516 LIBRO SECONDO — PARTE li. — RACCONTO. I PROSATORI.
molta auge, ma si dovè ritirare allorché Tigellino ehbe preso il di sopra. Sennonché, neanche questo valse a risparmiargli la persecuzione; ed infatti, sospettato di aver pigliata parte alla congiura di Pisone, gli fu ingiunto di morire, lasciatagli però la scelta del modo Egli sì fece aprir le vene, e stoicamente mori, l'anno 65 dopo Cristo.
Seneca era di corpo debole e magro; e di animo non volgare, ma insieme nè conseguente nè integro. Non avea torto Dione, sebbene con un po' troppo di passione ci insista, a dire che lo stoico filosofante faceva in pratica tutto il rovescio di ciò che predicava i;i teoi a,. Declamava contro le ricchezze, ed ammassò ottantacinque milioni di sesterzi ; riprendeva il lusso, ed aveva cinquecento tripodi di cedro coi piedi d'avorio; vantava il vivere ignorato, e cercava pompe e schiamazzo; scr /èva di preferire l'offender col vero al blandire altrui col falso, e poi adulava a più non posso Nerone e gli dava lode d'innocenza!
È una specie di leggenda, nata sino dai più antichi tempi, e rimasta per lunga pezza in gran credito presso coloro che si dilettano molto di credere tutto ciò che è poco credibile, o che per preconcetti religiosi sono inclinati a vedere influenze cristiane pur dove esse punto non sussistono, quella che Seneca abbia avuto relazione con S. Paolo: anzi si citò sul serio (7) un carteggio tra loro due, che oggi nessuno si attenderebbe più a tenere per 'genuino. La storiella ha trovato fede per via d' alcuni principj o espressioni credute specificamente cristiane, le quali pure si rinvengono nei libri di Seneca. Ma il cristianesimo non fu un fenomeno apparso tutto ad un tratto nel mondo, bensi fu un risultato appunto del lavorio delle menti nei tempi che lo precedettero, delle menti greche e latine non meno che delle giudaiche. delle menti di tutta la massa degli uomini, non meno che della mente geniale del profeta gal ledano, che pur fu l'eco più pura e più vivace di tutte le migliori aspirazioni del sentimento d'allora. Cosicché il trovare accennati concetti, massime, sentimenti, divenuti poi fondamentali nel cristianesimo, il trovarli, dico, accennati in parecchi filosofi dell'antichità pagana, è cosa che, lungi dal sorprenderci, deve anzi parerci naturalissima e da doversi a priori aspettare. Soprattutto poi Seneca appartiene a tale età, in cui certi alti concetti etici e civili si eran già così maturati pur nell' ambiente pagano, da farci cadere veramente in forti dubbi circa la vantata necessità che il cristianesimo giudaico galileiano venisse a confermarli. Una delle cose che più fanno passare Seneca per cristianeggiante si è quel dire che egli fa nei Benefizii (1. III), che schiavo, libero, cavaliere sien parole inventate dalla vanità, e che gli schiavi non vadano chiamati cosi, bensi piuttosto uomini, commensali, meno nobi ' ar ici, consorti di schiavitù, essendoche la fortuna abbia su noi i medesimi d. ùtti come su loro. Ora, come può questo concetto parere, in Roma, alla età di S3neca, un frutto esot;co, non dedu( bile d'altronde che da arcane influenze straniere e cristiane, se g ì Cicerone, che Antonio ebbe 1' accortezza di spedire al mondo di là parecchi decenni prima che Gesù Cristo venisse al mondo di qua, àvea detto chiaramente nel libro degli oflìcii, che gli schiavi bisognasse trattarli come mercenurj, vale a dire come se fossero stati uomini liberi, facoltati a lasciare i padroni appena loro paresse, epperciò esigenti rispetto e mitezza?
Questa sognata influenza adunque del ci stianesimo, e in special modo di S. Paolo, sopra Seneca, va relegata senz'altro tra quelle stoi e di cui il medio evo fu si fecondo, e delle quali la più cospicua onde siasi tenuto parola in quest'opera è la famosa profezia virgiliana del Redentore, scopertasi nella IY ecloga (8).
(1) Consol. ad Hclv. 19, 2.
(2) Q. Nat. I, 1.
(3) Epist. 49,
(4) « Illa prò quaestura mea gratiam suam eitondit, et quae ne sermuuis quidem aut claraa salutationis sustinuit audaciam, prò mo vicit iudulgcntia verocunUiam ». Cons. ad Helv. 19.
(5) lac. A. XIII. 42; Diouc LXI, 10; Schol. a Giov. Sat. V. v. 109.
(6) Tac. A. XII; 8.; Svetonio, Nerone 7; Schol. a Giov. I, 1.