.

CLARA

Ma da troppo tempo, con i tanti contrasti, dura la mia notte.

PAOLA

Che tu hai voluto, mia bambina. Se avessi ascoltato i consigli di tuo padre...

CLARA

(senza far completare il pensiero)

E sulla notte non sarebbe più sorto il giorno. I diritti del cuore sono sacri. Nessuna scintilla può brillare da un corpo senza fuoco.
L'amore, il vero amore, è tutto nella vita.

PAOLA

Pietosa illusione, della giovinezza senza esperienza. Guardando in un mattino di maggio la vermiglia aurora, l'anima ne è avvolta, inalzata a un cielo luminoso e nella dolce estasi si dimenticano gli affanni terreni. Ma come l'aurora, breve è la giovinezza, amaro il risveglio.

CLARA

E allora nulla contano i canti elevati da anime divine al più divino dei sentimenti?

PAOLA

La solita capanna, resa suntuosa dalla fusione di due anime, in armonia d'affetti. Ma l'armonia, come il fuoco dopo la fiammata, s'attenua, si spegne e la capanna resta, nella realtà del vivere, con la prosa, nella sua fredda nudità.

CLARA

Che avrei dovuto fare?

PAOLA

Ubbidire al padre.

CLARA

Col far tacere la bellezza dello spirito, per dar voce all'opaca materia? No, no, zia. Meglio la capanna povera, resa calda dalla simpatia, che le dorate gelide mura della reggia senza luce.

PAOLA

Non insisto. Che Iddio ti illumini, cara nipote, per il tuo meglio.

CLARA

Io vivo nella fiducia, anzi nella certezza, zia, che Nemesio, tanto buono, mi saprà far felice. La voce del cuore difficilmente erra.

PAOLA

Possono errare i fatti ed esempi non se mancano.

(A questo punto si vede avanzare nel giardino, sul quale cadono le ombre della sera, un mendicante. Spia? Forse. Quando arriva vicino alle donne)

MENDICANTE

(togliendosi il cappello)

Qualche cosa per i vostri morti.

PAOLA

Andate, andate col nome di Dio.

MENDICANTE

Ma datemi qualche cosa, appunto in nome di Dio.

PAOLA

A quest'ora? Andate, andate, vi dico. Altri son venuti prima di voi.

(Il mendicante, con bisaccia e bastone, un po' curvo, guardando con aria sospetta a destra e a sinistra, se ne va brontolando.)

CLARA

Perdonate, zia. Nulla si nega a chi per fame tende la mano, specialmente se vecchi e in tempo calamitoso come è il nostro tempo.

PAOLA

È vero. Può darsi che quell'uomo, dallo sguardo torvo, sia un povero, ma potrebbe essere anche una spia o un compagno tenebroso della donna di Spiano, che questa mattina, con tanta insistenza, ti voleva predire l'avvenire.

CLARA

Qualche cosa mi ha detto, con tinte rosee.

PAOLA

Come sempre fanno queste diaboliche donne, maestre di filtri, di fatture, di veleni. Ne sanno più del demonio. Non hanno scrupoli nell'inoculare, con erbe, polveri e altri malefici, il germe malefico della passione irresistibile.
Non vorrei che anche tu ne fossi vittima. Nemesio, accecato anche lui da torbidi sensi, può essersi rivolto, per conseguire il suo intento, a qualcuna di queste fattucchiere.

CLARA

Ma che dite, zia. I sentimenti che Nemesio ha svegliato nella profondità del mio cuore sono forti sì, ma sinceri, puri, cristiani.

PAOLA

Sei, poi, proprio sicura che Nemesio torni? Difficilmente chi giunge a Venezia, come poco prima ha detto Bibiana, si salva dalle sue sirene.

CLARA

Ma Nemesio, che non somiglia agli altri, si salverà, non solo, ma a quest'ora è già sulla via del ritorno. Le rose che dovranno inghirlandare il nostro giorno felice stanno per schiudersi al canto d'amore. Pieno di fiori dovrà essere il nostro cammino, in ogni ora, in ogni stagione.

