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capo iii.
Qualche sciagura orribile minaccia
Alcun figlio di Priamo; oh ciel ! foss'egli
Lo sposo mio 7 saria rimasto ei forse
Fuor delle mura? . . . Achille avria? . . . gran Giove
Storna il presagio reo. Corre scomposta
Il velo, il crin, giunge alla torre, il guardo
Gira da lungi: e chi fi a quello? ignudo
Piagato, strascinato . . . ahi vista! . . . ah aposo!
Grida, ne più ; tutto il vitale affoga
La mole del dolor ; gelida, pallida
Senza voce, respiro, moto, sangue
Quasi colta da folgore cascò ».
Chi non sente in questi versi Ossian ; Metastasio e l'Arcadia? Dico l'Arcadia, perchè il Cesarotti, fornito com'era di vivido ingegno e novatore arditissimo nell'ordito poetico, era Arcade nello stile, come mostrano i suoi sonetti amorosi pieni di Nici, di Silvie, di Darnoni e di Tirsi. Professore di greco pare incredibile ch'egli non sentisse quanto la sua prosa omerica avanzasse di forza, di evidenza e di grazia i suoi versi.
Più studioso della buona lingua, che non fu nell'Ossian e nell'Omero, mostrossi il Cesarotti nel Corso ragionato di letteratura greca. E una bella raccolta di scelte orazioni di Lisia, d'Isocrate, Antifonte, Andocide, Licurgo, Eschine, Iperide, Demade e Dione. Dirò che di tutti gli scritti del Cesarotti questo può leggersi con maggior utile e diletto; è il fiore dell'eloquenza greca tradotto con disinvoltura, se non con attica grazia. Ciò non si può dire della traduzione di Demostene, nella quale volendo far pompa di toscanesimi, sparse molte forme di dire che non si legano col rimanente del periodo e palesano lo stento e la pedanteria del traduttore. Nell'arringa di Demostene contro Esehine intorno alla legazione è riportata una elegia di Solone, che il Cesarotti pretese di tradurre in istile dantesco con intarsiarvi il soperchio della bontà, l'avarizia senza fine cupa, che dopo il pasto più che prima ha fame, la città che ha colmo il sacco, il ciacco in brago, e via via di questo andare appena comportabile in un principiante. Più felice è nella versione di alcune satire di Giovenale, quantunque assai lungi dalla robusta brevità del suo testo. Ecco come traduce i famosi versi sulla morte di Annibale nella Satira X.
Finem animae, quae res humanas miscuit olim, Non gladii, non saxa dabunt, non tela; sed ille Cannarum vindex, ac tanti sanguinis ultor Annulus.
Alfin quell'alma Ch'empiè la terra di scompigli e stragi Venne a perir, non già di ferro in campo, Morte guerriera ; ma un anel custode Di funesto licor fece di tanti In Canne accumulati equestri anelli E dei là sparsi sanguinosi rivi Tarda vendetta.
Al Cesarotti non mancavano ne fantasia, ne potenza di verso; gli mancava quella finezza di gusto che tra le mille forme, onde può vestirsi il pensiero, sceglie la più acconcia; nella quale arte rimane insuperato il suo contemporano Pa-