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IL RISOiìGIMENTO.
Tra gli celesti, del Nilo e Pallade figlia, Una dea escelle, che formosissima vince, 0 non men che Venus, tanta sua forma decora Passeggia il cielo, mo sopra dove l'arduo fende Eridano, mo donde al cielo le Pleiad sotto Cinsero, mo donde gli dii la sguardano tutti Vestita e nitida, distinta in mille color' Dell'iris succinta, il che suo lembo ritesse Di gemme e d'oro, lustro non men che l'Orion; E circumtesta è d'ogni mirabile fatto. Questa, suo uffizio, manifesta l'aurea porta Dell'oceano a quelli alipedi che il putto superbo Fetonte strinse, di sè mal guida nocente: Mostra col dito lor qual via girino cauti Mezzo il Zodiaco, lo sonno e notte fuggendo: E poscia, quando sizienti bramano posa, Snoda loro crini, e di soave papavere quelli Pascendo o di pampineo pendente racemo .. < (1).
Questo gergo metà latino e metà volgare era adoperato anche nelle scritture in prosa. Francesco Colonna, monaco autore di un romanzo allegorico, intitolato nipneroiomacMa Poliphili, così cominciava una descrizione dell'aurora: « Plioebo in quel hora manando, che la fronte di Matula Leucothea candidava fora già dal-l'oceane onde, le volubili rote sospese non dimostrava, ma sedulo cuin gli sui vo-lucri caballi, Pyroo prima et Eoo alquanto apparendo ad dipingere le Iycoplie qua-drige della figliola di vermigliaste rose velocissimo inconseguentila non dimorava. »
Che se queste erano stranezze individuali, che rimanevano senza efficacia sullo svolgimento della lingua italiana, non rimaneva però senza efficacia il pregiudizio sparso fra la maggior parte degli eruditi, e cioè, che soltanto il latino potesse servire alla scienza ed alla poesia, e che il volgare dovesse abbandonarsi alla plebe od adoperarsi tutt'al più nelle scritture di poco momento. — Il volgare, essi dicevano, è inetto ad esprimere gli alti e gravi concetti della mente, e può servir soltanto a dir versi d'amore alle donne. Di qui il sovrano loro disprezzo per gli scrittori del trecento, non escluso lo stesso Dante. Voi, diceva Nicolò Niccoli e ripetevano i suoi amici, voi paragonate Virgilio a Dante; ma regge forse questo paragone1? Alla fin fine chi è stato Dante1? Un uomo rerum omnium ignarum, un rozzo, che scrisse malissimo in latino e non seppe far suo prò di quel che a' suoi tempi rimaneva dei classici latini. Ben lungi adunque dal confrontarlo a VirgfliD, lasciatelo, essi concludevano, ai calzolai, ai fornai, ad altra gente di simil fatta, poiché parlò in modo che sembra aver voluto esser dimestico a questa razza d'uomini (2).
E non è da credere che tutto ciò si riducesse a fisime di grammatici o a grettezze da pedanti; imperocché anche gli uomini d'ingegno vasto ed ardito professavano le stesse opinioni, benché come parte di un'utopia che non mancava certo di grandezza e di solennità. La lingua nostra, andavano molti ripetendo col Valla, è la latina, e gli sforzi di tutti gli uomini colti debbono rivolgersi a restituirla nella sua antica venustà e grandezza. Non è dessa la lingua universale, la lingua degli uomini colti di tutto il mondo'? Non si fu col diffonderla tra le nazioni che i nostri padri compierono l'opera divina di porgere agi- uomini il cibo nell'anima'? E noi 'taliani, dopo aver perduto l'impero del mondo, non è forse in virtù della lingua latina che abbiamo ancora il dominio su molta parte del globo1? (3). E qui nasceva l'orgoglio
(1) Citati dal Carducci nel suo Discorso premosso alle Stanze, all'Orfeo e alle Rime del Poliziano. Firenze, Barbèra, 1863.
(2) Leon, Aretino, D/'alog ad Petr. HistrivmL
(3) Laur. Valla, Bleg antiarum, Prozf.