PAOLA

Godi, godi, nipote, di questi attimi che la vita offre, con i rosei sogni, alla fiduciosa giovinezza. La realtà, purtroppo, è sempre lontana dalle visioni, dalle promesse del mattino.

(In questo momento un lampo illumina le nubi nere che corrono per il cielo, seguito da un tuono.)

Ecco l'immagine della vita: agli sguarci sereni seguono immancabili le tempeste.

CLARA

O Dio, zia: mi turba davvero questo vostro parlare.
Con una inspiegabile angustia, neri presentimenti invadono l'animo mio. Non cantano più gli usignuoli nella siepe, nè i grilli nel prato, nè i ranocchi nel pantano.
Ora funesta. Ritiriamoci, zia, ritiriamoci, che sta per scatenarsi l'uragano.

PAOLA

(mentre i tuoni, tra il lampeggiare, si fanno più rumorosi)

Restiamo, restiamo ancora. Talvolta è bello rimanere saldi tra lo scatenarsi della tempesta.

CLARA

(mentre s'ode il rintocco d'una campana)

Suona già un'ora di notte. Siamo sole e io ho paura. Perchè il padre non torna?

PAOLA

Lo trattengono nel giuoco i soliti sfaccendati amici.

CLARA

Amici di perdizione.

PAOLA

Il giuoco, nel quale molti si rovinano, è il vizio maledetto di molti nostri signorotti. Non sanno, nel loro ozio, come meglio passare il tempo. E a dire che ci sarebbero tante cose utili da fare, per aiutare il popolo, alleviare la miseria.

CLARA

(mentre una folgore scoppia rumorosa poco lontano)

Andiamo, andiamo, zia.

(Stanno per muoversi, quando due uomini mascherati compariscono in fondo al giardino e avanzano muti come fantasmi. Le donne, allorchè avvertono la presenza, vorrebbero fuggire, ma non ne hanno a tempo.)

CLARA

(afferrata da essi, dibattendosi, grida)

Aiuto, aiuto...

PAOLA

(che corre in soccorso della nipote, anch'essa grida)

Aiuto. Assassini, briganti. Tonio. Berardo. Aiuto, aiuto.

(Ma i due, liberatisi, con una spinta, di Paola, si allontanano verso la collina di Torricella. Paola, che non vuole lasciare sola la nipote, che sempre grida, li segue.
Intanto un contadino, della vicina casa colonica, che ha inteso urlare, accorre con una forca in mano.)

TONIO

(il nome del contadino, che si mette subito alla ricerca, chiama)

Donna Paola, donna Clara...

GIANCARLO

(che di ritorno da Teramo, sbigottito dalle grida, entra affannato nel giardino)

Tonio, che è stato, che è successo. Parla, parla Tonio.

TONIO

Ho inteso gridare. Sono accorso. Non ho trovato nessuno. La casa è vuota.

GIANCARLO

(sempre più agitato, tra il rumore del tuono)

Ma cosa è stato... Cosa è stato... Dov'è Clara, dov'è
Paola. Parla. Parla.

TONIO

Non so, non so. Giunto qui ho inteso altre grida verso
la collina (indicando colla mano dalla parte di Torricella.)

GIANCARLO

Torricella? (Resta un po' pensoso. Dopo)

Ho capito, ho capito, Tonio. Sciagurato, vile, infame. Lo raggiungeremo, lo raggiungeremo.

(Corre verso casa. Torna subito con un archibugio e con un pugnale.)

Andiamo, Tonio. Andiamo. La notte che il fellone credeva d'amore, sarà per lui notte di sangue.

(Partono. Il temporale ha diminuito di violenza. Si ode l'abbaiar di cani. Appaiono altri contadini, agitati, armati di forche. Mentre chiamano e frugano qua e là)


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ATTO QUARTO


SCENA PRIMA



In un salotto della stessa villa di Giancarlo. Seggono presso un tavolo e parlano Clara e la zia Paola. Pomeriggio d'un giorno d'autunno. S'ode nella campagna il canto in coro delle vendemmiatrici.

