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Storia Letteraria d'Italia
I primi due secoli
Adolfo Bartoli
Francesco Vallardi Milano, 1880, pagine 552

Digitalizzazione OCR e Pubblicazione
a cura di Federico Adamoli

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   capitolo quarto.
   tutta probabilità che i Siciliani scrissero nel patrio loro sermone; recandone prove delle quali nessuno potrà disconoscere il molto valore.
   « Nella ultima stanza della canzone di I, da Lentino che principia
   Amor non vuol ch'io clami;
   il testo legge.
   Per lo vostro amore avere Unqua gioja non perdiate. Cosi volete amistate ? Innanzi vorria morire.
   Ora l'ultimo verso deve rimare col quarto ultimo della stanza e col primo dei qui riportati; ma il toscano copista non seppe mantenere le forme Siciliane avirt e morivi, e, guasta la rima, guastò i versi che dovevano essere tutti settenari e leggersi probabilmente cosi :
   Pri vostru amuri aviri Unqua gioi' non perdati. Si voliti amistati? Anzi vurria muriri.
   E nell'altra dello stesso che principia:
   Donna eo languisco etc.
   il secondo e il quarto verso della prima stanza non rimano più perche l'emanuense invece di tenere fidi e mercidi, corregge mercede. » (1)
   Chiunque del resto abbia qualche pratica delle poesie sicule, deve avere necessariamente intraveduto questo rifacimento de' copisti. Una canzone di Ruggerone da Palermo comincia :
   Oi lasso non pensai Si forte mi parisse.
   Quel parisse è rimasto cosi, perchè rima con morisse-, senza ciò possiamo esser certi che si sarebbe mutato in paresse. Per la stessa ragione, si legge nella stessa poesia
   Ed or caro l'accatto E scioglio come nivi.
   Il copista non ha potuto corregger neve, perchè dovea rimare con dipartivi (2). Cosi noi troviamo in Enzo avveniri per la necessità della rima con soffriri; dimura
   (1) Il signor Corazzini sta ora attendendo ad una edizione critica dei poeti siciliani, nella quale dimostrerà che la forma adoperata da essi fu il dialetto del loro paese ; e tenterà anche una restituzione a questa forma primitiva di che dette già saggio in un suo opuscolo stampato per nozze , dove troviamo la restaurazione di alcune poesie di Jacopo da Lentino, di Tommaso di Sasso e di Inghilfredi.
   (2) Questa ed altre forme latine danno molta probabilità alla supposizione che i Siciliani si giovassero anche del latino per dar forma letteraria al loro idioma. Di essi scriveva già il Niccolini :« colla analogia del latino, coli'innanzi de'Provenzali, colla rima che impone la necessità di dare la stessa desinenza a molti vocaboli, facilmente nasce un frasario uguale alle formulo algebriche, che sono per tutto le stesse. » (Lez. Accadem.)