Stai consultando: 'Storia Letteraria d'Italia I primi due secoli', Adolfo Bartoli

   

Pagina (116/555)       Pagina_Precedente Pagina_Successiva Indice Copertina      Pagina


Pagina (116/555)       Pagina_Precedente Pagina_Successiva Indice Copertina




Storia Letteraria d'Italia
I primi due secoli
Adolfo Bartoli
Francesco Vallardi Milano, 1880, pagine 552

Digitalizzazione OCR e Pubblicazione
a cura di Federico Adamoli

Aderisci al progetto!

   
[Progetto OCR]




[ Testo della pagina elaborato con OCR ]

   ,,2
   CAPITOLO TERZO.
   non pensare a Dante (1). Troppo facile figurarsi come dovesse da quei racconti uscire atterita una moltitudine di povera gente, che credeva alle parole del frate poeta, e che le avrà lungamente e pavidamente ripensate nella ingenua e puerile immaginazione.
   Figuratevi una città di fuoco e di zolfo bollente, con acque amare e velenose, con ortiche e spine, coperta da un cielo di bronzo, dove
   Se quanta aqua è en maro entro ge fos cetaa, Encontinento ardria si corno cera colaa.
   Stanno a guardia Trifon e Macometo, Barachin e Sathan ; e sopra un'alta torre sta una scaraguaita (2), la quale non dorme mai, e grida eternamente che si faccia buona custodia ai condannati, e che si accolgano a festa coloro che arrivano. I quali poi colle mani e coi piedi legati, son condotti dinnanzi al re della morte, e gittati quindi in un pozzo profondo, donde esce uno spaventoso puzzo che sentesi a più di mille miglia all'intorno, e dove
   Asai ge là co bisse, ligori, roschi e serpenti, Yiperi e. basalischi e dragoni mordenti, A cui plui ke rasuri taja le lengue e li denti, E tuto'1 tempo mania e sempr'è famolenti.
   In quest'ultimo verso chi può non ricordare le parole dell'Alighieri: E dopo il pasto lia più fame che pria1?
   Notabile, nella sua comica stravaganza, questo quadretto di genere dipinto con tizzoni infernali:
   Stagando en quel tormento, sovra ge ven un cogo, Co è Bacabù, de li pecor del logo, Ke lo meto a rostir, com' un bel porco, al fogo En un gran spe de fer per farlo tosto cosro.
   E po prendo aqua e sai e calucen e vin E fel e fort aseo, tosego e venin, E si ne faso un solfo ke tant è bon e fin, Ca ognunca Cristian si guardo el re divin.
   A lo re de l'Inferno per gran don lo trameto, Et elo el meto dentro e molto cria al messo : E' no ge ne daria, co diso, un figo secco, K'è la carno crua e'1 sango è bel e fresco.
   Mo tórnagel endreo viacamente tosto, E dige a quel fel cogo k'el no me par ben coto, E k'el lo debia metro cun lo cavo cò stravolto Entro quel fogo c'ardo sempre mai corno e noito. j
   lo sento anch'oggi, leggendo tali parole, le risate della folla ascoltatrice, e in figuro insieme i brividi che dovean correre per quelle ossa : tragedia e commedia ar un tempo, qual'era veramente l'inferno del medioevo, quale fu poi l'inferno dantesco Nè il comico manca in quei luoghi stessi dove è più spaventosa la scena, come i. quella ad esempio delle maledizioni tra padre e figliuolo, che finisce con quei due versi terribili,
   E s'el poes l'un l'altro dar de morso, El ge maniaria lo cor dentro'1 corpo:
   (1) Ozanam, op. cit. cita a pie' di pagina i luoghi che gli ricordano la Divina Coni media. Ma a noi Semerano invero troppe quelle citazioni.
   (2) Questa parola merita d'essere testualmente citata.