CLARA

(afflitta)

Abiteranno in modeste case, vestiranno ruvidi panni, mangeranno comuni cibi, ma quelle contadinelle che, nella gioia dello spazio, si espandono come fiori, godono appieno la serenità della vita.

PAOLA

E' vero. Ma anch'esse hanno le loro ore meste, alle quali, come legge inesorabile, nessuno sfugge, neppure gli animali. Ove è una casa, ove è un fuoco, ove palpita un cuore, ivi è tormento.

CLARA

Tormento che si alterna con la pace, come la burrasca s'alterna con la bonaccia, la tempesta con il sereno. Non è stato così per la povera mia vita. Il primo vagito coincise, dolorosamente, all'ultimo respiro della dolce madre. Non rose adornarono la mia cuna, ma crisantemi la bara affiancata, per un senso d'alta pietà, alla mia cuna ornata di nero. A me quindi non fu concesso di sentire la voce più dolce, l'ansia più affettuosa, la carezza più morbida della donna più santa. E quando parve che un raggio di sole giungesse a riscaldare questa casa fredda d'affetti, la valanga scese a gettarvi nuovo scompiglio, la sventura nuova afflizione.

PAOLA

Ma se forte è la fede, salda la volontà anche sulle distruzioni possono tornare a rigermogliare i fiori della speranza.

CLARA

Che speranza, che speranza! Non vivrò d'ora innanzi che come pallido fior di serra, in via di disfacimento.

PAOLA

A venti anni? Sulla primavera, qualunque la tempesta, la luce torna sempre calda di vita e di festa.

CLARA

Ma spesso questa luce non torna che a illuminare le macerie che non più si ricompongono.

PAOLA

Ma ragioniamo, ragioniamo, Clara. Tuo padre...

CLARA

(interrompendola)

Povero padre! Anche a lui non è stata benigna la fortuna. Macchiarsi persino le mani di sangue... Anch'io, nella notte funesta, mi macchiai, per l'onore, le mani di sangue... Non si può, in taluni ricordi, tinti di rosso, non essere scossi da brividi mortali.

PAOLA

Non si fanno talvolta brutti sogni? Il tuo, nelle tante vicende umane, non è stato che un brutto sogno, che si deve dimenticare, tanto più che tuo padre sta per tornare; Nemesio, rientrato da Venezia, a quanto si sa, si va rasserenando sui crudele sospetto.

CLARA

No, no, zia. Ormai tra me e Nemesio si è scavata una voragine che nessuno mai potrà ricolmare. Il giglio, sfiorato da maligno alito, anche se non contaminato, non serba più in purezza il suo candore. Inoltre i dubbi che Nemesio non seppe nascondere sulla notte nera, renderebbero sempre freddi i nostri affetti. E poi, l'ombra che, nella tragedia, sanguina cupa nel bosco, non lascerebbe in pace la nostra esistenza.
No, no. Questa casa, ove si raccolgono tante memorie, in cui dovevano risuonare altre voci, d'ora innanzi, nel chiuso silenzio, costituirà la mia clausura.

PAOLA

Resteresti qui?

CLARA

Sì. Non andrei a portare il mio pianto, come è consuetudine, dove, per la santità del luogo, si deve soltanto meditare, pregare, espiare.

PAOLA

E che dirai a Nemesio quando, tra poco, sarà qui?

CLARA

Che tutto tra noi è finito.

PAOLA

Credi tu che si possa agevolmente far tacere il cuore in fiamma?

CLARA

Non lo credo. Ma bisogna sapersi arrestare, quando in fondo alla via di luce s'intuisce la tempesta. Sono quasi pentita d'aver concesso quest'ultimo incontro. Ricevilo tu, zia, ricevilo tu.

PAOLA

Bussano.

CLARA

È certamente lui.

PAOLA

Vado a vedere. (Va alla finestra, guarda, rientra) No, non è Nemesio. È Rita, con l'uva. Vado ad aprire.





