capitolo iii. — i poeti satirici. 397
nanzi (XIII. 31. 1): « Saturarum M. Varronis — quas partim cynicas alii Menippeas appellarli » Dal confronto di queste testimonianze si vede che Valerio Probo guardò solamente alla forma. Aulo Gellio alla sostanza; e riunite confermano la somiglianza di forma e di dottrina degli scritti del cinico greco colle satire del senatore romano. In mezzo al discorso l'autore passa liberamente dal latino al greco e dalla prosa al verso. I versi son d'ogi i specie (per lo più senarii giambici; poi trochei, scazonti anapesti, esametri e pentametri; nè vi mancano Sotadei, Galliambi, Choriainbi, Endecasillabi, Gliconii, eretici, Bacchici), e le regole così della metrica come della prosodia ci sono meglio osservate che nei poeti precedenti. Di modo cbè egli tiene il giusto mezzo tra la metrica antica più licenziosa e quella che nel secolo d'Augusto Unì di conformarsi affatto alle norme della poe ;a greca. I titoli sono, quanto si può pensare, strani e bizzarri (Sesqueulixes, Papiapapae, 'l7T7roxu«v, 'Yfyoscuwv\ quali greci, quali latini : bene spesso consìstono in un proverbio, come : nescis quid vesper serus vehat; post vinum seplasia fetet; mutuum muli scabunt; s oOtos 'H/3oeid»j; ; Sa ¦zìfes oì yipovtss; e moltissimi sono doppi, cosi che al titolo succeda una spiegazione con irepì. Tali sono: Aborigines (rcipt c/.vQoùttuv yu'o-sws), Cycnus (mot ra
Nelle parole « ipse varium et elegans omnì fere numero poema fecisti -•> che son tra le lodi date da Cicerone a Varrone negli Academ. (1 3, 9), si volle vedere un'allus one alle satire Menippee: a me pare che Cicerone, volendo essere inteso, doveva e poteva parlare più chiaramente. Non credo che ad una forma di componimenti misti, come son le satire, di versi e di prosa potesse Cicerone dare il nome (li poema.
(2) Per quanto Varrone fosse, come lo chiama Plutarco, /31 /3 \ i xw r a t o s, non è verosimile che abbia composto in poco tempo tanto numero di libri. Che li publicasse man mano, oltre d'es?ere cosa naturale in questo genere di componimenti, si argomenta anche da ciò che Appiano (De bello civili II. 9) dice del Tricarano.
(3) Si tìiige un Epimenide che rivedendo Roma dopo cinquant' anni non vi trova più nulla di ciò che vi avea lasciato. E per capire che cosa vi ha invece trovato, bastano questi frammenti:
(XI) Ergo tum Romae parce pureque pudentìs
Vixere in patria; at nunc sumus in rutuba.
(VI) In quarum locum subierunt inquilinae impietas, perfìdia, impudieitia.
(VÌI) Nunc quis patrem decem amorum nalus non modo aufert, sed tollit, nisi vene no ?
(4) Vedi sopra pag. 163. Quintiliano (X. 1. 93) dopo lodati Lucilio, Orazio, Persio, così si esprime intorno alle satire di Varrone: Alterum illud etiam prius satirae genus sed non sola carminum varietate mi se tum condidit Terentius Varrò, vir Romanorum erudi-tissimvs. » E quest'antico genere di satira e quello appunto di cui parla Diomede (p. 485. 30 sqq. Keil) cella definizione della satira « Satira dicitar carmen apud Romanos nunc quidam maledìcum et ad carpenda hominum vitia archaeae comoediae charactere compo-situm, quale scripserunt Lucilius et Horatius et Persius. At olirn Carmen quod ex variis poematibus constabat satira vocabatur quale scripserunt Pacuvius et Ennius! Ma d'altro avviso sono que' critici (Gessner, Jahn, Spaldìng, Riese) i quali nelle parole di Quintiliano « illud, ptius, satirae, genus, condidit » trovano un controsenso; non potendosi dire che Varrone avesse inventato un genere di satira già più antico di quello di Lucilio. Emessisi intorno ai rimedii, per curare il testo che si diceva guasto da non dubitarne, fu proposto da Jahn che si leggesse condivit invece di condidit, come se Varrone avesse abbellita la la satira Enniana. Altri s'applicò invece a correggere il prius, che io Spaldìng cangiò in proprium, non badando &\Vetiam^con cui non si può accordare, ed il Riese in verius : l'uno e l'altro per far dire a Quintiliano che Varrone fu l'inventore SI quella che più veramente si può dir satira. Ma poco persuaso egli stesso della sua medicatura (giacché il prisco nome di satura s' addice ugualmente a tutte le satire romane da Ennio a Giovenale) finì col dire, che, piaccia essa o non piaccia, il passo di Quintiliano è guasto, e così com'è non suffraga ili alcun modo l'opinione di coloro, i quali vogliono confondere la satira di Ennio con quella di Varrone. Ed anche dalle seguenti parola di Quintiliano: « et non sola car-