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capitolo quarto.
Allegru cori piena
Di tutta beninanza,
Suvvengavi, seu penu
Per vostra innamuranza,
Cliil nu vi sia in placiri
Di lassarmi muriri talimenti,
Cliiu v'amo di buon cori e lialmenti.
Che è dunque ciò? Quegli stessi poeti che scrivevano in lingua illustre, scrivevano anche nel loro dialetto? Ma, di grazia, quale criterio, quale regola seguivano essi per mutare la parola dialettale in parola illustre ? Chi é che ave\a detto ad essi: questo tale vocabolo che cosi vi ha insegnato la balia, oggi dovete mutarlo in quest'altro? voi dovete seguire le tali e tali leggi eufoniche e per le tali e tali ragioni? Chi avesse l'autorità di dir questo, in Sicilia, nel secolo XIII, noi in verità non sappiamo. E quando pure alcuno lo avesse detto, e gli altri lo avessero ascoltato, ne sarebbe uscito fuori un linguaggio tutto artificiale, quasi direi una specie di lingua furbesca, nella quale potevano forse intendersi tra loro i Trinacrii, ma che non avremmo certo inteso mai noi, ma che non avrebbe mai dato le sue composizioni alla letteratura italiana. La quale, giova qui ricordarlo, muoveva allora i primi passi, faceva sentire i suoi primi vagiti, non aveva ancora nessun grande scrittore, nessun grande lavoro, per cui fosse stabilita l'autorità di una lingua scritta. I poeti della corte Sveva erano i primi (cosi i Siciliani asseriscono) che tentassero nell'arte le forme volgari. Ebbene, chi dunque avrebbe potuto dire a Frate Atanasio, in luogo di atfammucciuni tu devi scrivere celatamenfe, in luogo di assicutari, inseguire, e rumore invece di rimurata, e pianse invece di chiangiu, e diedero invece di desimi Chi poteva aver dato alla cosiddetta lingua illustre, questa supremazia questa autorità questa qualità appunto di illustre, se essi, i Siciliani scrittori, erano stati i primi ad usarla?
Un sapiente uomo ha detto : «i gai cortigiani della Sicilia aveano cercato sulla imitazione provenzale foggiare la lingua nobile della poesia» (1); e può esser vero, in parte; vero per noi che crediamo i poeti siculi posteriori agli occitanici, non vero per coloro che vanno sognando sè precursori anzi de'provenzali. Ma coli'aiuto del solo provenzale si può credere possibile il passaggio dal dialetto siculo a quella lingua che leggiamo ne'siculi poeti? Ammettiamo pure che, come l'Alta Italia si modellò sui dialetti veneti, così sulla lingua d'oc si volesse modellare la Sicilia; ammettiamolo, sebbene le ragioni storiche del fatto non ci appariscano chiare, ammettiamolo per certe desinenze di nomi, per certe parole; supponiamo pure che doptanza abbia suggerito dottanza; comensailla, comineiaglia; accordansa, aecordanza; esbaudir, sbaldire, e via discorrendo. Con cento o duecento vocaboli modellati sul provenzale non si muta ad una scrittura il colorito generale della lingua: si può modificare, abbellire, ingentilire, lisciare un dialetto; ma la sua tinta fondamentale rimane: ci si scorgerà lo sforzo di chi ha voluto modificarlo; ma quello sforzo non potrà cancellarne i tratti caratteristici. Nell'Italia Settentrionale noi distinguiamo subito il poeta milanese dal veronese; il genovese dal bergamesco; li distinguiamo sebbene ognuno abbia seguito un tipo uniforme, abbia tentato un'opera letteraria, abbia voluto rinunziare all'uso plebeo del proprio vernacolo.
Ma di siculo che cosa rimane in questi versi, per esempio, di Guido de'le Colonne ?
Non dico ch'alia vostra gran bellezza Orgoglio non convenga e stiale bene, Clie a bella donna orgoglio ben convene, Che la mantene in pregio ed in grandezza.
(1) Gino Capponi, Lettera ad Alessandro Manzoni. — Milano, 18ti8; pag. XXK.