SCENA SECONDA



CLARA

(quando Rita, una bella contadinotta, le è dinanzi con la cesta dell'uva)

Brava, Rita. L'offerta dell'uva è gentile e significativa come l'offerta dei fiori. La vendemmia è dolce come una poesia, musicale come un canto: l'ultimo canto, del poema santo, della fecondità dei campi. E voi lo sentite, e voi cantate, con Non so che di melanconico nella vostra voce, su questo mistico dramma. Cantate in coro sui vostri sogni, sulle vostre speranze, sul vostro amore, che non tradisce.

RITA

È quanto vi è di meglio nella nostra vita. E questa sera, mentre i passeri, fedeli nostri compagni, cinguetteranno sulla vecchia quercia, noi, ai suono dell'organino, balleremo il nostro saltarello. E questa sera è chiaro di luna. E faremo il ballo del sospiro, della seggiola, del bacio.
Venite anche voi?

CLARA

Verrei se potessi rimanere con voi, vivere della vostra spensierata vita. Ti ricordi, Rita, quando bambine rincorrevamo festose, per i prati, le farfalle dai cento colori? E facevamo le casette, e raccoglievamo i fiori per le nostre bambole? Beati tempi! Nessuna differenza di nascita, di casta, di ricchezza allora ci separava e nessuna angustia tormentava il nostro spirito infantile.

RITA

Ma siete stata sempre buona con me, sempre affettuosa. Se vi potessimo avere con noi questa sera. Ma se non venite voi, verremo noi questa sera, sotto la vostra finestra, a farvi la serenata.

(S'ode ancora nella campagna il canto delle vendemmiatrici.)

Udite?

CLARA

Odo, odo.

Rimangono in ascolto. Dopo non molto si sente di nuovo bussare.)

PAOLA

(che nel frattempo, mentre ascoltava, sfogliava un libro, va alla finestra)

È lui. Vado ad aprire. Vieni Rita?

CLARA

Va, va, con la tua gioia.

(Rita saluta ed esce con Paola. Clara, seguendola con lo sguardo)

Quanto t'invidio, cara fanciulla. (Si ritira.)






SCENA TERZA


NEMESIO

(che entra con Paola e come continuando in un discorso)

Ma non c'è?

PAOLA

No... ossia o e ma come se non ci fosse. Perchè rivederla? Chi passa la soglia di questa casa, dopo quanto è accaduto, è come se passasse, per voti, la soglia d'un convento: voti irrevocabili.

NEMESIO

Anche i miei voti, dopo le prime sconsolate considerazioni, parevano irrevocabili. Salii i colli, le valli, i monti; penetrai nei boschi, urlai come lupo, per placare lo spirito sconvolto, ma inutilmente. Una forza irresistibile m'attraeva verso Teramo, mi spingeva a rivedere, se non altro, anche da lontano, questo caro tetto e poi scomparire per sempre. Di poggio in poggio, di tappa in tappa, senza che me ne avvedessi, giunsi una prima volta a bussare a questa casa ed ora vi sono tornato, come un penitente.

PAOLA

Venezia vi è stata fatale.

NEMESIO

Ma non potevo eludere la missione a me affidata, con serena fiducia, da mia madre, nella sua ultima ora.

PAOLA

Certo. Sacro sempre è il comandamento d'una madre. E ora che intendete di fare?

NEMESIO

Rivedere Clara e poi... e poi...

PAOLA

(interrompendolo)

Ma perchè continuare a esacerbare, senza speranza, l'ampia ferita?

NEMESIO

È vero. Ma la pietà ha pure un nome, lo strazio una pietà e l'ultima parola non è stata ancora detta.

(Entra in questo momento Clara, mossa da pietà.)

NEMESIO

(che era seduto s'alza, confuso. Paola se ne va.)

Clara... perdonami. Ho lottato, ma ho perduto e sono qui. A ogni modo non è male che si dica ancora una parola, prima che il nostro amore scenda a seppellirsi nell'urna dell'oblio.
Oblio! Talvolta si dovrebbero davvero alzare i pugni in aria e maledire.

CLARA

Maledire chi? I mali che turbano l'uomo derivano dalla cattiveria, dai difetti, dalle insane sue passioni, non dal cielo, soggiorno di luce, di promesse, di pace.

