t,a divina commedia. 387
La prima voce che passò volando, Yinum non luxpent, altamente disse, E dietro a noi l'andò reiterando.
E prima che del tutto non s'udisse Per allungarsi; un'altra: I' sono Oreste, Passò gridando, ed anche non s'affisse.
0, diss'io, padre, che voci son queste1? E com'io dimandava, ecco la terza Dicendo: Amate da cui male aveste.
Lo buon maestro: Questo cinghio sferza La colpa della invidia, e però sono Tratte da amor le corde della ferza.
Lo fren vuol esser del contrario suono; Credo che l'udirai, per mio avviso, Prima che giunghi al passo del perdono.
Ma ficca gli occhi per l'aer ben fiso, E vedrai gente innanzi a noi sedersi, E ciascun è lungo la grotta assiso.
Dante guarda e vede
......ombre con manti
Al color della pietra non diversi.
Di vii cilicio mi parean coperti, E l'un sofferia l'altro con la spalla, E tutti dalla ripa eran sofferti.
La pena degli invidiosi è che
. . . a tutte un fil di ferro il ciglio fora E cuce sì, come a sparvier selvaggio Si fa però che queto non dimora.
Dante domanda se tra essi qualcheduno è latino:
Tra l'altre vidi un'ombra che aspettava In vista; e se volesse alcun dir: Come1? Lo mento, a guisa d'orbo, in su levava.
Spirto, diss'io, che per salir ti dome, Se tu se' quegli che mi rispondesti, Fammiti conto o per luogo o per nome.
I' fui sanese, rispose, e con questi Altri rimondo qui la vita ria, Lagrimando a Colui, che sè ne presti.
Savia non fui, avvegna che Sapia Fossi chiamata; e fui degli altrui danni Più lieta assai, che di ventura mia.
E perchè tu non creda ch'io t'inganni, Odi se fui, com'io ti dico , folle. Già discendendo l'arco de' miei anni,
Eran li cittadin miei presso a Colle In campo giunti coi loro avversari, Ed io pregava Dio di quel ch'ei volle.
Rotti fur quivi, e volti negli amari Passi di fuga, e veggendo la caccia, Letizia presi a tutt'altre dispari: