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Francesco De Pinedo
Pioveva dirottamente, e poiché non avevamo dove ripararci, restammo in piedi sotto le ali, appoggiati ai montanti.
Accendemmo una sigaretta ed aspettammo filosoficamente che la pioggia cessasse.
Da principio ci demmo a cantare qualche canzonetta, vecchio ricordo di quando eravamo tra i civili, nel mondo abitato. Ma poi per effetto della pioggia, o della solitudine, o della fame che cominciava a farsi sentire, ci passò anche la voglia di cantare.
Ci accorgemmo allora che avevamo dimenticato di portare con noi, come facevamo di solito, i pochi ma necessari viveri: uova
sode e biscotti.
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Cercammo invano nell'interno dell'apparecchio; non vi trovammo altro che un vecchio ananasso sul quale subito affondammo1 i nostri denti. Ma ce ne incolse male, perchè poco dopo fummo assaliti da insistenti dolori di ventre, che, uniti alla monotonia della pioggia incessante, ci dettero la sensazione di essere ancora più miserabili e tapini.
Alle 12.30 la pioggia diminuì. Ne avevo abbastanza dell'Isola di Campbell, e decisi di andarmene. Un'anatra ci svolazzò vicino e dovetti frenare i fprori cinegetici di Campanelli, che voleva ancora aspettare che passasse a tiro per abbatterla con la pistola d'ordinanza.
— Se anche la butti giù — gli dissi — come fai a prenderla? In accjua non ti consiglio di gettarti, perchè ci possono essere dei coccodrilli che non hanno ancora fatto colazione, e tu saresti un buon boccone...
Questo argomento lo convinse. Riandammo allora col pensiero ad Otranto, al tempo della guerra, quando talvolta al tramonto, nelle giornate tranquille, si partiva insieme in volo a caccia di folaghe.
Egli era uno splendido tiratore: volando a pochi metri dall'acqua, io levavo stormi di folaghe ed egli dalla prua sparava fucilate, con un entusiasmo da Sant'Uberto; ritornavamo sempre a casa carichi di selvaggina.
Salpammo l'ancora con lunga e faticosa manovra, e, appena