NEMESIO

Ma che male io ho fatto? E a dire che ero uscito vittorioso dalla pericolosa prova di Venezia ed ero tornato, nella gioia, con l'animo pieno di te. Quanti nuovi sogni! Invece?... No... no. Non si può Clara non elevare alta la voce della ribellione.

CLARA

Non ne vedo la ragione. La tua giovinezza senza macchie ti conforta a camminare verso altra più lieta mèta. Non è così per me, per la mia vita avvolta di ombre.

NEMESIO

(con nuova commossa passione)

Ma queste ombre, se si volesse, potrebbero essere fugate. In questi giorni d'angoscia ho tanto, tanto fantasticato sui drammi d'ogni tempo, nel teatro degli affetti. Vi erano state sull'altare dell'amore sante vittime; ma vi era pure stato, in una superiore forza, il trionfo dei diritti del cuore.
Anche noi, in una maggiore serenità, potevamo dimenticare, come si dimenticano i sogni tristi, l'episodio maledetto e riprendere il dolce cammino.

CLARA

(come toccata nella parte più sensibile dell'animo commosso)

Riprendere il cammino! Caro è l'invito, teneri i pensieri che gettano, sul paesaggio sconvolto, fasci di confortevole luce, ma...

NEMESIO

Ma che cosa...

CLARA

Che le cicatrici delle ferite del cuore, come le cicatrici della carne, rimangono sempre a rammentare il fatto che le produsse. Non ricordi il caso della povera Maria?

NEMESIO

(molto afflitto)

Il confronto non mi lusinga, Clara.

CLARA

Mi è suggerito da una certa esperienza, anche se giovani sono i miei anni.
L'amore suona, generalmente, nella prima giovinezza, con la dolcezza dell'arpa; sfolgora magari più tardi con la magnificenza d'una primavera in festa. Dopo? La primavera sfiora, qualche burrasca guasta qua e là il bel paesaggio e arrivano le delusioni, i rimpianti, le sofferenze. E allora? Allora torna in atto, con la sua asprezza, il caso della povera Maria.

PAOLA

(che ha evidentemente inteso ciò che è stato detto, rientrando)

A me sembra che si esageri su questo episodio che, per quanto maledetto, non ha nulla contaminato.

NEMESIO

Brava donna Paola: umana, saggia è la vostra parola. Non è vero Clara?

CLARA

Pietosa, non saggia, ché, quando tutto si superasse, non mancherebbero i maligni a gettare ombre sulla santità della nostra unione.

NEMESIO

(come confortato da una nuova speranza)

Ma per sfuggire a queste ombre potremmo andare a costituire il nostro nido, come le rondini, lontano, tra altra gente, sotto altro cielo.

CLARA

(che non aveva forse mai pensato a una tale possibilità, come in un risveglio)

Lontano?

NEMESIO

Lontano, si...

PAOLA

Coraggio, Clara.

CLARA

(come smemorata)

Lontano!...

PAOLA

Su, Clara. La vita ti chiama. La promessa è bella.

CLARA

(resta un poco pensosa. Dopo, come in una reazione)

No... No... Non è possibile, non è possibile.

(S'ode un canto in coro d'un pellegrinaggio, diretto al Santuario della Madonna delle Grazie. Rimangono in ascolto. Quando il canto si perde in lontananza)

PAOLA

(come ispirata)

Non avete mai pensato a quella nostra Madonna che tante grazie elargisce a chi, con fede, ad essa si rivolge?

NEMESIO

Ecco un raggio di luce sulla nostra oscurità. Vado, vado anch'io con quei pellegrini a invocare la grazia che deve dare a noi la pace.

PAOLA

Va, va Nemesio e va con fede.

NEMESIO

Con fede ferma e con speranza. (Saluta e va.)

PAOLA

E Nemesio tornerà con quella grazia che dovrà fugare gli scrupoli, vincere i vani fantasmi.

CLARA

Vana illusione. Io venero la Madonna, ma sento che nessuno mai potrà allontanare lo spettro che s'aggira in questa casa torvo nella sua ira, nella sua minaccia, nel suo sangue: spettro che potrà essere placato soltanto con la mia rinuncia, con il mio sacrificio.

