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Storia della Letteratura Romana

Cesare Tamagni
Francesco Vallardi Milano, 1874, pagine 590

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a cura di Federico Adamoli

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   360 libro secojndo. — parte i. — i poeti.
   di affermare che Orazio — amando e cantando l'orse i troppo liberi vini ed i giovanili affanni, — pagò il suo debito all'umana fragilità, ma da questo a porlo in riga coi neri che egli addenta così leggiadramente nelle sue satire, ci corre un buon tratto.
   E qui innanzi tutto è da osservare, che giudicando degli amori di Orazio dalle sue poesie, e dal numero delle amanti, volendo arguire la leggerezza e volubilità de' suoi sentimenti, noi non ci dobbiamo scordare che poesia e realtà non sono sempre la stessa cosa, e che sebbene i casi e le passioni che il poeta ci dipinge possono essere tolti dalla vita reale, una parte non piccola vuole essere fatta anche alla fantasia. Giacché un solo fatto, una sola impressione possono dalla fantasia poetica essere variati all'infinito, e uscirne una lunga sene di fatti e d'imagini tutte ugualmente vive c reali come la prima dalla quale derivano. La fantasia, ognun lo sa è il prisma elio rompe in varii colori la bianca luce del raggio solare, è l'eco che lontanamente ripete e moltiplica i suoni. E quanto più questa facoltà è mobile e viva, tanto più la creazione è facile e feconda. Le istesse qualità della persona amata, e le alternative, or tristi, or liete, del volubile affetto davano modo ad Orazio di imaginare cento amanti e cento amorosi casi, senza che tante proprio fossero le belle che gli rapivano la' pace del cuore e la lena di limare i suoi versi. E in questa opinione si confermerà facilmente chi guardi ai nomi delle dive cantate del nostro poeta, che per lo più sono finti ad esprimere qualità morali o fisiche, le quali possono ugualmente convenire ad una ed a parecchie persone.
   Ma ciò non basta. Le leggi della poesia e le ragioni del gusto obbligavano Orazio a far larghissima parte alle canzoni d' amore. In tutti i tempi ed in tutti i luoghi, sotto qualunque clima come in qualunque grado di civiltà, fosse nudo od adorno di un velo candidissimo, Amore accese sempre di sè il cuore umano e l'estro de'poeti. Orazio aveva dinanzi a sè gli esempi dei lirici greci, Alceo, Saffo, Ana-creonte, i canti de' quali sono pressoché interamente consacrati a celebrare le lodi di Bacco e di Venere. Se egli ambiva il nome e la gloria di poeta lirico, se voleva camminare all' alta meta sull' orme de' suoi maestri, e piacere co' suoi versi agli amici, egli doveva, seguendo il proprio precstto, juvenum curas et libera vina reterre (19).
   Un'altra cosa da sapersi è chi fossero, ed a quale classe di persone appartenessero le amorose di Orazio. Tra i ricordi del padre, che egli cita ad ogni tratto, c'era questo: che potendo usare delia venere concessa non andasse dietro alle adultere per non esporsi al rischio d'essere, corno Trebonio, colto in flagranti (20).
   E Orazio lo seguì fedelmente, a quel che pare, cercando le sue amanti tra le libertine, colle quali nessuna onesta persona si vergognava allora di conversare e di convivere, quando le unioni legittime facevansi ogni giorno più difficili e più rare, massima nelle alte classi della società. Questa era la venere concessa, che il padre consigliava al figliò di usare acciocché non violasse i sacri diritti del matrimonio. Strana condizione di costumi che era allora in Roma, e confusione ancor più strana di quelle idee che sono per noi i cardini della morale e la base stessa del vivere civile. Si vietava l'adulterio per un resto di ossequio alle leggi che proteggevano i diritti del marito e del padre di famiglia, e nell'onestà della matrona si voleva difendere l'ultima reliquia di qua' forti costumi che in altri tempi aveano creata e mantenuta la potenza della Repubblica. Ma le leggi erano debole freno all'intente corruzione, e ai matrimonii divenuti sempre più rari, s'aggiungevano, per togliere agni amore ed ogni rispetto ai vincoli domestici, la facilità dei divorzi e la frequenza si essa di quelle infedeltà che le leggi volevano proibire e castigare. Oramai tra la schiava e la matrona non correva altra differenza che del vestito, e se gli nomini rispettavano ancora per forma i privilegi e l'onor della stola, correvano più spesso agli amplessi delle togate libertine, dove trovavano corrispondenza d'affetti e gioje più lusinghiere, che non tra le pareti del domestico lare. Così ogni buon principio di morale era scosso, e non dobbiamo maravigliarci se Cicerone potè colla mollezza de' tempi scusare davanti ai giudici la giovinozza dissoluta di Celio, ed essere ascoltato, e se egli medesimo, l'autore degli Offici e delle Filippiche, potò