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Storia della Letteratura Romana

Cesare Tamagni
Francesco Vallardi Milano, 1874, pagine 590

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a cura di Federico Adamoli

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   capitolo iii. — i poeti satirici. 40?
   fredde, quindi nei mesi autunnali soggiornò nella sua villa, e l'inverno sì ricoverò in una città marittima dell'Italia meridionale. Da questo tempo visse quasi sempre in campagna, venendo il meno possibile a Roma, tanto da ricevere da Mecenate serii rimproveri per la sua lunga assenza. Avea appesa la cetra alla parete per dedicarsi unicamente a studj più severi. In una lettera a Mecenate (27), egli scrive : « Ora io metto in disparte gli scherzi e la poesia: i soli oggetti che mi occupano sono il vero ed il buono. »
   A Palestrina si divertiva rileggendo Omero in cui trovava più sapienza che in tutta la filosofia di Crantore e di Grisippo. Dal qual passo noi vediamo che la filosofia di Orazio non si limitava ai sistemi degli accademici e degli stoici. (28) E se ci venisse il talento di domandargli che filosofia fosse la sua, a che scuola si fosse addetto, egli ci risponderà che senza legarsi a nessun maestro, va dove l'onda lo porta. Alieno per natura dalle astrazioni e dalle teorie assolute egli si sentiva portato verso la filosofia positiva della scuola socratica. Le carie socratiche erano, com'esso dice, la sua lettura prediletta. Da questi ed altri scritti consimili gli si era formata una filosofia, fondamento della quale era la massima, che s'abbia di usar delle cose, senza mai farcene servi (29).
   Ed a questa massima egli rimase fedele non solo negli scritti, ma anche nella vita. Moderazione nei godimenti, contentezza del proprio stato, non ambizione, non avarizia, non invidia o livore, questi sono i tratti più salienti del suo carattere e della sua vita. Del resto, come doveva accadere ad un poeta, la filosofia d'Orazio era pur sempre subordinata alla momentanea disposizione del suo spirito. Egli medesimo schiettamente confessa che a volta a volta seguiva i severi precetti del Portico o la facile dottrina d'Aristippo: e con questa confessione concordano anche le sue poesie. Perocché se l'odi predicare agli amici: Sapias vina liques! « Sii saggio, colma il nappo! » (1) oppure Carpe dienti, quam minimum credula postero ! « Godi l'oggi e non ti fidare alla dimane! » tu devi crederlo uno scolare di Aristippo e di Epicuro; e d'altra parte quando ti loda la virtù come la sola fonte de' veri beni, come la Dea che sola dispensa scettri e corono, ei ti pare di udire la severa voce di un discepolo di Zenone. Quindi si audrebbe tanto errati a fare di Orazio un Epicureo, perchè ei si è messo celiando in quel gregge, quanto a farne uno stoico perchè tratto tratto insegna massime della più austera filosofia. Orazio non era un filosofo nello stretto senso della parola, ed era, per sua maggior ventura, un poeta. Quindi pago di osservare nella pratica della vita que' precetti che lo tenessero lontano dai vizii obbrobriosi, poetando secondava l'impulso della fantasia, l'ispirazione dell'ora, del luogo che gli portava o i lieti pensieri dell'amicizia e dell'amore, o le severe meditazioni della patria e della virtù. Immerso nella voluttà dei sensi, cantava l'oblio delle cure e il godimento del giorno che fugge, richiamato a più gravi propositi, insegnava ai cittadini le virtù che sole fan l'uomo degno di sè stesso e salvano le nazioni. I poeti, disse una poetessa del nostro secolo, sono come gli augelli dell'aria, che ogni strepito li fa cantare: e cantando, si può aggiungere, ripetono, come fa l'eco, il suono che prima feri a loro gli orecchi. Quindi è maraviglia che dei critic poeti abbiano potuto offendersi di questa volubilità e versatilità d'Orazio, la quale mentre non fa nessun torto al suo carattere, prova splendidamente la feconda mobilità del suo ingegno.
   Quelli che fanno Orazio epicureo lo vogliono anche ateo. È verissimo, e lo confessa , che egli era un pcco diligente frequentatore dei templi, « parcus deorum cultor et infrequens, » che non credeva molto all'inferno, e che non attribuiva i miracoli della natura all'immediata intervenzione degli Dei; in questo Orazio pensava press'a poco come tutti i saggi del suo tempo, i quali se in pubblico difendevano ancora la religione dello stato come una macchina di governo, ne deridevano le scempiaggini e le falsità quando parlavano o scrivevano tra di loro e per loro soli. Easta, per esserne persuasi, confrontare ciò che degli Dei pensava e scri-
   (1) Letteralmente « cola i vini: * giacché i Romani a rinfrescare il vino ed a levargli l'asprezza usavano di farlo passare in un colatoio di rame elio a tal uopo empivano di neve,