(Si sente ancora bussare al portone.)

PAOLA

(che va alla finestra, con ansia)

È tuo padre, Clara.

CLARA

O padre...

(Corre commossa con la zia verso di lui. Nel rientrare uniti nel salotto)

Padre, padre mio!

GIANCARLO

Figlia, figlia mia cara!

CLARA

Padre, padre!

GIANCARLO

(vinto dalla commozione, quasi in lagrime)

Quanto, quanto ho sofferto, figlia mia, nel silenzio della montagna, tra le tenaglie del rimorso. Ora soltanto capisco che a nulla vale l'oro se, nell'incontro di due anime, manca la bontà, la tenerezza, il canto spontaneo e divino del cuore. Altre sarebbero oggi le nostre condizioni se non fossi stato tanto ostinato nella mia cecità.

CLARA

È inutile affliggersi ancora, padre, su ciò che non potrà essere mai modificato.

GIANCARLO

Invece ti dico, figliuola che non tutto è perduto.

PAOLA

Ho fatto a Clara, presso a poco, lo stesso discorso, ma inutilmente.

GIANCARLO

Sui campi della tempesta, devastati nella terribile notte, tornò, con il sole, a rigermogliare ricca la vegetazione. Anche in questa casa deve tornare, con la fede, la ragione della vita.

PAOLA

E Nemesio è in ansiosa attesa d'una risposta.

GIANCARLO

Nemesio?

PAOLA

Si ed è al Santuario a pregare.

GIANCARLO

Caro ragazzo, figlio di eroe, degno della nostra casa. Le valli, i boschi, i monti, dove io sono stato, cantano le gesta gloriose del prode genitore; cantano della madre, santa in amore, le gesta eroiche di Poggio Umbricchio. E poi, figlia, non dobbiamo aggiungere le angustie della famiglia alle angustie di questa nostra povera terra, avvilita dai rinnegati, straziata dallo straniero. Le famiglie sane hanno il sacrosanto dovere di accrescerne, con la prole, la forza, per le giuste rivendicazioni.
Tu intendi cosa io voglia dire.

CLARA

Comprendo, comprendo, padre. Ma io odo una voce, vedo nell'ombra uno spettro che sta minaccioso tra il passato e il futuro, tra un vivo e un morto. Ormai, padre, il sipario è fatalmente disceso sul dramma, conclusosi nel pianto. Sacrilego sarebbe, padre, passare comunque sul sangue, per raggiungere la mèta senza pace.

GIANCARLO

No, no, figlia. Il sangue del perfido non macchia. Di troppo la tua sensibilità offusca la tua mente, sconvolge il tuo spirito. Il lupo che artiglia l'innocente agnello, lo sparviero la candida colomba, debbono essere uccisi e ucciso fu chi, con la torva violenza, voleva togliere a te il candore, a me l'onore, a questa casa la santità.

PAOLA

Ascolta, ascolta, Clara, la parola di tuo padre, da tanto tempo attesa.

CLARA

Troppo tardi, zia. Perdonatemi.

PAOLA

Non è mai tardi nell'attuare la bontà.

(S'ode ancora bussare al portone. Paola che va a vedere, annunzia)

È Nemesio.

GIANCARLO

Nobile giovane!

PAOLA

(avvicinandosi con particolare affetto a Clara)

Non senti Clara la voce che ti invita a ubbidire a tuo padre? Su di' la parola che deve ridare vita a questa casa.

(S'ode di nuovo bussare.)

Dunque?

(Sale intanto dal di sotto la serenata delle vendemmiatrici.)

GIANCARLO

Dunque?

(Clara raccolta in sè, china il capo sul tavolo, presso il quale va a sedere, se non vi è già seduta. Il padre e la zia le si avvicinano, premurosamente.)

PAOLA

(che si china ansiosa su lei)

Dunque?

(Mentre Clara rompe in pianto e la serenata continua)


CALA LA TELA


FINE DEL DRAMMA

 

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