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Storia della Letteratura Romana

Cesare Tamagni
Francesco Vallardi Milano, 1874, pagine 590

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a cura di Federico Adamoli

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   3'J2 libro secondo. — parte i. — i poeti.
   denze e dalla vita semplice e modesta dei loro avi, 11 freddo cinismo di Menippo vi si mesce e conteinpera coll'aterba, ma schietta festività della Satira latina. E tranne le persone, che non si potevano chiamare per nome, contro i vizii deda sua Roma non è Varrone nien aspro o men libero di Luci io.
   Non si può dire in qual tempo tutti i cencinquanta libri delle Satire varroniane fossero scritti È probabile che fossero pubblicati uno alla volta, man mano che li veniva scrivendo, e il Tricarano, o Mostro di tre Teste, con cui voi e ferire il Triumvirato di Pompeo, Cesare e Crasso, usci senza dubbio nel G94 o poco dopo (2).
   Nel 709 doveva averle già finite da un pezzo, giacché introdotto a parlare da Cicerone nel primo degli Academici, chiama le Satire suoi vecchi scritti (sua vetera). Fra le ultime può stare quella intitolata Seocagessis, perchè scritta a sessantanni, nella quale, a giudicarne dai frammenti, fa un quadro delle miserie di Roma che s'attaglia appuntino ai tempi di Catalina (3).
   - Le Satire ed in genere tutte le poesie di Yarrone furono presto dimenticate. Nel secolo di Augusto nessuno le ricorda, mentre tra gli scrittori di Satire si nominano Varrone di Atace e Floro, chiaro non per altro che per l'amicizia di Orazio. Negli anni successivi e per tutto il primo secolo dell'era volgare, se possono aver servito di esempio allo scherzo di Seneca, che finse Claudio trasformato in zucca, od al romanzo di Petronio, non furono ancora mentovate che da Quintiliano, il quale le accenna di passato senza giudicarle (4).
   Miglior sorte ebbero nell'e;à di Adriano e degli Antonini, quando, a testimonianza di Aulo Gellio, non erano solamente lette dai grammatici, ma andavano per le bocche di tutti. Quantunque per la forma già troppo vecchia non si potessero intendere senza molta fatica. E all'opera dei grammatici di questo secolo, che le leggevano per cavarne voci e dizioni disusate da empire i loro glossarli, dobbiamo la conservazione anche di que' pochi frammenti che sono fino a noi pervenuti.
   C 1 terzo secolo ricadono neh'cbblio. Censorino non le nomina, quantunque mostri di averle lette; Marziano Capella compose un trattato sopra la grammatica, misto di prosa e versi, che pure intitolò Satira; Macrobio, nel citarle, si vale per lo più delle parole di Aulo Gellio.
   I padri della Chiesa che fecero molto uso delle altre opere di Yarrone non pare che conoscessero guari ie satire: le quali sono menzionate solamente in quattro luoghi di Tertulliano e di Arnobio; e un 'breve cenno ne fa S. Agostino. Pertanto si può in genere allarmare che le Satire di Varrone sia per la oscurità de' vocaboli e delle frasi sia per la troppa semplicità e rozzezza del dettato furon tra le scritture meno lette e conosciute di tutta la romana letteratura (5).
   (1) I testimoni antichi che più confermano il titolo di Menippee dato a queste satire, sono Varrone stesso, Valerio Probo ed Aulo Gellio. Varrone nel primo libro degli Academici di Cicerone (I. 2.) dice: « in illis veteribus nostris, qua Menippum imitati, non interpretati, quadam hilaritate conspersnnus » e nel terzo frammento della satira II Testamento wgsoì atAjxùv) • « E mea natis, quos Menippea naeresis nuti cata est, tu-tores do, ecc. »
   Qui rem Romanani Latiamque augiscere vultis. » Valerio Probo commentando Virgilio (Eglog. Vi. 31, p. 14, 19. Keil) scrisse : Varrò qui et Menippeus (seguito la correzione del Riese; non a magisstro cujus aetas longe praecesserat, nominatur, sed a souietate ingcnii; quod is quoque omnigero cai-mine satirus suas expoliverat » Lasciamo stare che Menippo non era di tanto più vecchio di Varrone, giacche fiori non più che ventanni prima di lui, e che non scrisse satire, ma anche per la espressa testimonianza d Luciano è chiaro che egli ne' suoi libri mescolò i versi alla prosa, e potè per questa parte servire d'esempio a Varrone. Come fu più tardi imitato dallo stosso Luciano; i dialoghi del quale ci olirono ancora la più giusta imagine che possiamo avere e degli scherzi di Meu.ppo e delle satire di Varrone.
   In Aulo Gellio (Notti A. H. 18. 6) dapprima si legge: « Alii quoque non pauci servi fueruut, qui post clari philosophi extiterunt. Ex quibus ìlle Menippus fuit, cujus libros M. Varrò in satiris aemulatus est, quas alii cynicas, ipse appellai Menippeas » E più in-