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Storia della Letteratura Romana

Cesare Tamagni
Francesco Vallardi Milano, 1874, pagine 590

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a cura di Federico Adamoli

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   capitolo vi. = quinta età'. 285
   più presto e piùi facilmente. E dove è pure rag: ~nevole il credere, che varii dialetti latini esistessero già prima della sepai azione dell'idioma parlato dal linguaggio letterario e scritto, dal quale furono per tempo contenuti ed impedì di variarsi maggiormente (1). Ónd' è che paragonando le iscrizioni di questa età coi monumenti del quinto e sesto secolo di Roma si vede con poche inevitabili differenze quasi la stessa lingua plebea, che risorge dopo parecchi secoli di silenzio, perchè le lettere e la lingua illustre volgono rapidamente al declino. Qui le mutazioni sono piane ed omogenee ed è facile seguitarne gli andamenti, perchè senza ir scela di forze estranee procedono regolarmente dall'azione spontanea della pronunzia popolare, la quale nel volger de secoli, cangia, accorcia o mutila per suo comodo i suoni e le parole. Accadendo in uno spazio limitato, tra genti e favelle intimamente affini e nelle stesse conó1-zioni d civiltà e di governo, esse non posson dar luogo a varietà che sion difficili da cogliersi e da spiegarsi, perchè partono dn un principio comune e sono prodotte da cag je quasi identiche. La prima e più schietta latinità stanziata nel centro della penisola, sull' altipiano circoscritto là dal Rubicone e dal Tronto, qua dalla Magra e dal Tevere, si mutò d'età in età e per sola virtù propria sulle labbra dello stesso popolo, finché dopo lunghe evoluzioni venne a produrre le odierne favelle dei Marchigiani, degli Umbri, dei Toscani e dei Romani. E quando una di esse, la favella toscana, diventò per un felice concorso di circostanze la sola ngua letteraria della nazione, si trovò giusto il suo primato sugli altri parlari italifri il perchè meglio di tutte serbava le forme genuine dell'antico idioma latino (2).
   La storia della propagazione del latino nelle altre terre italiane e fuori della penisola è difficile da intendere e da narrare per parecchie cagioni, le quali impediscono che delle lingue neo-romane da esso derivate si possa, come dice lo Scliuchardt (3), disegnare la esatta genealogia. Ed innanzi tratto è da dire che dopo il quinto secolo da Roma e dall'Italia cominciarono ad uscire come due favelle: una della plebe che fu portata in giro dai soldati e dai coloni, l'altra dei magistrati, dei ricchi, dei letterati ; quella fu in pochi secoli la lingua dei volghi romani, questa la lingua del governo, delle scuole e dei libri, nella quale scrissero e per la quale furono detti autori romani Ennio calabrese, Terenzio africano, Virgilio e Plin'j lombardi, Catullo veronese, Seneca, Lucano, Marziale e Quintiliano spagnuoli (4). E questa lingua, finché durò la preponderanza civile e letteraria di
   (1) Vedi Schuchardt, Voi. I, pag. 81.
   (2) Fu trattata naturalmente la quistione se una parte spettasse e quanta nella composizione del latino volgare in Italia agli antichi dialetti italiani.. Non pare che fosse molta, giacché se confrontiamo a cagion d'esempio 1 Osco, il quale dei dialetti italici meridionali è certo il più importante, coli'Italiano, vediamo che questo non presenta nelle sue leggi fonetiche veruna somiglianza cod quello. V Osco schiva le assimilazioni delle consonanti, ed è in ciò il contrapposto del Latino ma più ancora dell1 Italiano. L'Osco ama preporre un I a certe vocali, e ciò fa veramente anche il Napoletano, ma solo davanti all' E e per il fenomeno della dittongazione, onde non si ha da vedere in ciò alcun nesso storico coir 0 ìco L'Osco ama cangiare la tenne in media, ma questa è tendenza di tutte le tngue neo-romane non del solo Italianoc Essa dipende da una causa più profonda che non sia il contatto acci doni ale d'una con altra lingua.
   Il Volscc e l'Umbro lasciano cadere il T flessivo nella conjugazione, dandoci per modo di esempio : habia = habeat. Ma questa ed altre somiglianze provano soltanto P affinità originaria degli idiomi italiani col latino, non una posteriore influenza di quelli su questo, quando da padrone si dilatò nella penisola. Non pertanto è verisimile che molti provincialismi siano entiati nel latine volgare, e forse è questo il solo modo di spiegare gli idiotismi italiani, ossiano le forme italiane che non trovano corrispondenza nelle allre lingue neo-latine. Il Biez, dal quale son prese queste notizie, le conchiude dicenuo alla sua volta che la lingua italiana è tra le nto-latine senza dubbio la meno mescolata. Vedi la Prefazione al Dizionario Etimologico 3 Schuchardt I, 80*
   (3) Schuchardi. I, 82,, ecc.
   (1) Vedi i misi Studii latini, p. 16.