CAPITOLO VI. — QUINTA ET*.'. 307
sime dagli storici e dai poeti, e che i lor successori non furono tardi a seguitarne le pedate. Cesare e Cicerone, per cagion di esempio, avean già posto alcuna volta il dimostrativo is in luogo del riflessivo se, scrivendo quegl nella guerra Gallica (1.5) «Kelvetii persuadent Rauracis et Tulingis, uti . . . .una cum iis proficiscan-tur >s e questi nella quarta Verrina (39): « Audistis nuper dicere legatos Tyndari-tanos, Mercurium, qui sacris anniversariis apud eos coleretur, Verris imperio esse sublatum. » Dopo di loro troviamo in Petronio, senza alcun fine d'evitare ambiguità, ma per sola negligenza plebea, « scripsit ut UH (— sibi; semen mitteretur (scrisse di mandargli il seme; » e in Gregorio di Tours (5,14) « orans ut sibi sanctus succurreret atque ei (sibi) concederet gratiam. » Persuadere allquem fu detto primamente da Ennio e ripetuto da Petronio. L'esempio di sottrarre una proposizione participiale alla dipendenza del verbo della proposizione principale e convertirla in ablativo assoluto fu, per studio di evidenza, dato ancora da Cicerone e da Cosare. « Nemo erit, qui credat, te invito, provinciam Ubi esse decretarci (Piai. 11, 10, 23). — » « Vercingetorix, convocatis suis clientibus, facile incendit eos (B. G. VII. 4. 1.).» E dopo Orazio fu usato spessissimo l'ablativo assoluto del solo participio passato passivo, excepto, cognito, explorato, exposito, composito, intellecto, audito, proprio come noi diciamo: eccetto, saputo, visto, udito ecc. (1). Così, per terminare con questa specie di esempii, l'uso dell'infinito presente senza soggetto accusativo co verbi di sperare, promettere in luogo dell' infinito futuro, risale ai comici ed ha per sè ancora l'autorità di Giulio Cesare (2). Dai poeti, e per imitazione della sintassi greca, proviene l'uso dell' infinito presente attivo e passivo coi nomi e cogli aggettivi. In italiano esso si aggiunge comunemente una preposizione; onde amor co-gnoscere, docilis ferre jugum, si traducono : desiderio di conoscere, docile a sopportare il giogo. E n grazia dell'articolo potè diventar più fiequente in italiano, che non fosse in latino, l'infinito preso come sostantivo.
Non tanto i classici ma Vitruvio, Ammiano Marcellino, Venanzio Fortunato ed altri scrittori di questi ultimi secoli usano spessissimo l'ablativo sing. del gerundio (il cosi detto gerundio in do) invece del participio presente. Noi abbiam fatto, mercè una perifrasi, anche un gerundio passato, o ce ne serviamo per esprimere con una forma comoda e chiara tutta quella classe di proposizioni etemporali, causali, condizionali) che in latino si esprimevano con quum ed il congiuntivo. E continuerei se credessi che le attinenze della sintassi latina coli'italiana si potessero riassumere i:i alcune poche proposizioni, o di nostrare con un corto numero d'esempi. Ma esse domandano un trattato che qui non si può fare, e non ha, a dir vero, neanche bisogno d'esser fatto, chi possa e voglia leggere l'ultimo volume della grammatica di Diez. Basterà avvertire in passaggio che per tutte queste mutazioni la lingua italiana non fu tanto alterata, che non trovasse in sè la forza di rimediare ai patiti danni e d' ornarsi col tempo di nuove attitudini e bellezze. Certo è che essa aquistò in numero, facilità e leggiadria quello che pareva aver perduto in graT ita, risonanza e concisione, e rimasta priva d' alcune forme altre ne assunse i compenso, arricchendosi sempre per via di nuovi vocaboli ed espressioni. Talché, quando venne alle mani d'un potente intelletto, non parve indegna di descriver fondo a tutto l'universo, nè v'ha alcuno de' nostri grandi scrittori che abbia potuto o possa, come l'antico poeta latino, lagnarsi della povertà del patrio linguaggio.
La metrica seguitò il movimento generale della lingua. Fondata sulla quantità delle s'ilabe, essa doveva prima corrompersi e poi mutarsi affatto, dacché, come poco sopra s è visto, le leggi della quantità cessarono d'essere osservate, ed unica norma della pronunzia come del valor delle sillabe fu diventato l'accento.
(1) Orasio. Epist I, 1C in fine. Éxcepto quocl non simul esses, caeterc, laetus. Dopo Cosare, Livio e Cicerone ne fa grandissimo uso Tacito.
(2) Vedi Plauto, Trin. Pro'og. 8. Cistell. !!, 2, 7, e col sogg. accus. (se) Terenz. Eun. HI, 5, 14.