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Storia della Letteratura Italiana
Il Seicento
Bernardo Morsolin
Francesco Vallecchi Milano, 1880, pagine 170

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a cura di Federico Adamoli

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   1ÒI> CAPITOLO QUINTO.
   quelle d'Orazio, ricordando sotto qualche rispetto i u Sermoni » del Chiabrera ch'erano passati quasi inavvertiti. A infiammare la bile, ch'egli sentiva dentro'di si violenta ed amara, non ci volle che 1 i conversazione co' grandi. Confessa e,di stesso d'aver data alle fiamme una satira, in cui metteva troppo al nudo le abitudini e i costumi di parecchi, co' quali s'era trattenuto villeggiando nel castello d'A-ricia. Il pentimento non fu per altro avvalorato da costante proposito. Tratto irresistibilmente a pungere i vizi, ruppe dopo non molto quel qualsifosse ritegno, che, dati 1 primi ^ passi, gli avea fatto sospendere di progredire più avanti. ' I satirici, de'quali s'è fatta parola, s'erano intrattenuti dal far seno a'ioro frizzi gl'individui in luogo de' vizi. A taluno fu anzi imputato a difetti l'essersi aggirato di soverchio per le generali. L'unico, che si staccò dagli altri per avventarsi contro ^'individuo fu, come s'è pur detto, il Mcnzini. Di dodici satire si puf» dire però, ch'egli ne dettasse di veramente personali una soltanto. Le diciasse tte del Sergardi feriscono sempre l'individuo. Il Filodemo, dilaniato in ciascuna d'esse ò nient'altro che Gianvincenzo Gravina. La storia non dice quali relazioni sieno corse tra' due valentuomini. Che non vi avesse buon sangue, è chiaro, da che il Sergardi assale l'emulo suo da tutte le parti. Difetti naturali e acquisiti tutto v'è intaccato ad un modo. La ignobilità della famiglia, la volgarità del paese natio, 1 accidentalità della nascita in maggio, la povertà del vestire, la ingrata uniformità della voce, la gibbosità della schiena vi sono irrisi del pari che la vanità del lisciarsi, l'affettazione con le dame, la leccornia de'cibi squisiti, il brutto vezzo di frequentar le taverne. 11 Gravina non è, secondo il Sergardi, che uno scrittore vano, ove lo stile oratorio e poetico tien luogo della serietà del pensiero. I suoi libri e segnatamente il discorso sull'Endimione del Guidi non hanno merito alcuno all'infuori di una elegante legatura: sono nel resto un cumulo di ciarle mal digeste e inordinate. Nulla v'ha di buono nelle sue dottrine, che puzzano d'ateismo, come i « Libri della natura delle cose » di Lucrezio, l'autore prediletto del Gravina- nulla nelle poesie recitate con tanto sussiego nell'Arcadia. Nella società non è che un disseminatore u di scandali c di scisma»; in religione un miscredente- nella vita privata un insieme di tutte le più brutte turpitudini, delle quali possa' insozzarsi uomo del mondo. Le stesse buone qualità, tra le quali lo studio di proteggere i giovani di bell'ingegno e di belle speranze, non sono che vane apparenze. E^quasi tutto questo fosse poco, il Sergardi, rotto ogni riserbo, vuota sul capo al Gravina un sacco di villanie, lo manda a fare il saltimbanco, il cantastorie, il becchino- di dà _ allegramente dell'empio e del « quasi prescito ». E col Gravina malmena il Guidi e i più dc'poeti e scrittori d'Arcadia.
   Le satire del Sergardi furono scritte originariamente in latino. L'autore corse, finche visse, sotto il pseudonimo di Quinto Settano. Avvenne da ciò, che vi si quistionasse per alcun tempo intorno alla vera paternità. Ci fu chi le attribuì a Gc-naro Cappellari, un buon latinista di Napoli, e chi a non so quale Grammatico di Roma. Il nodo gordiano fu sciolto dal Fabroni, che le rivendicò con evidenti ragioni al Sergardi. Oltre la maldicenza, ch'è pure un gran solletico, le resero ricercate fin da principio l'eleganza del dettato, la vivacità delle imagini e la copia de'sah. A pochi altri è a credere fossero così famigliari i satirici latini, quanto al Sergardi. Ad alcuni tratti, che ricordano l'arguta festività di Orazio, fanno frequente contrasto invettive e tirate ora cupe e ora sonore, ma sempre violenti, come quelle di Giovenale e di Persio. Talune delle introduzioni si direbbero, nè più nè meno, del Venosino. L'incontro, a modo d'esempio, del poeta con Filodemo nelle vicinanze della residenza dell'Arcadia, descritto maravigliosamente nel principio della satira prima, ha qualche cosa che s'assomiglia e gareggia con l'introduzione della satira, in cui Orazio ritrae l'importunità* del sedicente poeta lungo la Via Sacra. Certi tratti, ove si svelano, immaginari o reali che fossero, i vìzi e le turpitudini del Gravina, non si vergognano degli squarci più terribilmente stupendi di Giovenale e di Persio. Nè avviene per questo, che nell'insieme, o