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Storia della Letteratura Italiana
Il Seicento
Bernardo Morsolin
Francesco Vallecchi Milano, 1880, pagine 170

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a cura di Federico Adamoli

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   LA SATIRA. (39
   Dite le usure e tirannie veraci,
   Che fa sopra di noi la turba immensa De'vivi Faraoni e degli Arsaci.
   Dite, che sol da'principi si pensa
   A bandir pesche e cacce, onde gli avari Su la fame comune alzan la mensa.
   Che con muri, eou fossi e con ripari ^lcZ onta delle leggi di natura Chiuse han le selve e confiscati i mari.
   E che oltre i danni di tempeste e arsura, Un pover galantuom, ehe ha quattro zolle, Le paga al suo signor mezze in usura.
   Questa magnifica esortazione, u certi luoghi sulla guerra, ne'quali c prevenuto il manzoniano
   Con lui pugna e non chiede il perchè ;
   certi altri, ove si deplora la mollezza e servilità dei costumi, dei pensieri e delle arti in
   Italia: l'apostrofe contro Roma, e simigliaci, sono tratti, scrive il Carducci, che plno-olo il Rosa fra que'poclii, che nel fraeidume del seieento sentivano 1 alito de tempi nuovi, lo pongono in luogo, ov'ei non ha da vergognarsi rispetto al Chiabrera, al
   Testi, al Tassoni, al Filicaia ». .
   Nessun intento, all'infuori d'una semplice beffa, traspare da versi di 1 rancesco Lazzarelli di Gubbio, morto intorno al 1694. I cento sonetti intitolati la « Cicceide », ov'ò punto leggermente Bonaventura Arrighini, si leggono però volentieri per la copia delle piacevolezze e per la bontà della forma. Maggior conto vuoisi fare di Lodovico Adimari, che nato in Napoli il 1614, e vissuto lunga pezza in Firenze, «V md'ara uscita la sua famiglia, spese gran parte della vita, spentasi in lui nel 1    fossero giovati fino allora i poeti satirici.
   L'Adimari ha corretta la forma, ordinati i concetti, spontaneo e morbido il verso. Nulla v'ha nelle sue terzine che ricordi il fare ampolloso ed esagerato de se-ijenfcfeti. Quella, che stanca, è una eerta uniformità nella esposizione dei pensieri. La sua satira s'assomiglia, se eosì si può dire, a una pittura monocroma, dove la precisione del segno non basta a compensare il difetto di quel a vivace pastosità di colorirò, ehe dà vita e rilievo alle forine. L'Adimari si oceulto sotto il nome di Me-mimo. Non alternò, come l'antico cinico, i versi alla prosa, ina si attenne al dialogo, quando con Talìa, quando con la Verità, quando con Febo, o con altri. Nulla v Ha p< rò nella sua satira, che si paragoni all'antica Menippea, o elio possa aecennare • Ha moderna, tranne forse la lunghezza. Manca all'Adimari quello scopo nobilmente civile a cui deve mirare immediatamente la satira. I vizi, che vi si pungono non sono particolari del tempo, in eui visse il poeta, ma universali e eomum a, tut ti gli uomini e a tutte l'età. Basti dire che dove tratta de' « vizi delle donne m universale », l'Adimari va flagellando gradualmente con parecchi altri i sette peecati capitali. Il suo fare è quello d'un moralista, che svolge ordinatamente e secondo le E-oi della rettoria il suo tema, avverte i passaggi d'uno in altro argomento e