408 capitolo quattordicesimo.
Esso atterrņ l'orgoglio degli Arabi, Clie diretro ad Annibale passaro L'alpestre rocce, Po, di che tu labi.
Sott'esso giovanetti trionfaro Scipione e Pompeo, ed a quel colle, Sotto il qual tu nascesti, parve amaro.
Poi, presso al tempo che tutto il Ciel volle Ridur lo mondo a suo modo sereno, Cesare per voler di Roma il tolle :
E quel che fe'da Varo infino al Reno, Isara vide ed Era, e vide Senna, Ed ogni valle onde Rodano č pieno.
Quel che fe' poi ch'egli usci di Ravenna, E saltņ Rubicon, fu di tal volo Che noi seguiteria lingua nč penna.
In ver la Spagna rivolse lo stuolo; Poi ver Durazzo; e Farsaglia percosse Si, ch'ai Nil caldo si senti del duolo.
Antandro e Simoenta, onde si mosse, Rivide, e lą dov'Ettore si cuba, E mal per Tolommeo poi si riscosse:
Da indi scese folgorando a Juba; Poi si rivolse nel vostro occidente, Dove sentia la Pompeiana tuba.
Di quel che fe' col baiulo seguente, Bruto con Cassio nello inferno latra, E Modena e Perugia fu dolente.
Piangene ancor la trista Cleopatra, Che, fuggendogli innanzi, dal colubro La morte prese subitana ed atra.
Con costui corse infino al lito rubro; Con costui pose il mondo in tanta pace, Che fu serrato a Giano il suo delubro.
Ma ciņ che il segno che parlar mi face Fatto avea prima, e poi era fatturo Per lo regno mortai, eh'a lui soggiace,
Diventa in apparenza poco e scuro, Se in mano al terzo Cesare si mira Con occhio chiaro e con affetto puro;
Che la viva giustizia che mi spira Gli concedette, in mano a quel ch'io dico, Gloria di far vendetta alla sua ira.
Or qui t'ammira in ciņ ch'io ti replico: Poscia con Tito a far vendetta corse Della vendetta del peccato antico.
E quando il dente longobardo morse La santa Chiesa, sotto alle sue ali Carlo Magno, vincendo, la soccorse.
Da ciņ prende occasione il poeta a porre sulle labbra di Giustiniano una delle solite allusioni politiche ai tempi suoi:
Facciali gli Ghibellin, faccian lor arte Sott'altro segno; chč mal segue quello Sempre chi la giustizia e lui diparte.