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CAPITOLO IX.
cui cessò di vivere, come egli prevedeva c desiderava, « per rcsoluzione ». A ottantatre anni egli scriveva: u E perchè niuna consolazione manchi alla copia degli anni n miei . . veggio . . quasi una spezie d'immortalità nella processione de'miei po» steri : perchè ritrovo poi, come ritorno a casa, non uno o due, ma undici mici » nipoti, il maggiore de'quali è di diciotto anni, il minore di due: tutti figlioli v d'un padre e d'una madre, tutti sanissimi, tutti bellissimi, e per quanto ora si » può vedere, molto atti e dediti alle lettere e ai buoni costumi; dei quali alcuno ;> de'minori sempre godo come un mio buffoncello ; e veramente che i putti dall'età » di tre anni infino a quella di cinque sono naturali buffoni: gli altri di maggiore i¦> età tengo ad un corto modo miei compagni, e perchè hanno dalla natura perfette » voci, li godo ancora udendoli a cantare e suonare con diversi istiumcnti: anzi !) io medesimo canto seco perchè ho miglior voce e più chiara e più sonora ch'io » avessi, giammai: onde intorniato da così belli figlioli, sono talora somigliato da » chi mi vede a un Dio padre, circondato, come si dipinge, dall' suoi angeli e » arcangeli (1) >?.
Una nota ben diversa ci s> fa sentire, per bocca del suo compaesano, sulla fine del secolo. Di Paolo Paruta ci resta un breve Soliloquio (2) in cui l'operoso politico s) duole d'essere impigliato in « amore di figlioli, governo difamig a u amministrazione di roba, negotii della Repubblica (3) » ; vale a dire di essere buon padre, buon padrone di casa e buon magistrato. Davvero, che il secolo tramontava ben diverso dal suo esordire!
Immenso è il numero degli epistolari latini e volgari del cinquecento; e però noi dobbiamo limitarci a far cenno dei principalissimi. Parleremo di quelli dell'Aretino, del Caro e dei due Tasso, padre e figlio,,
L'Aretino è stato sempre la pietra dello scandalo per quanti hanno studiato il cinquecento e ne hanno poi giudicato. Pur chi cerca la pura verità nelle opere sue e anco, colla debita cautela, in quelle de' suoi avversari, ne ritrae un'idea invero tutt'altro che bella, ma certo men brutta di quella tra storica e leggendaria che se ne ha comunemente. Egli per questo canto ha partecipato alla sorte dei Borgia, la cui perversità non fu negata dalle ultime ricerche, ma solo attenuata e spiegata.
Dalla lettura in ispecie dei due volumi di lettere dirette all'Aretino (4) e dei sei volumi di quelle scritte da lui (6) s'impara a conoscere un uomo per natura sensualissimo, libéralissimo, sfacciatissimo, costretto dal bisogno di v vere largamente e di mantenere una ricca clientela di donne, di adulatori e di miserelli a fare de'ricatti continui con tutti i principi e signori, che temevano o cercavano la pubblicità delle sue lettere e de'suoi libelli. Della stessa pasta d? cui Natura aveva plasmato il Celimi, egli ne ha più evidenti ccrti vizi e più scarso le virtù.
Nelle lettere dirette all'Aretino noi abbiamo una compita galleria delle varie individualità del tempo; tra i principi campeggiano: Giovanni dalle Bande nere e Cosimo suo figlio duca di Firenze, Guidobaldo d'Urbino, il duca d'Alba, Ferrante Sansevenno, il marchese del Vasto, e perfino Caraedin Barbarossa, il famoso corsaro; tra le gentildonne troviamo niente meno che la marchesa del Vasto, Veronica Gam-bara e la marchesa di Pescara, che gareggia con le altre nel regalarlo e lo prega di scriver solo di cose ascetiche; tra la folla degli altri men noti od ignoti suo*
(1) Discorsi intorno alla vita sobria, Venezia, 182Cj pag. 41-5. Il Cornaro nato nel 1176, mori nel 1575.
(2) Edito solo nel 1599, ma scritto a Roma tra il 1593 e 1394, mentre il Paruta vi era oratore per la sua repubblica.
(3) Pag. 17 dell'edizione principe, Venezia, Nicolini, 1599.
(4) Lettere scritte a Pietro Aretino emendate per cura di F. Landoni ; Bologna, 1303. L'editore contraddice, nella prefazione, alla sentenza del Mazzuchelli, che, cioè, molte di queste lettere sìeno opera dell'Aretino stesso.
(5) hettere di M. Pietro Aretino ; Parigi 1009. in sei tomi.